LA COSCIENZA DI ZENO – Italo Svevo

LA COSCIENZA DI ZENO

Italo Svevo
La distruzione del mondo – La visione pessimistica di Svevo si presenta, nel suo terzo e più fortunato romanzo, con l’abito di un’allegra cordialità e di un’ironia tanto distaccata quanto feroce.

Introduzione

Tutta l’esperienza letteraria di Italo Svevo si svolse contemporaneamente, e con notevolissime analogie, a quella di Pirandello. Svevo (il cui vero nome era Ettore Schmitz) nacque a Trieste nel 1861.
Dopo aver iniziato, obbedendo a una tradizione della famiglia, gli studi commerciali, fu costretto a trovarsi un lavoro, a causa del fallimento del padre. Impiegato in una banca, Svevo cercò nei libri e negli studi letterari una via d’uscita alla mediocrità della sua situazione, puntando su di essi la carta delle proprie ambizioni.
Gli furono di stimolo le opere dei narratori francesi, e di Zola in particolare, i classici italiani dal Boccaccia a Guicciardini, e infine De Sanctis. Tra il 1892 e il 1898 egli dette concretezza ai suoi tentativi pubblicando due romanzi, “Una vita” e “Senilità”.
Ma non ebbero fortuna e Svevo smise quasi del tutto di scrivere. In questo periodo di delusione e di ripensamenti, rivolse la sua attenzione a quanto la letteratura europea andava esprimendo attraverso l’alto ingegno di uomini come l’irlandese James Joyce (di cui Svevo fu grande amico) e il francese Marcel Proust, e a quanto una particolare scienza, la psicanalisi,veniva proponendo attraverso le opere del suo fondatore, il tedesco Sigmund Freud (1856 – 1939).

Da queste esperienze Svevo trasse una lezione che trasferì nel suo terzo romanzo, apparso, dopo un silenzio di venticinque anni, nel 1923… “La coscienza di Zeno”.
Quest’opera, completamente diversa dalle prime, dal tono gelidamente ironico, doveva procurargli un enorme quanto meritato successo. Ma fu una gloria che assaporò per poco, cessando egli di vivere qualche anno più tardi, nel 1928.

La prosa di Svevo, come ho già detto, ha dei punti di contatto con quella pirandelliana…, primo fra tutti, la malattia dell’uomo moderno che si chiama solitudine o alienazione. I personaggi di Svevo avvertono con piena consapevolezza la portata della loro crisi, e quanto più ne sono coscienti tanto più essi appaiono destinati all’inerzia, alla non azione. Subiscono la realtà, certi della loro inevitabile sconfitta…, nella loro crisi individuale si riverbera quella di una classe, la borghesia, impotente a risolvere i problemi che investono la società italiana e europea.

Recensione

La biografia del protagonista, Zeno, la storia di tanti fallimenti successivi che poi, per un capriccio la vita s’incarica di rendere vantaggiosi. Zeno è l’uomo che non sapendo guarirsi, con una semplice rinuncia, dal vizio del fumare, arriva alla più grave rinuncia di farsi rinchiudere in una casa di cura (con tutte le comiche e paradossali conseguenze… corruzione dell’infermiera per avere sigarette, evasione notturna, sospetti sulla fedeltà della moglie che forse in quel momento lo tradirà col dottore).

E’ l’uomo che conserva la prosperità economica, proprio perché è sempre deluso nei suoi disastrosi tentativi di fare affari. Per incapacità di esimersi da un vago impegno, sposa la seconda delle sorelle Malfenti, dopo essere stato rifiutato dalla prima e dalla terza, che amava… e trova in costei la moglie ideale.

Egli è il malato che accompagna al cimitero molti sani…, è l’inetto che salva la posizione finanziaria del brillante cognato Guido. Non ha o crede di non aver tatto, e riesce a tradire la moglie senza destare il minimo sospetto, mentre il cognato, nelle sue stesse condizioni, fa nascere un finimondo di gelosie.

Zeno è la conseguenza degli altri personaggi di Svevo, per il quale la vita è un male…, conseguenza rincarata dall’ulteriore, ironica constatazione che non tutto il male viene per nuocere…

Il romanzo consiste dunque nel racconto che Zeno, stimolato dalla psicanalisi, fa della sua vita. Non si tratta però di una pura e semplice autobiografia…, ricordando gli episodi della sua esistenza, Zeno li sottopone a una minuziosa e spietata analisi, mettendone in rilievo l’incongruenza. Ne viene fuori il ritratto di un personaggio singolarmente “dissociato”…, ai sentimenti comuni e conformistici che si agitano nella sua coscienza, suggerendogli determinati comportamenti, si contrappone un modo di pensare spregiudicato e anticonformista. Questo agire in un modo e pensare in un altro del tutto opposto fa smarrire a Zeno ogni criterio di comportamento.

Nel definire il carattere del protagonista, Svevo irride alle norme, alle abitudini di vita della borghesia, gabbate come atti di saggezza ma che nascondono, in effetti, una desolante inconsistenza morale.

