GOLDONI, PARINI, ALFIERI – I tre grandi del Settecento

Alessandro Longhi - Ritratto di Carlo Goldoni (c 1757) Ca Goldoni Venezia.jpg

 

Goldoni, Parini, Alfieri…, un borghese, un popolano, un nobile contro le “ridicolezze, gli abusi, i vizi” dell’aristocrazia del settecento.

In un punto delle sue “Memorie” Carlo Goldoni racconta un episodio assai gustoso, che vale la pena di rileggere.

Non è soltanto una scena squisitamente goldoniana…, essa può ben fungere da introduzione al discorso che mi accingo a fare. Narra dunque il Goldoni che, dopo l’allegro viaggio sulla famosa “barca dei comici” arrivato a Chioggia e andato da sua madre, dovette affrontare il burbero padre che lo sapeva fuggito dal collegio di Rimini.

– “Uscite”, disse mio padre alla moglie e alla sorella, “lasciatemi con questo poco di buono”. Esse escono…, io mi avvicino tremando.. “Ah, padre mio!…” – “Come mai, signore mio bello? Qual caso vi ha portato qui?”… “Padre mio, vi avranno detto…” – “Sì, mi hanno detto che voi, nonostante le rimostranze e i buoni consigli, a dispetto di tutti, avete avuto la sfacciataggine di lasciare Rimini improvvisamente” – “Che avrei io fatto a Rimini, padre mio? Era tutto tempo perduto per me” – “Che dite, tempo perduto?! Lo studio della filosoga, tempo perduto?” – “Ahi, la filosofia scolastica, i sillogismi, gli entimemi, i sofismi, i nego, probo, concedo, ve ne ricordate ancora, padre mio?”.

“Egli non può dissimulare un piccolo moto delle labbra, da cui trapelava la gran voglia che aveva di ridere…, ed io ero abbastanza accorto per non notarlo, e però mi feci animo. “Ah, padre mio”, continuai, “fatemi imparare la filosofia dell’uomo, la buona morale, la fisica sperimentale”.

Il colloquio tra padre e figlio continua poi sul tema dei comici coi quali Carlo è arrivato fino a Chioggia, e il buon burbero padre finisce molto volentieri col perdonare al figlio la sua scappatella. E anzi, afferma che andrà lui stesso a ringraziare gli attori per la loro cortesia verso Carlo. Non molto tempo dopo, sarà proprio lui che si servirà degli attori, del fascino da loro esercitato sul figlio, dell’attrazione che provava per il loro teatro, per cacciar via dal suo animo insani propositi di farsi prete.

Nessuna scuola allora avrebbe potuto insegnare al Goldoni giovanetto ciò che egli cercava, ciò che egli chiedeva al suo secolo. Vi dominava l’aborrita scolastica…, essa era ancora nelle mani dei gesuiti. Quanto alla cultura ufficiale, vi spadroneggiavano gli Arcadi, vi dominavano gli Accademici di tutte le risme. Poi, man mano che il secolo s’inoltrerà, e Goldoni se lo visse quasi tutto, dal 1707 al 1793, le cose cambieranno, e anche in Italia fiorirà l’età dei lumi. Ma lui avrà camminato per la sua strada, e ciò che dalla scuola non aveva avuto, lo trarrà dalla vita, dall’esperienza, dalla gente simile a lui.

La filosofia dell’uomo, la buona morale. Una richiesta come quella di Carlo Goldoni l’avrebbe sottoscritta certamente anche un altro poeta, qualche decennio dopo di lui. Lombardo, questi… Giuseppe Parini. Due mondi completamente diversi, quello del Goldoni e quello del Parini…, una vita agiata e pacifica, un successo mondano e fastoso, viaggi per l’Italia e lunghi soggiorni all’estero, per l’uno…, un’esistenza grama per la sua gran parte, una condizione quasi sempre di sottomissione ora presso le famiglie, in cui faceva il precettore, ora sulle cattedre degli istituti scolastici a lui affidati, una ritrosa vecchiaia dopo una vita sedentaria in città, con lo sguardo pieno di nostalgia rivolto verso i “colli ameni” del “vago Eupili”, il dolce laghetto di Pusiano dove aveva avuto i natali, nel 1729, per l’altro.

