I PROMESSI SPOSI – Alessandro Manzoni (CRITICA)

INTRODUZIONE

Opera di storia o di invenzione? Poesia o propaganda? Arte o insegnamento etico-religioso? Questi gli interrogativi suscitati fin dal loro apparire dai “Promessi sposi”.

Alessandro Manzoni cominciò a organizzare la stesura del romanzo nella primavera del 1821 e lo portò a termine nel settembre del 1823. Il titolo originario, “Fermo e Lucia”, si era trasformato, al compimento della prima redazione, in “Gli sposi promessi”. Non soddisfatto, Manzoni sottopose il romanzo a una scrupolosa revisione e lo ripubblicò, profondamente modificato, tra il 1825 e il 1827, in tre volumi e col titolo definitivo dei “Promessi sposi, storia milanese del secolo XVII, scoperta e rifatta da A. Manzoni”. Ma restava ancora un problema, della cui soluzione Manzoni era fortemente preoccupato… quello della lingua. Per risolverlo, dette mano ad un minuzioso lavoro di lima, recandosi più volte, dopo il 1827, a Firenze allo scopo di “risciacquare i panni dell’Arno”, ossia adeguare il linguaggio alla “parlata” fiorentina delle persone colte, che egli riteneva la più adatta a costituire la base della lingua nazionale italiana.

Scriveva infatti…

“… La scelta di un idioma che possa servire al caso nostro, non potrebbe essere dubbia… anzi è fatta. Perché è appunto un fatto notabilissimo questo che, non c’essendo stata nell’Italia moderna una capitale, che abbia potuto forzare in certo modo le diverse province e adottare il suo idioma, pure il toscano, per la virtù di alcuni suoi scritti famosi al loro primo apparire, per la felice esposizione di concetti più comuni, che regna in molti altri, e resa facile da alcune qualità dell’idioma medesimo…. Abbia potuto essere accettato e proclamato per lingua comune di Italia…”

Nell’impostare l’opera, Manzoni aveva in mente, non tanto come modelli ma piuttosto come punto di riferimento, i romanzi storici allora assai in voga in Europa, soprattutto per merito dello scrittore scozzese Walter Scott (1771-1832), autore del famoso “Ivanhoe”. Manzoni, che aveva letto questo libro con attenzione critica, era giunto alla conclusione che un genere di racconto potesse contribuire a far luce su aspetti della realtà che la storiografia ufficiale era solita ignorare, cioè la realtà della presenza e della condizione delle grandi masse che pure costituiscono parte viva della società.

Da questo punto di vista i “Promessi sposi” sono un romanzo storico, lontanissimo tuttavia dalla letteratura avventurosa e d’evasione dello Scott…, soprattutto perché nell’opera del grande lombardo vi è trasfusa autentica, altissima poesia.

Accennata in poche righe, la trama del romanzo, una storia che l’autore immagina di aver ritrovato in un manoscritto del 1600, da qui il sottotitolo “Storia milanese del XVII secolo”, narra i casi di due umili giovani delle campagne di Lecco, Renzo e Lucia che, prossimi alle nozze, vedono contrastato il loro progetto dalla prepotenza di un signorotto locale, don Rodrigo, invaghitosi di Lucia, e dalla pavida acquiescenza a costui di don Abbondio, il curato che avrebbe dovuto celebrare le nozze. Dal veto iniziale posto da don Rodrigo e dai suoi uomini (“Questo matrimonio non s’ha da fare”) fino alla conclusione, felice per i due giovani, si svolgono vicende e intrighi che hanno per sfondo storico la dominazione spagnola e la Guerra dei trent’anni, con le loro conseguenze sulla città e sulle campagne del Milanese. Attorno ai protagonisti, si muove una folla di personaggi, alcuni dei quali storicamente autentici, altri inventati, ma resi tutti con tanta precisione di caratteri, da divenire ben presto simboli quasi proverbiali delle qualità e dei difetti della natura umana.

