GIOVANNI PASCOLI: la poesia del “fanciullino”

 

Assai meno vistosa, ma più penetrante di quella dannunziana e anche più capace di collegarsi con aspetti reali della società italiana del suo tempo, è la poesia di Giovanni Pascoli.

Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna nel 1855. La sua infanzia e la sua adolescenza furono funestate da una serie di lutti: l’assassinio del padre (1867), la morte della sorella Margherita (1868) e poi, a breve distanza l’uno dall’altro, quella della madre e dei fratelli Luigi, Giacomo e Ruggero.
Compiuti gli studi medi e liceali a Urbino, Rimini e Firenze, Pascoli frequentò l’Università di Bologna, dove ebbe per maestro Giosuè Carducci e per compagni Severino Ferrari e il leader dell’anarchismo romagnolo, Andrea Costa. Si iscrisse, così, all’Internazionale e venne arrestato per alcuni mesi nel 1878. Abbandonata l’attività politica si laureò e insegnò per alcuni anni nei licei (a Matera, a Massa e a Livorno). Poté così chiamare con sè le due sorelle, Ida e Maria: e quest’ultima rimase con lui tutta la vita. La sua fama di latinista gli fruttò vari incarichi e la docenza universitaria. Nel 1906 venne chiamato a succedere a Carducci nella cattedra di letteratura italiana presso l’Università di Bologna. Morì nel 1912.

Le sue opere principali sono “Myricae“…, “Primi poemetti“…, “Canti di Castelvecchio“…, “Poemi conviviali“…, “Odi e Inni“…, “Canzoni di re Enzio“…, “Poemi italici“… e, postumi, “Poemi del Risorgimento” e “Poesie varie“.

GLI STUDI DANTESCHI E LE PROSE

Da ricordare anche gli studi danteschi (“Minerva oscura“…, “Sotto il velame“…, “La mirabile visione“) e le prose, fra le quali particolarmente importante quella dedicata all’esposizione della sua poetica, IL FANCIULLINO.

Tutta la poetica pascoliana s’indirizza in un’unica direzione: la scoperta dell’infanzia. Per lui il poeta coincide con il fanciullino che è dentro di noi: anzi l’età veramente poetica è quella infantile e nel ricordo dell’infanzia si esaurisce la poesia più autentica.
La poesia non s’inventa, ma si scopre, perché essa si trova nelle cose stesse: in essa bisogna saper vedere il particolare poetico e questo lo può fare solo chi la guarda con occhi puri, come se le vedesse per la prima volta. Ma un tal modo di guardare è proprio del fanciullo e quindi il poeta deve ricordare e ripetere le impressioni che provò da bambino.

La poesia deve dare ad ogni cosa il suo nome, come fanno i bambini.
La poesia deve essere spontanea e intuitiva, priva di sovrastrutture culturali, proprio com’è la concezione del mondo che ci si forma nell’infanzia.
La poesia conduce ad abolire l’odio, a sentirsi tutti fratelli e contentarsi di poco, come capita ai fanciulli.
La concezione tolstoiana o francescana richiama, appunto, una sorta di infanzia ideale dell’umanità. Il mondo si trova alla vigilia di una nuova bufera che rischia di travolgerlo: il ricordo dell’infanzia – reale ed ideale dell’uomo pare naturale rifugio di fronte a simili prospettive.
L’elemento più patetico (e poetico) dell’emigrazione sta in quella necessità di allontanarsi dal paese e dalla casa in cui si è nati e quindi nella nostalgia della propria terra e del mondo della propria infanzia.