E tuttavia, nonostante queste differenze, e altre cose che indicherò più avanti, lo spirito della sua opera è proprio questo…, un uomo nuovo, una morale nuova. Anch’egli cerca…, e neanche per lui sarà la scuola che servirà. Parini studia da prete, e lo diventa. Ma di religioso in lui non c’era nulla…, della fede cattolica, nemmeno l’ombra. La sua filosofia dell’uomo, la sua buona morale egli la troverà nei suoi rapporti umani, a contatto con gente che aborre e che condanna, a contatto con l’altra gente di cui si fa portavoce.

L’avrebbe sottoscritta anche Vittorio Alfieri la richiesta espressa dal Goldoni a suo padre? Tra l’avvocato veneziano e il nobile piemontese c’è, evidentemente, un abisso. Ma anche lui, come il Goldoni scrive la sua autobiografia, se la prende con gli studi pedanteschi, si ribella ai “vergognosissimi perdigiorno”, alle “idee p circoscritte o false o confuse”. E proprio in questo punto l’Alfieri aggiunge che egli aveva “una certa naturale pendenza alla giustizia, all’eguaglianza, e alla generosità d’animo che mi paiono gli elementi d’un ente libero, o degno di esserlo”.

Più o meno, dunque, Goldoni, Parini e Alfieri cercavano la stessa cosa. Era il loro secolo che li spingeva a questo…, e più che la sua cultura che si andava rinnovando, più che la sua ideologia illuminista, era propria la situazione reale della società in cui vivevano. Com’è che essi vi cercano qualcosa di nuovo e di diverso, pur partendo da posizioni assolutamente eterogenee tra loro?

Il fatto è che nella società in cui essi vivevano c’era qualcosa da cui tutti e tre aborrivano, qualcosa che essi avevano davanti a sé e guardavano con ostilità, quel qualcosa, appunto, che impediva quel rinnovamento che essi auspicavano, e che Goldoni così bene aveva sintetizzato nell’espressione “filosofia dell’uomo, buona morale”.

Essi avevano davanti a sé una classe decaduta e corrotta…, l’obiettivo comune della loro polemica, e uso pure questa parola, anche se non corrisponde egualmente bene per tutti e tre all’essenza della loro opera, .. Era l’aristocrazia, quella nobiltà di cui l’Alfieri, come lui stesso dice all’inizio della sua autobiografia, voleva “svelarne le ridicolezze, gli abusi e i vizi”.

In fondo, gran parte del teatro di Goldoni, fa proprio quello che si proponeva l’Alfieri. Per Goldoni l’uomo vero, assennato, sereno, operoso, è il borghese… uno dei personaggi da lui preferiti è Pantalone… sì, l’antica maschera, ma nobilitata dal buon senso tipico della classe agiata dei mercanti, dalla dignità del suo lavoro. Di contro alla simpatia con cui Goldoni tratteggia lui, e tanti altri suoi personaggi, che magari portano ancora il nome di una maschera della Commedia dell’arte, ma sono degli uomini o delle donne nuove (dalla Rosaura della “Vedova scalza” alla Mirandolina della “Locandiera”…, da Lucietta e Filippetto dei “Rusteghi” al Guglielmo de “L’avventuriero onorato”), sta la decisa messa in ridicolo della nobiltà.

L’aristocratico viene sempre presentato in modo che le sue parole, il suo modo di ragionare e di agire appaiono superati, di un’altra età, e come tali, appunto, ridicoli. Di fronte alla naturalezza, alla semplicità, alla franchezza dei suoi personaggi borghesi, sta la ricercatezza, la stravaganza, la leggerezza, il parassitarismo dei suoi personaggi aristocratici. Una delle commedie meno rappresentate, e per pour cause, ma più interessanti da questo punto di vista è il “Feudatario” (che è del 1752) in cui c’è proprio la contrapposizione tra l’antico rapporto sociale che sussiste nel feudo e la più libera, colorita, felice vita dei contadini.