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Don Abbondio

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LA TRAMA

A don Abbondio, curato di un piccolo paese nei pressi di Lecco, si presentano due “bravi”, cioè due sgherri , uomini fidati di un potente signorotto del luogo, don Rodrigo, ad ingiungergli di non celebrare il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, (lui filatore, lei contadina). Il povero prete, uomo pavido ed esitante, non sa che cosa fare…, e l’indomani, quando Renzo si reca da lui per gli ultimi accordi, cerca di prender tempo, di imbrogliare le carte. Renzo subodora qualche cosa, finché si rende conto della verità…, il signorotto don Rodrigo ha messo gli occhi su Lucia.

Va allora a chiedere consiglio ad un certo dottor Azzeccagarbugli, il quale al sentir nominare don Rodrigo, congeda in malo modo Renzo… non vuol aver a che fare con quel prepotente. I due giovani si rivolgono allora a padre Cristoforo, frate di un vicino convento. Padre Cristoforo era stato anni prima un nobile avventuroso e gaudente, che si era macchiato di un delitto e per espiarlo si era chiuso in convento. Questo frate si reca da don Rodrigo, ma inutilmente.

Non resta che sposarsi di nascosto…, tutto viene preparato per sorprendere don Abbondio e fargli pronunciare le formule rituali. Ma l’espediente non riesce. Rifugiatisi nel convento di fra’ Cristoforo, Renzo, Lucia e la madre di quest’ultima, Agnese, vengono avviati dal frate verso Monza. Qui i tre si separano…, le due donne restano ospiti di un convento diretto da una dama fattisi monaca, la “Monaca di Monza”…, Renzo si reca a Milano. A Milano, càpitano a Renzo varie avventure…, c’è la carestia, e il popolo è in tumulto.

Per certe frasi un po’ imprudenti, l’oste prende Renzo per un rivoltoso e lo indica agli sgherri degli spagnoli. Renzo rischierebbe di essere tradotto in galera, se strada facendo una nuova sommossa non lo liberasse. Stanco e impaurito per i pericoli che si corrono nelle grandi città, Renzo decide di espatriare e fugge a Bergamo, in territorio veneziano. Intanto da Milano il cerchio si stringe attorno a Lucia… don Rodrigo la vuole a tutti i costi, e mette in atto, con l’aiuto di un potente signore, che il Manzoni chiama l’Innominato, il rapimento di lei.

La ragazza viene portata nel cupo castello dell’Innominato. Qui avviene, proprio nella prima notte che la ragazza passa al castello, un fatto inatteso e imprevisto… l’Innominato è assalito dal pentimento e si converte. L’indomani mentre le campane della valle suonano a festa per la presenza del cardinal Borromeo in visita pastorale, l’Innominato scende dal castello e va dal cardinale, col quale ha un lungo colloquio. Ne esce purificato e convertito, e dispone che Lucia sia subito liberata…, don Abbondio ha l’incarico di andare al castello a prelevarla. Don Rodrigo, che ormai si è visto sfuggire di mano la preda, deluso torna a Milano, mentre l’Innominato congeda i suoi sgherri e dà cento scudi d’oro a Lucia. Le nozze ora si potrebbero celebrare… Senonché Lucia, nel momento del terrore suscitatole dal rapimento e dalla chiusura nel castello, ha fatto un voto di castità. D’altronde, come è possibile pensare al matrimonio, mentre comincia a dilagare la peste, e cominciano a scendere in Lombardia le soldataglie dei lanzichenecchi? La gente fugge davanti ad esse, che tutto depredano…, Lucia, sua madre e don Abbondio trovano riparo nell’ora ospitale castello dell’Innominato.

Dal castello ridiscendono a bufera passata, e trovano tutto distrutto, tutto saccheggiato. A Milano intanto infuria la peste…, ne resta vittima anche don Rodrigo. Ed è contagiato anche Renzo, che arriva al villaggio in cerca di Lucia, e apprende da don Abbondio ridotto ad uno straccio, che Lucia è a Milano, in casa di don Ferrante, uomo dotto e buono, che Agnese è presso dei parenti in un altro paese, che Perpetua, la fantesca di don Abbondio, è morta di peste.

Non resta a Renzo che recarsi anch’egli a Milano, dove rintraccia la casa di don Ferrante…, e mentre vi batte sopra per farsi sentire, viene preso dalla folla per un “untore”, cioè uno che – secondo la credenza popolare – diffondeva a bella posta il morbo. Riesce a salvarsi, e finisce nel lazzaretto. Qui ritrova Lucia, e anche fra’ Cristoforo, che scioglie la ragazza dal suo voto di castità. E il romanzo finisce con le nozze dei due giovani, e, un anno dopo, con la nascita di una bambina.