Il carattere stesso del Pascoli, e in particolare la sua sensualità, ha l’eccitabilità, la scontrosità e la curiosità proprie dei temperamenti infantili.
Lo sviluppo dei temi nella sua poesia avviene attraverso due momenti distinti (uno giovanile, tardo-romantico e fantastico, l’altro realistico) che approdano, attraverso la suggestione della tragedia familiare alla poetica della memoria, del ricordo dell’infanzia.
Tutto, dunque, spinge in un’unica direzione: la scoperta dell’infanzia.
Con l’infanzia si identifica la poesia, alla memoria dell’infanzia approda il suo travaglio stilistico, all’infanzia del mondo corrisponde la sua concezione evangelica e umanitaria.
In tal modo Pascoli coglie un tratto reale della psicologia e della condizione dell’uomo moderno: il vagheggiamento di un luogo che si sottragga al caos e alle contraddizioni della società contemporanea, di un’oasi di originaria innocenza in cui non giungano gli echi delle violenze e delle brutture della nostra vita, in cui si spengano i contrasti e le lotte, in cui si vanifichino i nostri problemi.
Vagheggiamento che nasce da un desiderio naturale di evasione al predominio delle cose sugli uomini, alla frenesia della civiltà industriale, alla necessità delle guerre, all’impero del denaro.
Desiderio che l’uomo virile raffrena, considerandolo una pura e pericolosa illusione e impegnandosi, invece, nella lotta quotidiana: che, tuttavia, rimane nell’animo suo, come uno dei termini della dialettica della sua personalità, e di tanto in tanto lo affascina, e rende più drammatica la sua lotta, più umano e contrastato il suo impegno.
I simboli di questa condizione sono appunto, nella letteratura decadente, l’infanzia e la campagna, ora più ora meno esplicitamente contrapposte all’uomo adulto e alla città.
Tutte le componenti della poetica pascoliana concorrono a creare questo simbolo (e di qui la poesia), ma concorrono anche ad isolarlo e quindi a renderlo astratto rispetto alla realtà nel suo complesso (e di qui i limiti).

La scoperta dell’infanzia nel Pascoli non nasce, dunque, – e dovrebbe essere chiaro – soltanto da un moto intimo o dal ricordo della tragedia familiare o dalla natura stessa della sua sensibilità: nasce anche da quella angosciosa aspettazione di eventi che avrebbero travolto l’umanità, dal terrore per il movimento delle masse e per la reazione borghese, dalla guerra spietata fra le nazioni, dal crudele destino degli emigranti, dalla concezione evangelica che era venuta maturando in lui.
La sua infanzia è un sogno di innocenza e di pace a cui lo spinge la condizione dell’uomo moderno: e il suo modo di rappresentarsela: in essa si determina un incontro fra elementi storici reali e oggettivi, elementi ideologici ed elementi individuali e sentimentali.
Certo quanto più questi elementi sono confusi, superficiali, astratti, tanto più quella scoperta mostra i suoi limiti, quel simbolo si manifesta modesto, monotono, statico, poco nutrito di una vera esperienza storica, di un vero dramma di vita, di autentiche ragioni culturali.
Perché è vero che quella poetica ci appare meno distante dai problemi reali del superuomo dannunziano: ma è anche vero che, se la confrontiamo con la realtà, anche essa presenta un largo margine di astrazione e di retorica, si dimostra incapace di comprenderla nella sua vera assenza.

 

SOCIALISMO NEBULOSO E NAZIONALISMO VELLEITARIO

Pascoli ritratto dal Viganò (1908)

Vuoto e nebuloso è il suo socialismo che non sa tener dietro all’effettivo sviluppo dei movimento operaio, delle sue istanze e delle sue idealità. Velleitario il suo nazionalismo che sorge come sovrastruttura retorica sulla iniziale constatazione della nostra povertà e debolezza. Retorico anche il suo francescanesimo e tolstoismo che non è, come altrove, l’espressione ideologica di masse impotenti a spezzare le loro catene e liberarsi dai loro oppressori. Costruzione in gran parte a posteriori lo choc per la tragedia familiare. Vago e generico il moto di terrore per una futura catastrofe dell’umanità. Piccolo-borghese la sua poetica dell’oggetto e delle piccole cose, ben lontana dalla carica di denunzia, di opposizione alla realtà ufficiale e di scoperta di una nuova dimensione dell’uomo che caratterizzavano l’autentico verismo. Esterni e intellettualistici i suoi simboli: la Morte, il Destino, il Dolore, la Poesia, e così via. Viziato tutto il suo comportamento umano, sempre perplesso, vittimistico, inibito. Il profilo di Pascoli ci si presenta così come il profilo di un letterato conservatore, meno chiassoso e intenso di quello dannunziana ma più untuoso e penetrante e forse più corruttore perché più aderente alla sensibilità piccolo-borghese.