Poeta del terzo stato, il Goldoni, De Sanctis lo chiama addirittura il Galileo della nuova letteratura. E aggiunge … “Il suo telescopio fu l’intuizione netta e pronta del reale, guidata dal buon senso. Come Galileo proscrisse dalla scienza le forze occulte, l’ipotetico, il congetturale, il soprannaturale, così egli voleva proscrivere dall’arte il fantastico, il gigantesco, il declamatorio e il retorico”.

E di fronte all’altra gente che non stava al di sopra della borghesia nella scala sociale, ma al di sotto, quale fu l’atteggiamento del Goldoni? La plebe dei pescatori, dei gondolieri, dei contadini, le cameriere spiritose e i servi astuti, sono tutti visti con simpatia. Si pensi alla gente del popolo che figura nelle “Baruffe Chiozzotte” o nel “Campiello”…, quanta felicità di descrizione, quanta vivezza di linguaggio, così vicino al discorso comune degli umili, dei poveri, dei lavoratori più modesti ! !Mentre a Venezia Goldoni all’attacco sferrato contro di lui dai nemici del suo nuovo teatro – il reazionario Carlo Gozzi in testa – rispondeva con una serie di capolavori, come, nell’ordine, “Il campiello” (1756), la “Casa Nova, le “Baruffe chiozzotte” e i “Rusteghi”, a Milano un prete che da poco aveva ricevuto gli ordini, scriveva un “Dialogo sopra la nobiltà”. La conosceva bene, lui, la nobiltà, perché nelle sue case serviva da precettore e nulla gli sfuggiva al suo attento occhio di campagnolo sbattuto dal bisogno in un mondo così diverso da quello in cui aveva tratto origine. Così egli immaginò che un poeta povero ed un aristocratico si vengano a trovare gomito a gomito nella fossa, per uno strano accidente. “Fatti in là, mascalzone… ” dice il nobile…, …e il poeta … “Tem’ ella forse che i suoi vermi l’abbandonino per venire a me? Oh ! Le so dir io ch’è vorrebbon fare il lauto banchetto sulle ossa spolpate d’un poeta”… Lì dove essi sono, “tutti riescon pari, ned ecci altra differenza se non che, chi più grasso ci giunge, così anco più vermi sel mangiano”. Il poeta dimostra al nobile che gli uomini sono tutti uguali, e che la nobiltà, spogliata della virtù, della ricchezza e dei talenti, è ben misera cosa.

 

 

Dall’affermazione di quest’eguaglianza alla rivolta contro la disuguaglianza che tuttavia esiste, e che scava un abisso tra il giorno del nobile e il giorno del lavoratore, il passo è breve. Questo senso di rivolta nasce nell’animo di un figlio delle classi subalterne, più derelitte e misere. Fornitrice di masse d’uomini intesi al duro lavoro dei campi o delle prime industrie, fornitrici di servi e di precettori, fornitrici di preti, per il basso clero sfruttato e straccione.

Questo era il Parini…, un forte carattere, e la versatilità nella poesia lo trassero dalla massa servile, e lo elevarono al rango di poeta accusatore. La sua accusa assume la forma della satira. Ancora una volta il modo di vita dell’aristocrazia, moralmente ormai anacronistico, si presta al ridicolo. Descrivere la giornata di un nobile era già di per sé fonte di comicità, con tutte le sue cerimonie, i suoi vezzi, le toilettes e le passeggiate, i discorsi e gli amori…, ma il Parini vi aggiunse il profondo risentimento contro questa ingiustizia, la ribellione contro quell’assurda sopravvivenza di un passato ormai morto. E scrisse un’opera piena di una potente ironia. Ricordo i momenti più belli del suo “Giorno”…, l’inizio, dove c’è la contrapposizione del mattino del povero e del mattino del ricco, la scena della levata, della pettinatura, dell’uscita in cocchio, del pranzo – e qui, come non rileggere quei versi sferzanti……