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Lucia Mondella

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CRITICA DEL SUO TEMPO

Che fa Manzoni? – ci si chiedeva negli ambienti intellettuali, non solo in Italia, ma anche , e, forse soprattutto, di fuori, intorno al 1825. Che fa Manzoni? C’era molta curiosità intorno al romanzo che si diceva egli andasse scrivendo, e ciò che suscitava le maggiori discussioni era il fatto che si trattasse di un romanzo storico.

Una caratteristica propria del romanticismo era quella di prendere ispirazione dalla storia… e che uno dei massimi scrittori italiani, noto in tutta Europa per le sua tragedie e i suoi “Inni sacri”… si mettesse a scrivere una vicenda legata alla storia lombarda del XVII secolo, era cosa che suscitava grandi aspettative.

Tra coloro che volevano sapere i più sul libro in gestazione era persino Goethe, che in una lettera allo scrittore e filosofo francese Victor Cousin chiedeva appunto che stesse facendo Manzoni. “Fa un romanzo storico, con l’intenzione di una maggior esattezza storica che non in Walter Scott, e di una applicazione precisa del vero metodo storico”.

Quando poi finalmente i “Promessi sposi” uscirono, tutti si buttarono sopra per vedere come lo scrittore milanese se la fosse cavata. E la prima questione che questi critici si proposero fu… – Sono i “Promessi sposi” un’opera di storia o di arte ? Vi prevaleva l’esatta ricostruzione di un’epoca oppur l’invenzione? Chi diceva l’una, chi diceva l’altra…, e chi infine sosteneva che la bellezza del libro stava nel contemperamento delle due ! Tra questi ultimi c’era per esempio Nicolò Tommaseo (in un articolo pubblicato sull’Antologia nel 1827) e anche Giuseppe Mazzini (nell’Indicatore genovese, 1828). Quando Tommaseo, per la verità, il suo atteggiamento non fu molto cordiale verso i “Promessi sposi”…, lo disturbava un poco il fatto che l’autore si fosse “attaccato al destino di due villanucci“.

Con questa sua critica, invece, il Tommaseo inconsapevolmente dava il miglior giudizio sul romanzo, ne metteva in luce la profonda novità… l’aver prelevato a protagonisti della vicenda due personaggi umili, semplici…, l’aver messo, sullo sfondo grandioso di un secolo, col contorno di figure di nobili e di aristocratici, la gente del popolo. Ci fu perfino chi, esagerando l’aspetto storico del libro, affermò che il Manzoni in definitiva non aveva fatto altro che illustrare “le cause per cui i lavoratori di seta nella prima metà del seicento emigrarono dalla Lombardia nel bergamasco” !

A questa prima fase, di giudizi più superficiali e spesso avventati, tenne dietro una seconda fase, in cui l’opera manzoniana fu studiata con maggior serietà, in cui si andò più a fondo nell’esame dei suoi valori e dei suoi limiti. Il dilemma… storia o invenzione?, lasciò posto ad un nuovo dilemma…, poesia o religione? Ci si accorse, in sostanza, che il contrasto latente dei “Promessi sposi” non era tanto quello tra la ricostruzione storica esatta e la libera creazione della vicenda, quanto tra l’intenzione etico-religiosa dell’autore, e la riuscita poetica delle sue pagine. In altre parole, si diceva… gran pregio del libro è certo quello di narrare una trama che affonda le sue radici nella storia, e che quindi rompe con la tradizione letteraria italiana, tutta fondata sulla fantasia e l’imitazione dei classici…, e significativo di qualcosa di veramente nuovo è il fatto che di questa trama siano protagonisti due “villanucci“, ma ciò che conta è vedere se tutto ciò si traduce in vera arte, in vera poesia, o se non resti invece sul piano dell’insegnamento morale e religioso.

Chi impostò col massimo rigore la discussione in questo senso fu Francesco De Sanctis, il quale dedicò al Manzoni pagine e pagine di attenta ricerca, sia sulle tragedie, sugli “Inni sacri”, sulle “Odi”, che sui “Promessi sposi”…, pagine desunte dai suoi corsi universitari, da conferenze, da articoli.