Proprio perchè nasce all’interno della poetica che siamo venuti illustrando, con le caratteristiche e i limiti che abbiamo indicato, il mito dell’infanzia di Pascoli ha una sua precisa collocazione. Non può essere confuso con quello del Leopardi, contrapposizione disperata dell’illusione alla realtà, né con quello di Carducci, momentanea pausa delle eterne risse che gli ardono nel cuore e che egli non vuole e non può lenire, né con quello assai posteriore di Pavese, tanto più ricco di fermenti intellettuali, tanto più torbido di inibizioni sessuali, tanto più nutrito di appigli storici. Questo mito è la prima scoperta decadente dell’infanzia nella nostra letteratura. Decadente per il suo carattere di evasione dalla stretta dei problemi del mondo moderno, di fuga dall’alienazione dell’uomo, d’incapacità di opporsi alla realtà; e basterebbe pensare a quanto peso hanno nel suo formarsi gli elementi ideologici come la lotta di classe e il suo rifiuto, la lotta fra le nazioni e le prospettive di un nuovo disastro, l’ideale umanitario e le sue radici psicologiche e storiche. Decadente per il suo carattere di malattia, che gli toglie ogni serenità, rende più acuta la sua sensibilità, ma rende anche disgregate e morbose le sue impressioni. Decadente per il peso che viene ad assumere in essa il problema formale, quella ricerca linguistica e ritmica, su cui si è esercitata tutta la critica più recente. Ma è anche una scoperta pascoliana con una sua vena di autenticità nonostante i limiti che le derivano dalla sua cultura irrimediabilmente invecchiata o professorale, dalla sua ristretta esperienza umana, dal ritardo stesso con cui i grandi problemi dell’età moderna (socialismo, imperialismo, industrialismo, urbanesimo, ecc.) venivano sorgendo in Italia. Matrice, quindi, di una poesia minore che non consente una gamma troppo larga di rilievi psicologici, che rivela un mondo ideale angusto su cui è difficile costruire una poesia di largo respiro, ma che, tuttavia, ci dà una poesia inequivocabile e ci porta ad alcune scoperte dell’anima moderna che ancora oggi risultano valide.
Varrà la pena soffermarsi un poco, a questo punto, su alcuni aspetti della natura, del temperamento pascoliano. Ad essi, del resto, si è rivolta con particolare accanimento l’attenzione di una parte della critica più recente, spietata forse nella sua ricerca, ma certo, sul piano psicologico, acutissima. Ed è interessante notare come lo studio dei dati biografici sia molto più importante e illuminante nel Pascoli – in questo professore piccolo-borghese; estraniato dal mondo e mai turbato da qualche grande avventura – piuttosto che nel suo “fratello maggiore e minore” che volle fare della vita stessa un’opera d’arte e che passò dalle donne ai duelli, dai libri ai grandi quotidiani, dall’Abruzzo natio al teatro di Eleonora Duse, dalle imprese di guerra alla marcia su Fiume. Proprio perché la vita di D’Annunzio e il suo temperamento sono scoperti, all’aperto, in piazza e possono afferrarsi con un’occhiata, e, invece, la natura del poeta romagnolo è più chiusa e segreta e raramente si manifesta pubblicamente. E’ certo, però, che la migliore documentazione sulla vita privata di Pascoli che si è avuta negli ultimi anni (e più ancora probabilmente la “Vita” scritta da Maria e il suo epistolario quando potranno essere conosciuti) mette in luce un carattere fornito di una sensibilità così contraddittoria e capricciosa, così ricca di complessi e di umori, così simile alla sensibilità scossa e morbosa propria del momento di passaggio dalla infanzia alla virilità, da far sorgere il sospetto che in lui il fanciullo metaforico coincidesse in parte con il fanciullo reale. Particolarmente interessante è la sensualità pascoliana che esiste ed è profonda e torbida anche se meno evidente di quella dannunziana. Leggete, ad esempio, alcuni dei documenti più recenti che illuminano í rapporti fra lui e le sorelle.

 

UNA SENSIBILITÀ CONTRADDITTORIA

Vi dominano un amore e una gelosia morbosa che fanno pensare ad alcuni processi psicologici analizzati dal Freud. Egli si domanda angosciato se le sorelle possono amarlo almeno come amano le loro compagne di scuola:
“È un mio triste pensiero, pensiero di tutti i giorni e di tutte le notti, che ì vostri baci, le vostre parole, le vostre lettere non hanno potuto distruggere in me.
Amate voi me, che ero lontano e parevo indifferente, mentre voi vivevate all’ombra del chiostro, e gioivate poco e piangevate molto e soffrivate le scosse fredde della febbre e i martirii dell’isolamento? Amate voi me, che sono accorso a voi soltanto quando escivate dal convento raggianti di mite contentezza, m’amate voi almeno come le gentili compagne delle vostre gioie e consolatrici dei vostri dolori?”.

