Dai CANTI – L’INFINITO
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L’ INFINITO
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude (1).
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura (2). E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando (3): e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva e il suon di lei (4). Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare(5).
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VERSIONE IN PROSA
(2) – ma sedendo e guardando, io mi creo nel pensiero (mi figuro, mi immagino) spazi senza fine al di là di essa, e silenzi più che umani, e quiete profondissima; nei quali (nella quale immensità di spazio, tempo e silenzio) per poco il cuore non si sgomenta.
(3) – E udendo il vento stormire tra queste piante, io paragono quell’infinito silenzio
(che mi fingo nella mente) a questo suono (del vento che fa stormire le fronde).
(4) – E mi viene alla mente l’eternità (l’eterno, infinito andar del tempo), e le età passate,
e la presente (età), viva, e il rumore che essa (perché viva) produce.
(5) – Così il mio pensiero annega (si annulla) in questa immensità (di spazio e di tempo):
e mi è dolce il naufragare in questo mare (perdermi in questa immensità).
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CORSIVO
Nel sentimento dell’infinito il poeta dimentica se stesso, i propri dolori, e ciò gli è di sollievo.
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ANALISI
Nelle vicinanze di Recanati si trova il così detto monte Tabor, un poggio “ermo” cioè solitario… un aggettivo tra i più cari a Leopardi per la segreta suggestione che genera in chi legge, e poi è particolarmente cara al poeta la siepe che gli impedisce di vedere “tanta parte dell’ultimo orizzonte”, cioè quel distendersi di terra e di mare che arriva fino alla linea dell’orizzonte, la quale rappresenta il raggiungimento dell’infinito spazio con il finito, e quindi è richiamo della realtà. Stando seduto e contemplando con la fissità dell’anima l’oggetto della propria beatitudine…, e le visioni che in lui si creano gli fanno vivere un’atmosfera d’irrealtà, sconosciuta all’uomo, che in questo caso si trasumana lui stesso. E in questo pensiero che crea in lui stesso il senso dell’infinito, per poco il suo cuore si smarrisce. Lo smarrimento non è sgomento, non è angoscia, ma quel perdersi momentaneo dell’uomo così piccolo di fronte al così grande, quella coscienza di aver raggiunto da solo il sovrumano…, è quel perdersi momentaneo che produce lo smarrimento del piacere supremo. Il vento, voce della natura, è il richiamo all’attualità del vivere…, psicologicamente all’attimo del ritorno dall’infinito al finito, ma in modo che la percezione di quello non è sopraffatta di questo, anzi… si rafforzano. Si capisce che il confronto tra il silenzio infinito e la voce del vento non risulta da un calcolo, ma è immediato, istintivo, e gli viene in mente che è eterno. Se non fosse il Leopardi che scrive questo, mi verrebbe fatto di sentire nell'”eterno” un brivido del divino, un attimo di Dio. No, Egli non c’è…, è il grandissimo escluso da tutta la poesia leopardiana, per la quale se c’è anche un cielo, è proprio un cielo senza il Dio cristiano. Eterno qui vuol significare il tempo che non finisce mai, al quale si contrappongono le età già passate e quella presente, qui risvegliata dal frusciare del vento davanti alla maestà dell’infinito silenzio. Il pensiero umano implica un concetto di personale autonomia e nello stesso tempo di limite, ma limite ed autonomia scompaiono nell’immensità del mare dell’infinito, si annullano in esso, diventa infinito esso stesso il pensiero e questo è un naufragio ben caro al poeta.
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CONCLUSIONI
Da un punto di vista l’idillio dell’Infinito ha importanza. I CANTI del Leopardi sono la continua confessione, a volte straziante, di un’anima infelicissima. Ma ora sappiamo che dopo la lettura di questa lirica, che dolcezza ebbe pure, e quindi consolazioni e quindi aiuti a vivere meno disgraziato…, e il naufragar m’è dolce in questo mare. Ora mi domando stupito come mai egli non abbia saputo tramutare in forza attiva la dolcezza che gli derivava dalla contemplazione dell’infinito…, come mai ebbe bisogno della materialità di un colle e di una siepe per raggiungere questa condizione di felicità a lui nota per consuetudine (Sempre caro mi fu quest’ermo colle… , “sempre” dice…)…, come mai gli sia piaciuto soltanto naufragare nel mare dell’infinito. Perché insomma non trasferì idealmente quella siepe intorno a sé in ogni momento più turbinoso e più disperato per rinnovare ogni volta la confortevole dolcezza? Nessuno potrà mai rispondere a questo interrogativo. È vero che i CANTI del Leopardi sono una continua confessione, ma non è detto che essa debba scoprire tutto il segreto di un’anima, e l’Infinito che pare confidare tale segreto, in realtà lo approfondisce e a noi non lascia che il suono di una voce ammaliante.
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