Riporto ciò che il De Sanctis scrisse nel saggio “La materia dei Promessi sposi”, là dove traccia magistralmente il riassunto del romanzo. Il modo stesso con cui questo viene presentato è significativo della posizione del De Sanctis…, ed estremamente significativa ne è la conclusione per avviarci a comprendere qual è la soluzione che egli dà al dilemma cui accennavo più sopra.


– “Tutto il secolo si sfila avanti nelle sue abitudini e attitudini, nelle sue opinioni, nelle sue tendenze, nelle sue classi, nelle sue violenze e nelle sue codardie, nelle sue forze le più grossolane e appariscenti e le più occulte e delicate, e in tutte le gradazioni e variazioni, dal più umile villaggio sino alla superba capitale. Trovi già nel villaggio il secolo del suo spirito e nei suoi elementi…, il nobile soverchiatore col suo castello e coi suoi “bravi”…, il borghese con la sua mezza cultura, strumento corrotto e basso di quello, com’è il dottore, il console, il podestà…, il popolino sotto la doppia servitù incolto, credulo, tutto quasi ancora natura, come Renzo, Lucia, Perpetua, o già attratto e parte assimilato in quell’atmosfera, imparatavi l’arte del saper vivere, come l’oste o il curato, e sino il monaco che va alla cerca, e sino anche un po’ Agnese.

Tutto comincia e finisce nel villaggio…, pare non ci sia altro cielo, sia quello tutto il mondo…, Milano, è un nome grosso, come chi dica oggi America. Pure, assistendo all’orgia di don Rodrigo, tra quei discorsi e quelle dispute vedi come attraverso di un foro nuovi cieli, e pure gli stessi, vedi come in confuso e in immagine ridotta tutta la storia che segue. Da Lecco a Monza , da Monza a Bergamo, da Bergamo a Milano, l’orizzonte s’ingrandisce, le proporzioni si allargano, le viste si variano, i nomi sono più rotondi, i personaggi più grossi, pur trovi sempre quel nobile, quel borghese e quel popolo…, il villaggio è già tutta quella società in miniatura.

E tutto si spiega alla vista non successivamente, a modo di descrizione, come in una camera oscura, non per intreccio e antagonismo di forze umane, come in un vero dramma, insino a che, cessata ogni opera di uomini, e quando il racconto sembra finito, le fila si riannodano con epica solennità, entrati in scena i formidabili fattori della collera di Dio, fame, guerra e peste”.


Per il De Sanctis, dunque, c’è la storia e c’è il motivo religioso (il villaggio, i fattori della collera di Dio), ma ciò che più conta è l’intreccio e l’antagonismo delle forze umane, è il “vero dramma” che fa del romanzo non un’opera di storia e di edificazione religiosa, ma di poesia.

“Tutto ti pare storia, egli dice in un altro punto, e tutto è poesia”

.Per di più, nelle descrizioni di scrittori italiani la grande preoccupazione è di trovare l’effetto artistico… invece nel Manzoni vedi l’uomo che descrive dal vero, quello che gli sta davanti agli occhi. Questo, di essere non un semplice esercizio calligrafico, ma una descrizione dal vero, fa dei “Promessi sposi” un libro nuovo, importante… tanto più che, se è pur vero che esso è un mondo poetico a tendenza e a propaganda, in servizio di idee morali e religiose, esso è tale in modo genuino, sincero…, se la tendenza di Manzoni è quella di inculcare gli animi il suo mondo morale, questa tendenza si fa intimamente e profondamente tutt‘uno con la cosa narrata.

Essere un’opera di tendenza non è dunque un difetto, anzi, essa è grande appunto perché questa sua tendenza… la morale, la religione cattolica intimamente sentite e tradotte in termini artistici, è connaturata all’opera, la sottende sempre in modo originale, non astratto, ma concreto, reale.