E quando la sorella Ida si fidanza egli reagisce come un innamorato tradito, come un fanciullo irragionevole che non sa adattarsi alle leggi della vita e della società. E particolarmente insopportabile gli riesce l’idea che essa possa divenire possesso di un altro:

“Quanta amarezza! Quale enorme felicità non avrei io rifiutata, pur di non far dispiacere a lei e a te! Oh! un gran torto ha la tua sorella: quella d’avere idoleggiata per sé, esclusivamente per sé, la felicità che avrebbe tolta a noi anche col ferro e col veleno! … Insomma, mia dolce sorellina buona, bisogna indurla a tornarsene là; a Sogliano… Noi allora lasceremmo subito Livorno, e trasporteremmo la nostra roba – residua – in qualche campagnina. E vivremmo tra la campagna e Roma… Ma, o mia Mariù, bada bene; tu devi andare a nozze anche tu: se io sono troppo vecchio per prendere moglie, verrò a vivere con te, angiolino mio!… Bada bene: per noi sarebbe impossibile la vita, con la nostra sorella lontana che ci comunicherebbe continuamente i suoi malesseri, i suoi sospetti, il suo mal di stomaco, la sua gravidanza, i suoi parti e i suoi figli… No! sopportare quelle cose è di chi o ha sperimentato o ha volontariamente rinunziato. Noi due non siamo né nell’uno né nell’altro caso! ».

LA GELOSIA PER LA SORELLA

La sorella del poeta, Maria – Mariù (1909)

E l’idea insopportabile della sorella in possesso di un altro, della sorella che diventa donna ed ha figli ritorna in una altra lettera dello stesso periodo, insieme col motivo dell’amore-odio per Ida e a quello di un nuovo accesso di amore per Maria con cui vagheggia la vita in comune (ed anche qui, come osserva Vicinelli, bisogna chiamare in campo Freud per definire questo fenomeno, classico esempio di processo di sostituzione)…

“Mia cara Mariù adorata, ti scrivo dopo tornato qua nella Fore­steria. Sono le undici e mezza di notte. L’Ida dopo avere letta un po’ distrattamente la tua, ti ha risposto: io non ho letta questa risposta. Me l’ha quasi levata di mano, dicendomi: “se vuoi fare un saluto… “Io ho detto che non importava e sono venuto via. Oggi è stato il suo giorno. È venuto lo sposo: poi siamo andati a sera tarda a riaccompagnarlo a casa, con un fango, una nebbia… Lei era a braccetto del suo fidanzato, era felice e svelta. È fatta: d’autunno Salvatore conta di prenderla. Così era ed è il meglio, il bene.

“O Mariù, non riconosci giustificato un mio tacito e triste lamento? non con lei, non con altri lo faccio questo lamento, ma nella mia anima c’è. Avessi visto il cambiamento a vista! …Ma prima, quale ossessione. E’ stato chiamato, è venuto dopo molta aspettazione dell’Ida che era sempre alla finestra; ha parlato con me, in presenza di tutti, di tutto; ha domandato persino quante lettere al mese richiedeva l’Ida. Verrà, ha detto, a Livorno. Nessuno ha l’idea che vengono a una casa di… giovani. Io sono decrepito per loro. O Mariù mia adorata! La cosa è fatta, e l’Ida si è trasformata subito. A me ha fatto un po’ senso, e sono sotto questa impressione…
“Io ti affermo, mia adorata, mio an­giolo, che, nonostante qualche ribellione di nervi, io vedo, prevedo, la mia felicità. La mia felicità sta in te. Tu mi ami, io ti amo. Si tratta per noi d’un affetto che possa cedere a un altro maggiore più vivo più caldo? Io so che da parte tua non è possibile: tu devi credere che da parte mia non è possibile. Tu non hai le prove d’affetto che essa ha da me? No? Io ho messo su casa, ho portato via tutte e due, ho lavorato e vissuto… solo per te.

“Io non perdo nulla: mi resti tu… Che furore d’affetto sento a rivederti, a riabbracciarti, a consolarti, a farmi consolare da te. Aver te è aver tutto ciò che si può sperare di divino nel mondo, o mio giglio o mio angiolo!”.