Tumultuosa, ignuda folla

di tronche membra e di squallide facce

e di bare e di grucce, ora da lunge

vi confortate…, e per le aperte nari

del divin pranzo il nettare beete

che favorevol aura a voi conduce…

Anche nelle “Odi” il Parini è sempre il poeta dell’umile volgo, pur nella forma più compassata ed artisticamente tradizionale. A questo proposito va detto anche questo… che venuto fuori dall’umile vulgo, dalle classi subalterne, il Parini presenta sì nel suo poemetto e nelle sue “Odi” un contenuto nuovo, il contenuto di quella rivolta morale contro la nobiltà. Ma egli accetta le vecchie forme della poesia…, il “Giorno” segue, in versi sciolti, lo schema del vecchio poemetto didascalico. Le “Odi” non si discostano dalle vecchie poesie d’occasione (La caduta, l’Educazione, il Bisogno, ecc.ecc.). Egli rimane più legato, insomma, alla tradizione…, anche come uomo, è fondamentalmente un moderato…, guarda con simpatia alla Rivoluzione francese, e saluta i nuovi istituti creati a Milano dopo l’arrivo della Repubblica, ma teme gli eccessi ed ha paura del “troppo nuovo”, con quel tipico atteggiamento delle classi subalterne che aiutano e appoggiano la borghesia nella sua opera di abbattimento dei residui feudali, ma non si sentono di aderire del tutto alla sua azione, che nella realtà non modifica di gran che il loro stato di subordinazione assoluta.

 

 

Ed ecco, infine, contro la nobiltà un suo stesso figlio… il conte Vittorio Alfieri. Fin da giovane egli sente tutta l’inutilità, l’assurdità della vita che la sua condizione gli prepara, e vi si ribella rifugiandosi nella sua solitudine, che egli non fa depressa e ripiegata su se stessa, ma eroica e sublime. Egli non si declassa, non si mette a vivere come i borghesi o come i popolani, ma esce dalla sua classe e fa parte a se solo. Assume atteggiamenti di odiator di tiranni, di amante della libertà…, e in effetti, lo si può ben considerare sincero. E tuttavia i suoi tiranni sono del tutto libreschi, astratti…, così come astratto e libresco è il suo amore per la libertà che non fa certo un giacobino, ma un libertario ben lontano dalla situazione reale del suo tempo, della sua società. Anche il suo buttarsi negli studi e nel lavoro delle tragedie ha il sapore del grande gesto, clamoroso, fatto per far vedere ai suoi simili, agli aristocratici intenti alle cure dei cavalli o delle donne, che quella era la vita vera, che poteva lasciare un segno, un’impronta…, quella era la missione di uno spirito veramente nobile, elevato, ed egli la intraprendeva facendosi legare alla sedia, gridando, gesticolando, col gusto di rinfacciare agli altri questa sua ribellione. Che, evidentemente, non poteva trovare eco in brevi poesie e nemmeno in poemi, troppo lunghi per corrispondere efficacemente ad un’ispirazione fatta di lampi, di grida. Che aveva bisogno di esprimersi attraverso degli antagonisti, nel conflitto di personaggi…, di qui la forma della tragedia.

Che cosa fosse il teatro tragico alla fine del Settecento è presto detto… , tragedie esotiche e meravigliose da un lato, lo sdolcinato melodramma dall’altro. Ebbene… le tragedie alfieriane, nella loro nudità, portarono un clima del tutto nuovo…, asciutte, dure, senza sdolcinature, contribuirono a ripulire il teatro italiano dal vecchiume settecentesco, e vi fecero risuonare parole inusitate… morte alla tirannide, amore alla libertà. Questo è, in effetti, l’unico tema delle tragedie alfieriane, dal “Filippo” alla “Virginia”, da l’ “Agamennone” al “Saul”. Questo il tema dominante anche nelle sue altre opere, dal saggio “Della Tirannide” a quello “Del Principe e delle lettere”.

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