Vedendo soprattutto gli aspetti negativi di questa morale, che indubbiamente vi sono… ma fermarsi ad essi è fare dell’astratto contenutismo…, il Carducci avanzò le sue critiche al romanzo manzoniano, la cui “morale” secondo lui si potrebbe riassumere e ridurre a questo…”a pigliar parte alle sommosse l’uomo risica di essere impiccato… torna meglio badare in pace alle cose sue, facendo quel po’ di bene che si può, secondo la direzione, i consigli e gli esempi degli uomini di Dio”.


Se dovessi, a questo punto, riassumere le osservazioni e le critiche al romanzo manzoniano fatte da scrittori e critici di ogni tendenza dovrei riempire ben più di una opinione…, tutto l’Ottocento, si può dire, si occupò largamente dei “Promessi sposi”…, interi saggi furono scritti sui più minuti aspetti del romanzo, sui suoi personaggi.

Particolarmente interessanti gli studi sulla religiosità manzoniana…, da un filone di critici considerata di tipo giansenista, da un altro, invece, prettamente Cattolica nel modo più ortodosso.

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L’Innominato

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LA MIA CRITICA FINALE


La critica che muovo ai “Promessi sposi” parte da tutto un altro punto di vista, guardo all’atteggiamento del Manzoni nei confronti dei suoi personaggi, e da questo risalgo ad un giudizio complessivo sul carattere del suo cattolicesimo, e alla affermazione della “non popolarità” dei “Promessi sposi”.

La novità del romanzo manzoniano, , sulla quale sin dall’inizio fu attirata l’attenzione, specialmente da studiosi cattolici e a tendenza liberale, non reazionaria tipo Tommaseo, che, come ho scritto sopra, se la prendeva con lo scrittore lombardo per aver messo protagonisti del romanzo due “villanucci“, era appunto questa… di aver fatto entrare nella storia gli “umili”.

Fatto innegabile che i protagonisti del romanzo siano gente del popolo, che i grandi avvenimenti della storia del mondo nel diciottesimo secolo fanno da sfondo a una vicenda di umili, di uomini e donne del contado milanese. E ciò era addotto a lode del Manzoni da parte dei critici cattolici, su ciò essi facevano leva per esaltarne il significato e il valore nel quadro della nuova letteratura italiana sotto il segno di un cattolicesimo liberale.

In realtà , se è vero che questi umili sono presentati nei “Promessi sposi”, se è vero che essi ne sono i protagonisti, essi ci sono non come soggetti, ma come oggetti… essi non hanno una loro vita interiore, non hanno personalità profonda. Non esprimono niente di autonomo, di positivo di per sé…, implicati in avvenimenti più grandi di loro, ciò che a essi in sostanza si dice è che meglio è sempre starsene alla larga dagli intrighi, dagli interessi o anche solo dalle vicende dei “grandi”.

L’atteggiamento del Manzoni nei confronti degli umili è dunque di carattere “aristocratico”…, esso è l’atteggiamento della Chiesa cattolica verso il popolo… di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana.

Ed è poi in sostanza, il modo di vedere gli umili tipico degli intellettuali italiani

Nell’intellettuale italiano l’espressione di umili indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento sufficiente di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, il rapporto come tra adulto e bambino nella vecchia pedagogia”. Tra Manzoni e gli umili c’è distacco sentimentale, gli umili sono per il Manzoni un problema di storiografia, un problema teorico che egli crede di risolvere col romanzo storico. Perciò gli umili sono spesso presentati come macchiette popolari, con bonarietà ironica, ma ironica !!

Basta pensare a come sono entrati nella tradizione le figure di don Abbondio, di Perpetua, degli stessi Renzo e Lucia, cioè proprio come macchiette, o per lo meno come “povera gente”, per rendersi conto di questa osservazione verosimilmente veritiera, la quale mi dice di non lasciarmi trarre in inganno da quel paternalismo dello scrittore, tipico della sua formazione culturale, della sua posizione di classe, per vedere come essa ponga dei limiti alla stessa resa artistica…, per sentire comunque, ma con maggior consapevolezza, la bellezza di molte pagine, per inquadrare infine l’opera nel suo tempo, nella sua temperie spirituale.…

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VEDI ANCHE . . .

1 – ALESSANDRO MANZONI – Vita e opere

2 – ALESSANDRO MANZONI – Vita e opere

I PROMESSI SPOSI (Trama completa del romanzo) – Alessandro Manzoni

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