Su questa base non stupiscono più gli altri episodi della biografia pascolia­na: la pistola trovata sul suo comodino il giorno delle nozze di Ida, la furia di abbandonare la casa in cui avevano vissuto insieme, i rapporti di affetto morboso con Mariù che lo resero sempre esitante al matrimonio (anche quando s’era davvero fidanzato in segreto con una cugina di Rimini). E non stupisce quel documento impressionante già pubblicato dal Biagini (lettera a Ugo Brilli del 13 settembre 1879):

“Mio caro Ugo, la tua lettera mi è venuta opportuna in un momento del mio male, di cui ti parlerò e così cerco di distrarmi per farlo passare. Io, sono so­lo: Mariù, il mio buon angelo, è andata riluttante e piangente a custodire la Nannina nostra (la figlioletta di Ida) intanto che la mamma Ida è di parto… Oh! la tristezza della lontananza! oh! la tristezza dell’addio che si dà tra i viventi! quasi più nera che quando si saluta chi muore e cede alla necessità! Io sono dunque solo solo. E così posso sfogarmi un poco, perchè bisogna pur che nasconda a Maria i miei segreti dolori e presentimenti. Vedi sarà neurastenia, sarà autosuggestione, sarà effetto della vita forzatamente casta e orribilmente mesta, ma io passo certe ore, magari certi giorni, in cui mi pare di dover morire di lì a un minuto, perché il cuore mi si frange all’improvviso… Batte, batte mi pare di sentire da un momento all’altro l’ultimo scricchiolio e poi più nulla”.

Covano in lui, come negli adolescenti, fermenti sessuali che si esauriscono in sé, nell’immaginazione e nel desiderio, senza estrinsecarsi in un gesto o in un’azione e il fenomeno amoroso mantiene il fascino un po’ torbido di qualcosa di proibito e di misterioso. È il “tuffo al cuore” di cui egli talvolta ci parla, è l’atto sessuale misto di attrazione e di timore che investe tutta la natura come in “Gelsomino notturno”, è il fiore misterioso che spande l’alito ignoto di sua vita, a cui ci si avvicina avendo nel cuore “il languido fermento di un sogno che notturno arse” e che dà una infinita dolcezza, tanta che si muore (“Digitale purpurea”), è il senso di vertigine, di venir meno, di dileguare e sprofondare in un abisso…

Il mio non sembra
che un tremore, ma è l’amore, e corre
spossa le membra!

…è l’attrazione per gli ambienti dei monasteri e dei collegi così ricchi di fermenti e desideri repressi, ma accarezzati nella immaginazione. Una sensualità ancora vergine, direi, ma proprio per questo acuta e morbida, eccitata e voluttuosa. E fanciullesca è in lui quella facilità di pianto, il bisogno d’intenerirsi, il piacere di essere consolato. E’ un pianto diverso da quello dell’infanzia ch’era fatto di nulla, perché è nutrito di qualche cosa, anzi di molte cose, ma come quello è un pianto che poi riposa, è un gran dolore che poi non duole. La stessa pietà che s’ispira agli altri è un tesoro che bisogna custodire, ha un sapore acre misto di tenerezza e di dolore.
“Non voglio, Signore, che scemi la vostra pietà”, dice il fanciullo mendico che simboleggia il poeta: e riparte godendo a portarselo intero il suo grave fardello. Fanciulle­sca è anche la sua capacità di commuoversi di fronte a certe parole solenni, perdono, santità, eroismo, senza un’adesione reale al contenuto di quelle parole: così che, nonostante egli pronunzi infinite volte la parola perdono, non perdona affatto all’assassino del padre e non dimentica e ogni volta torna ad accusare e a perdonare. Fanciulleschi infine certi suoi capricci o manie, come il timore del plagio da parte di altri poeti, la vanità, la mancanza di generosità (tipico il caso dei suoi rapporti con D’Annunzio); la questione delle campane di Castelvecchio e così via.

 

ANGOSCIA E SMARRIMENTO

Siamo tornati, dunque, anche per questa via all’infanzia, ma soprattutto abbiamo messo in luce inquietudini e morbosità caratteristiche del nostro tempo. In effetti quel tanto di poesia rintracciabile nell’opera pascoliana la troveremo nei momenti in cui l’impressione della realtà, del presente, e la fuga dalla realtà e dal presente nel ricordo e nella memoria riusciranno a raggiungere la loro fusione e non si smarrirà la consapevolezza del loro contrasto e si saprà dare il senso di smarrimento e di angoscia che ne deriva. Momenti rari e pure importanti per la loro autenticità, per il posto che vengono ad assumere nella storia della nostra coscienza e della nostra poesia.

