LUDOVICO ARIOSTO – Vita e opere

Ritratto di un uomo (Ariosto)
Dipinto di Tiziano, 1515

 

CARATTERI DEL SECOLO

Il Cinquecento è nella nostra letteratura quello che il secolo di Augusto nella letteratura latina, o il secolo di Luigi XIV nella francese.

A sua volta prese anche esso il nome di un munifico protettore delle lettere, e fu chiamato il secolo di Leone X.

La letteratura volgare risorge in esso, robusta di tutti gli elementi vitali della cultura umanistica: risorge più ricca di pensiero critico e di esplorazione storica e più splendida di forma.

Nei primi decenni fioriscono scrittori che basterebbero ad onorare tutto un secolo: come il Machiavelli e l’Ariosto.

Ma assai presto l’ammirazione verso le letterature antiche si traduce nella imitazione e nella riproduzione.

I prodotti più spontanei della letteratura nazionale, e che sarebbero stati capaci di ulteriore sviluppo, cadono nel disprezzo e sono sostituiti dai generi, che parvero loro corrispondere, della letteratura classica.

Così in Italia scomparvero le Sacre rappresentazioni – dalle quali in Spagna e in Inghilterra sarebbe venuto il teatro moderno – e vennero di moda le commedie regolari a imitazione di Plauto e di Terenzio, e le tragedie ad imitazione di Sofocle, di Euripide e di Seneca.

Presto morì il libero poema cavalleresco, e gli succedette il regolare poema epico, alla maniera di Omero e di Virgilio.

Così per imitazione nacquero i poemi didascalici, e la favola pastorale, amplificazione delle Bucoliche di Teocrito e di Virgilio, e la satira negli spiriti di Orazio…, come i dialoghi sul modello di Cicerone.

Per la poesia lirica i tentativi di imitazione della lirica greco-romana furono posteriori…, per la lirica nel Cinquecento si pose come canone l’imitazione petrarchesca.

Il dogma dell’imitazione diventa quindi fondamentale nel Cinquecento, e il principio che la forma esista per sé, indipendentemente dal contenuto.

Quindi nascono – partendo dalla “Poetica” e dalla “Retorica” di Aristotele e con carattere prevalentemente precettistico – i primi studi sulla natura della poesia: e si moltiplicano le indagini sull’arte del dire.

La personalità dello scrittore si attenua e si diffonde quell’uniformità, che è un altro dei caratteri della letteratura cinquecentesca: la quale perde via via i suoi simpatici e vividi caratteri regionali.

Anche la lingua diventa nel Cinquecento uniforme m tutta Italia: o si modelli sulla lingua dei grandi Trecentisti toscani, o resista ad essi in nome di un più corretto e dignitoso linguaggio latineggiante.

Ci si avvia così a quel convenzionalismo, contro cui reagirà, e in quel secolo e dopo, consapevolmente o no, non piccola parte della letteratura.

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NOTIZIE SULLA VITA di LUDOVICO ARIOSTO

Ludovico Ariosto, uno dei maggiori poeti d’Italia, nacque nel 1474 a Reggio Emilia, di famiglia patrizia.

Il padre Niccolò era capitano di quella fortezza, a nome del duca di Ferrara.

Inviso per il suo aspro governo, Niccolò venne a stabilirsi con la numerosa famiglia (dieci figlioli !) a Ferrara.

Ludovico fu messo a studiare leggi…, ma egli si ribellò a quelle ‘ciance’: e il padre gli concesse di dedicarsi alle lettere.

Apprese il latino e gli dolse di non poter apprendere il greco…, Orazio, il poeta dal sereno epicureismo e dall’arguta sapienza, fu dei poeti antichi quello che lo sedusse.

Ma nel 1500 gli morì il padre…, ed egli dovette lasciare da parte, almeno per il momento, gli studi diletti per darsi ad amministrare i beni della dote materna, pensare a collocare i fratelli minori, provare quelle angustie e miserie della vita, che troveranno principalmente espressione nelle “Satire” e impronteranno di ironia talvolta, amara anche il sorridente fantastico mondo dell’Orlando Furioso.

Entrò più tardi, in qualità di gentiluomo, al servizio del cardinale Ippolito d’Este, fratello del duca Alfonso I.

E fu adoperato in varie ambascerie: una volta a Roma (1509), per ottenere dal pontefice Giulio II – allora nemico ai Veneziani – aiuto contro di essi…, che furono vinti, poco dopo, sul Po.

Due altre volte andò da quel papa: per conciliarlo agli Estensi, alleati di Luigi XII di Francia (Ercole II ebbe in moglie Renata, figlia di quel re).

Giacché, prima favorevole ai Francesi contro i Veneziani, che avevano occupato terre della Chiesa, Giulio II fu poi loro avversissimo, con la lega Santa: che portò all’espulsione dei Francesi dall’Italia.

Furono missioni fallite.

Nel 1513 l’Ariosto si recò una terza volta a Roma, per felicitare il nuovo pontefice Leone X, già suo amico da cardinale.

Egli baciò il piede al Santo Padre, e il Santo Padre baciò a lui l’una e l’altra gota…, ma lasciò che il poeta – che molto si riprometteva da lui – ritornasse a mani vuote.

Gli è che i Medici (Leone era figlio di Lorenzo il Magnifico) odiavano gli Estensi…, e a lungo durò tra le due famiglie la questione della priorità.

L’uomo degli Estensi non poteva quindi piacere troppo a quel papa, che pure onorò poeti di tanto a lui minori.