Lo scrittore triestino utilizza, per il suo racconto, la forma del “monologo interiore” (le parole riproducono il flusso dei pensieri del protagonista) già adottata da Joyce nel suo celeberrimo romanzo “Ulisse” e che capovolge la struttura della narrazione ottocentesca.

Più volte negli anni passati si è creduto che I’opera di Italo Svevo stesse per diventate popolare, che, cioè, stesse e per raggiungere un numero più di lettori disposti a leggerlo e a capirlo, ma nonostante tutto, nonostante le ristampe a poche centinaia di lire e la riduzione televisiva del romanzo maggiore del grande scrittore triestino, La coscienza di Zeno, nonostante la pubblicazione del carteggio tra Svevo e Montale, i romanzi dell’uomo che ha ormai aggiunto il proprio pseudonimo ai nomi di Proust ,e di Joyce continuano a trovare ostacoli sulla strada di una celebrità piena e totale. Il discorso su questo destino di Svevo, che per certi aspetti somiglia al destino di Verga, non è nuovo, del resto.
E’ invece, un vecchio discorso.
In un tempo come il nostro, tra gente corriva alle indagini sociologiche, non sarebbe inutile sapere quante persone chiamate “teleutenti” hanno cambiato canale o programma televisivo quando sul video è apparsa la faccia di Zeno. Diciamolo noi con una parola cara ai politici della vecchia Italia: parecchie. Eppure, la riduzione televisiva di La coscienza di Zeno tratta dal lavoro teatrale di Tullio Kezich ispirato con fedeltà e intelligenza al romanzo sveviano, era, a parer mio, ottima. La ragione, sempre che quel “parecchie” abbia una rispondenza in un dato più preciso  – una cifra, una percentuale, un “indice di gradimento” -, sta nel tentativo di far diventare lo spettacolo televisivo il romanzo d’appendice dei nostri giorni.
Eppure Italo Svevo (lo scrittore triestino si chiamava Ettore Schmitz; era nato nel 1861 e morì nel 1928 in un incidente d’auto quando la sua fama cominciava a spandersi per l’Europa) è il più grande narratore italiano del secolo scorso ed è uno dei più grandi scrittori del nostro tempo.
La sua grandezza fu riconosciuta molto tardi, quando egli aveva rinunziato a farsi capire e apprezzare. Dopo che l’editore De Donato di Bari ha pubblicato l’epistolario Svevo-Montale il problema della priorità della scoperta pare riaffacciarsi, farsi avanti di nuovo. Sarei forse un po’ crudele, ma direi ugualmente che a me, a noi, ormai, questo problema della priorità non interessa più.
Crudeltà di figli nei confronti dei padri? Forse. Fatto sta che, per noi, questo problema cede oggi a un altro.
Vediamo prima di tutto come si svolsero i fatti.
Nel 1925, Eugenio Montale scrive un saggio su l’Esame, nel quale si nomina per la prima volta lo scrittore Italo Svevo. Ma il poeta Montale aveva ricevuto notizie triestine tramite Parigi (una delle “curie” della cultura di quel tempo) concernenti il narratore italiano Italo Svevo: si era messo in cerca dei romanzi dell’uomo di cui si parlava a Parigi e, alla fine, li aveva trovati. Così aveva scritto il suo saggio sull’Esame.
Da Parigi, la voce concernente uno scrittore italiano sconosciuto in patria era venuta da Valéry Larbaud, il quale aveva sentito parlare di Svevo dal grande Joyce. Ripercorso a ritroso, il cammino della scoperta di Svevo pare sia questo. Ma, sia detto fra parentesi, un personaggio del tempo ha detto che la prima scoperta di Svevo spetta a uno di quei triestini della generazione letteraria degli Svevo e dei Saba: a Roberto (Bobi) Bazlen,  (Trieste, 1902 – Milano, 1965), senza onori né glorie, stimato e amato da una ristretta e qualificata cerchia di amici colti e intelligenti. Ma la storia della scoperta, fino a tanto che non sarà scritta con il rigore del cronista, avrà come primo nome quello di Joyce. Il quale portò a Parigi la notizia che a Trieste viveva un grande scrittore, un tale Italo Svevo, da lui personalmente conosciuto alla Berlitz School di quella città. L’incontro tra Joyce e Svevo avvenne quando né l’uno né, tanto meno, l’altro aveva conosciuto un minimo di gloria. Se Joyce parlò di Svevo a Parigi, lo si deve a Sylvia Beach, un’americana che aveva aperto bottega di libri nella capitale francese e che riuniva intorno a sè una parte di quei “pellegrini d’America” che dopo la guerra ’14-18 avevano trovato riparo in Europa. Per vedere meglio la loro patria attraverso la lente del cannocchiale, aveva insegnato Henry James; ma anche perchè nel corpo della letteratura americana si era aperta una scissione tra scrittori e poeti che l’America volevano vivere, si direbbe, in presa diretta (si pensi a un Dreiser o a un William Carlos Williams), e scrittori e poeti che volevano viverla invece in una maniera un po’ più estetizzante, con il mare nel mezzo.