Rarissimi nelle “Myricae”: che si muovono quasi sempre fra gli estremi di un simbolismo tutto esterno e a tinte fosche, come ad esempio in “Scalpitio”…

Si sente un galoppo lontano (e là…?)
che viene, che corre nel piano
. . . . . . . . . . . .
La Morte! La Morte! La Morte!

…di un ricordo non suggerito da un’impressione reale e presente e quindi astratto e ricercato come in “Cavallino”…

O bel clivo fiorito Cavallino
ch’io varcai co’ leggiadri eguali a schiera
al mio bel tempo…
so ch’or sembri il paese allor lontano
lontano, che dal tuo fiorito clivo
io rimirai nel limpido avvenire

…di un tono sentenzioso, concentrato e retorico…

Oh! scruta intorno gli ignorati abissi:
più ti va lungi l’occhio del pensiero,
più presso viene quello che tu fissi:
ombra e mistero.

…e quello di un impressionismo descrittivo, da verismo minore che non esce – pur nella sua efficacia – dall’ambito del bozzetto…

Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,
arano…

Ma non dobbiamo dimenticare l’attacco di “X agosto” in cui l’impressione del cielo notturno e delle stelle cadenti si trasforma naturalmente in pianto e nel simbolo-ricordo della rondine uccisa…

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella avea nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.

E ancor più “Novembre” in cui la memoria dei morti sorge dal contrasto fra l’illusione della primavera e la realtà del pruno secco e delle piante stec­chite…

Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro senti nel cuore…
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.

“Sogno” anticipa in qualche modo il ciclo del “Ritorno a San Mauro” e può dar­ci la misura di quanto siano distanti anche le migliori fra le “Myricae” da al­cune liriche posteriori:…

Per un attimo fui nel mio villaggio,
nella mia casa. Nulla era mutato.
Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza muta ed un’angoscia muta,
Mamma? – È là che ti scalda un po’ di cena.
Povera mamma! e lei, non l’ho veduta.

 

IL PASCOLI MAGGIORE DE “I DUE CUGINI”

Mentre “I due cugini” che è, certo, la più complessa delle “Myricae” (e infatti compare solo nell’edizione del 1897), pur non essendo immune da alcuni difetti rilevati dal Croce, appartiene già al Pascoli maggiore. L’amore dei due cuginetti e poi lo sgomento e il pianto del bimbo morto, che rimane piccolo di fronte al crescere della sua sposa, ci fanno muovere nel motivo tipico della poesia pascoliana, il contrasto fra l’infanzia e la maturità…

Tu piccola sposa crescesti:
man mano intrecciavi i capelli,
man mano allungavi le vesti.

Ed il piccolo cuginetto sente ora, con la sua sensibilità di fanciullo, ora, più di quando è morto, ch’ella è diventata diversa, che appartiene a un mondo che lo turba, a un mondo per lui sconosciuto e incomprensibile…

Tu l’ami, egli t’ama tuttora;
ma egli col capo non giunge
al seno tua nuovo, che ignora.
Egli esita: avanti la pura
tua fronte ricinta di un nimbo,
piangendo l’antica sventura
tentenna il suo capo di bimbo.

Nelle “Myricae” non si va molto al di là di questi esempi. Il meglio della poesia pascoliana dobbiamo, invece, cercarlo nella produzione posteriore (e soprattutto in “Primi poemetti” e nei “Canti di Castelvecchio”). Qui la poesia del ricorda acquista ben altro respiro. È il suono delle ciaramelle…

…suono di chiesa, suono di chiostro,
suono di casa, suono di culla,
suono di mamma, suono del nostro
dolce e passato pianger di nulla.

È il ritorno nel dolce paese della sua infanzia, miracolosamente sospeso fra realtà, ne “Le rane”…

Ho visto inondata di rosso
la terra dal fior di trifoglio…

È il suo colloquio immaginario con la madre…

“Sai, dopo la disgrazia,
ci ristringemmo un po’…”
“E comprerò leggiadre
vesti alle mie fanciulle
e l’abito di tulle
alla lor dolce madre.”