Ben più confacente al carattere di Ludovico fu l’ufficio – come si sarebbe detto poi – di direttore degli spettacoli della Corte, che suggerì o impose al poeta di comporre le sue commedie.

In realtà Ludovico Ariosto non era fatto per servire, anche se si sforzava di servire del suo meglio.

Fino dal 1516, al cardinale Ippolito suo padrone aveva dedicato il “Furioso”: e il cardinale, per tutto ringraziamento, gli aveva chiesto dove mai avesse pescato tante corbellerie.

Non si poteva essere più grossolani con il meraviglioso artista.

Un anno dopo, nominato vescovo di Budapest in Ungheria, il cardinale voleva che il suo servitore lo seguisse…, ma il servitore non lo volle seguire.

Il piccolo e incerto stipendio non doveva far di lui uno schiavo.

E poi egli era innamorato di una bella donna: Alessandra Benucci, fiorentina, vedova di Tito Strozzi: da lui incontrata a Firenze nel suo ritorno dall’ambasceria a Leone X.

E, insomma, non partì.

E il cardinale lo rimosse dal suo servizio.

Allora lo prese con sé il duca Alfonso…, il quale lo mandò come commissario nella Garfagnana, contrada allora selvaggia dell’Appennino, tra le province di Modena e di Lucca, che, contesa lungamente fra Lucchesi, Pisani, Fiorentini, si era data agli Estensi.

Governare significava molte cose: amministrare la giustizia, esigere i tributi, tenere in freno i masnadieri.

Ma non è sempre vero che i poeti manchino del senso pratico. (Eh)…

Ludovico, da Castelnuovo, governò molto onestamente e diligentemente, come pare dalle non poche lettere al duca che scrisse in quel tempo, e da quelle del duca a lui…, e più e meglio avrebbe fatto, se il duca – che non voleva inimicarsi quei nuovi sudditi – lo avesse maggiormente appoggiato.

Certo, egli andava con l’anima sempre a Ferrara.

E non gli parve vero di ritornarvi, dopo i tre anni di governo che egli considerò come esilio.

Voleva la tranquillità.

E per amore di essa rifiutò il posto, onorifico, di ambasciatore residente a Roma presso Clemente VII.

Era sui cinquanta: l’età del riposo per gli uomini, come l’Ariosto, che non hanno ambizioni.

Il poeta – che, con la modestia della sua vita, era riuscito a metter da parte qualche risparmio – comprò in contrada Mirasole una vigna, e vi costruì una casa, molto alla buona, che si conserva ancora, e nella facciata fece apporre un distico latino, che dice tutto il rammarico suo contro la non prospera fortuna, ma anche tutta la nobiltà del suo animo…

“Parva sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non Sordida, Parta meo sed tamen aere domus”

“Casa… piccola ma adatta a me, ma non obbligata ad alcuno, ma non sozza, e comperata col mio danaro”.

Sposò allora la sua donna…, segretamente, per non perdere certe rendite ecclesiastiche, le quali non potevano, secondo i canoni, esser godute che da celibi.

E rimase lì, a leggere i suoi latini, a coltivare il suo orto, a correggere, per la terza volta, il suo “Orlando Furioso”.

La prima edizione era apparsa, come ho già detto, il 1516…, la seconda, con miglioramenti nella lingua e nello stile, il 1521…, ora, nel 1532, comparve la terza e definitiva edizione: con nuovi episodi, che mancavano alle prime, e che accrescevano il numero dei canti da quaranta a quarantasei.

Come il “Furioso” fu così compiuto, l’Ariosto si recò a Mantova, a presentarne copia all’imperatore Carlo V, alla cui parte erano – da quella francese – passati i duchi d’Este…, e, conseguentemente, il poeta.

L’imperatore ci teneva a mostrarsi cortese verso poeti e pittori.

A Venezia si abbassò una volta a raccogliere il pennello di Tiziano.

E’ da supporre che egli accogliesse il “Furioso” con più garbo che non il cardinale.

Anzi, corse fama che l’imperatore volesse incoronare il poeta.

Ma l’incoronazione la celebrarono i posteri.

Egli morì un anno dopo quel viaggio, nel luglio del 1533.

La ingenuità, la bontà, la timidezza e la perplessità furono i caratteri dell’Ariosto intimo, come si rileva dalla biografi che di lui scrisse un quasi contemporaneo, Giambattista Piglia…, e una distrazione che ha dell’incredibile.

Amava la vita sobria. Si dilettava di agricoltura…, ma l’inesperienza in materia era grande…, seminò una volta dei capperi, e poi si accorse che erano sambuchi.

Gli piaceva l’architettura, e si doleva che non gli fosse così facile ” il mutar le fabbriche come li suoi versi”.

Ci è pervenuto il suo ritratto, attribuito a Tiziano.

Occhi grandi spalancati, sguardo assente: amplissima fronte: un volto – dice in un sonetto il Carducci – che “lo stupor dei gran sogni anco ritiene” – il volto di un poeta.

Ma quel poeta nato non si dette mai l’aria e la posa dell’inspirato e del genio.

Accettò la realtà con la sua prosa, con le sue esigenze e le sue asprezze.

Ora un poco brontolone, ora sorridendo rassegnato ai guai e agli errori della vita, si sentì sempre uomo tra gli uomini: non ultima causa della simpatia che irradia dalla sua opera, così vivida di splendore fantastico, così ricca di sapienza e di esperienza umana.

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Ritratto di Ludovico Ariosto (1508-1510)
Attribuito a Tiziano Vecellio

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