Venire in Europa, ai tempi di Hemingway giovane e di Francis Scott Fitzgerald, significava però – e questo era il valore vero del loro pellegrinaggio – compiere una specie di visitazione alla Mecca della letteratura. Parigi era Parigi. E fu proprio a Parigi che la Beach rischiò il tutto per tutto per pubblicare l’Ulisse di Joyce. Che importa se l’avarissimo, bizzoso e incoerente G.B. Shaw rifiutò di sottoscrivere per una copia del libro di Joyce? Al rifiuto di Shaw corrispose un buon numero di assensi, e il libro venne pubblicato.
Fu buona sorte anche per Svevo, perchè Joyce, ormai ascoltato, potè dire senza essere preso per pazzo che a Trieste viveva uno dei più grandi scrittori del nostro tempo. Fu preso sul serio, e la fama del commerciante di “vernici sottomarine” Ettore Schmitz scrittore, si direbbe, della domenica, scoppiò all’improvviso . Yaléry Larbaud e Benjamin Crémieux lo imposero all’attenzione di quella difficilissima Parigi in cui aveva fatto i primi passi il signor Bloom di James Joyce.
Si era nel’25. Nel 1926, la rivista “Le Navire d’Argent”, fascicolo di febbraio, dedicò un numero a Svevo. La fama dello scrittore, che aveva pubblicato Una vita nel 1892 – a sue spese, perchè Treves aveva respinto il manoscritto -, Senilità nel 1898 e La coscienza di Zeno nel 1923, venne dunque dalla “curia”  parigina.
Il problema che mi interessa non è quello della priorità, ma un altro: quali correnti della cultura italiana accolsero l’indicazione di Joyce? L’Italia afflitta dal fascismo – Gramsci era già in prigione e seguiva nei suoi quaderni la polemica sulla scoperta di Svevo -, dal carduccianesimo e dal dannunzianesimo, quando seppe che a Trieste viveva un grande scrittore (oh, la retorica dell’irredentismo confluito nel fascismo! del nazionalismo finito in camicia nera! dell’ignoranza, tipicamente fascista, di ciò che Trieste rappresentava nella cultura italiana; un varco, una porta sull’Europa, più vicina a Parigi che a Roma!) non seppe far altro che polemizzare con coloro che davano la priorità della scoperta ai francesi. La verità è che l’indicazione di Joyce fu accolta dalla cultura antifascista.  Montale, autore del saggio sull’Esame era un gobettiano (“Ossi di seppia” apparve nelle edizioni di Gobetti) che aveva già trovato ospitalità, su “Primo tempo”, la rivista fondata da Giacomo Debenedetti, anch’egli autore gobettiano con il suo “Amedeo e altri racconti”. Nè deve essere dimenticato che fu la rivista “Il convegno”, aperta a tutte le esperienze europee, contraria alle chiusure provinciali del fascismo, a celebrare Svevo a Milano. Nel 1928 Svevo fu accolto a Firenze dai giovani di “Solaria”, la rivista in cui confluivano anche le più vitali e democratiche istanze vociane e quelle gobettiane: che era diretta da Ferrata, da Carocci e da Bonsanti, che ospitava Carlo Emilio Gadda e apriva le sue pagine al giovanissimo Elio Vittorini proprio per uno scritto su Italo Svevo. Tardi, dopo la guerra, abbiamo letto la noterella gramsciana contro le rivendicazioni di priorità nella scoperta di uno scrittore che con l’Italia fascista non aveva proprio nulla a che fare.
Che cosa c’entrasse Svevo con un regime violento e manicheo qual era il fascismo, proprio non riesco à capire. Il fascismo è una rozza divisione dell’umanità in bianchi e neri, in probi e reprobi, in buoni e cattivi. Mentre Svevo, come un Proust o un Joyce, penetra con lo sguardo in quelle intercapedini, in quegli interstizi, in quelle penombre difficili da attraversare che dividono l’uomo da se stesso, l’uomo dalla realtà, in cui si manifesta la fuggevole contraddizione, unico assoluto. Il personaggio non è più compatto e semplice, ma sfaccettato, contraddittorio e difficile.
Così è Zeno. Sempre teso a un recupero unitario della realtà e di se stesso, finisce, come Charlot, per inciampare nelle cose: con insicurezza, in una battaglia combattuta ad ogni occasione, senza requie. Ne risulta l’itinerario di un’analisi psichica, durante la quale i conflitti vengono in luce: Zeno ha voluto smettere di fumare, ma ha fumato sempre di più; ha voluto essere forte, ma ha cominciato a zoppicare; ha cercato di sposare una bella ragazza, ma ne ha sposata una bruttina; non ama la moglie. ma quando è in clinica teme di essere tradito, e via di seguito in un rincorrersi di realtà che non combaciano.
Zeno, insomma, siamo noi. E forse è anche per questo, perchè non amiamo sentirci dire spietatamente come siamo, che Svevo non è popolare, o almeno non lo è stato nel Novecento.



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