 
IL MOTIVO DELL’INFANZIA
 
Ma soprattutto il motivo dell’infanzia si afferma quando riesce a sottrarsi alla tentazione autobiografica e riesce ad oggettivarsi, come ne “Il Soldato di San Pietro in campo”, “La servetta di Monte”, e ancor di più in “Italy”. Questa poesia, su cui hanno richiamato di recente l’attenzione dei lettori sia il Getto che il Sapegno, trova nell’audace struttura linguistica (un impasto di italiano, italo-americano e inglese) l’espressione più adeguata per una situazione in cui il motivo dell’infanzia si manifesta nella sua più ampia complessità. Qui non c’è soltanto la nostalgia degli anni giovanili: ma il contrasto fra la civil­tà nuova, quella americana, e il modo di vivere patriarcale dei vecchi genitori contadini.

Ghita diceva: “Mamma, a che filate?
Nessuna fila in Mérica. Sono usi
d’una volta, del tempo delle fate.
Oh yes filare! Assai mi ci confusi
da bimba. Or c’è la macchina che scocca
d’un frullo solo centomila fusi;

…fra la vita avventurosa degli affari, della ricerca affannosa del denaro e del successo, e il bisogno di riposo…

“Molti bisini, ho yes… Non tiene fruttistendo…
Oh yes, vende checche, candi, scrima…
Conta moneta: può campar coi frutti…
Il bascheto non rende come prima
Yes, un salone che ci ha tanti bordi…
Yes, l’ho rivisto nel pigliar la stima… »
Il tramontano discendea coi sordi
brontoli. Ognuno si godeva i cari
ricordi, cari ma perché ricordi:
quando sbarcati dagli ignoti mari
scorrean le terre ignote con un grido
straniero in bocca, a guadagnar danari
per farsi un campo, per rifarsi un nido…

…fra la bimba gracile e malata, nata tra gli agi in terra straniera, e l’aria buona, la vita semplice e sana, della patria dei suoi genitori…

Quando tu sei venuta, o rondinella,
t’hanno pur salutato le campane;
ti venne incontro il nonno con l’ombrella,
ti s’è strusciato alle gambine il cane.
Pioveva; ma tu, bimba, eri coperta;
trovasti in casa il latte caldo e il pane.
Il tuo nonno ansimava su per l’erta,
a tua nonna pregava al focolare.
Brutta la casa, sì, ma era aperta,
o mia figliola nata in oltremare.

Tuttavia i momenti più alti e complessi della poesia pascoliana bisogna ricercarli in quelle liriche in cui il contrasto fra presente e passato, fra impressione diretta e simbolo, fra maturità e infanzia si presenta nel modo più consapevole e dà luogo a un sentimento profondo di smarrimento, di turbamento e di angoscia. Si tratti del paesaggio fasciato di nebbia che nasconde “le cose lontane” nello spazio e suscita direttamente il desiderio di non vedere neppure le cose lontane nel tempo, “quello ch’è morto”…

Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
un fumo che ancora rampolli su l’alba
da’ lampi notturni e da’ crolli d’aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!

 

IL TURBAMENTO DI FRONTE ALLA VITA

Oppure dal turbamento di fronte al concepimento di una nuova vita, che appare alla sensibilità infantile del poeta colmo di mistero e di fascino e sembra estendersi dalla finestra illuminata nella notte a tutta la natura circostante. Quel turbamento che ispira forse la lirica più compiuta del Pascoli, “Gelsomino notturno”…

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari,
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari…
Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano; s’è spento.
È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

O si tratti ancora (ne “La mia sera”) della pace che ispira un crepuscolo sereno dopo una giornata di burrasca e, come in Nebbia, del desiderio di riposo, di abbandono di evasione dai pensieri e dal dolore, di addormentarsi come quando si era fanciulli…

Don… Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.

Oppure (ne “La tessitrice“) del ricordo dell’amore passato, della donna morta che vive ormai solo nel suo cuore…

Mi son seduta sulla panchetta
come una volta… quanti anni fa?
Ella, come una volta, s’è stretta
su la panchetta.

Sono questi, mi sembra, i momenti più autentici della poesia pascoliana, quelli in cui il poeta romagnolo ha conosciuto per tutti noi, e per sempre, qualcosa che appartiene alla nostra coscienza di uomini moderni.

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VEDI ANCHE . . .

GIOVANNI PASCOLI – Vita e opere

GIOVANNI PASCOLI: la poesia del “fanciullino”

GIOVANNI PASCOLI – Poeta moderno

CARMINA (Pomponia Grecina) – Giovanni Pascoli

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