ODISSEA – Riassunto e commento 9° libro

ODISSEA

ULISSE RACCONTA: I CICONI
I LOTOFAGI E L’ISOLA DELLE CAPRE
VERSO LA TERRA DEI CICLOPI
POLIFEMO
LA VENDETTA
LA FUGA

LIBRO IX

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Tempo: Trentatreesimo giorno dall’inizio del poema

Luoghi dell’azione raccontata: Troia, Ismaro, spiaggia deserta, capo Malea, Lotofagi, isola delle Capre, terra dei Ciclopi, antro di Polifemo

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NEL LIBRO PRECEDENTE
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Alcinoo, nell’assemblea dei Feaci, propone che per il riaccompagnamento in patria dell’ospite vengano scelti cinquantadue giovani. Quindi, durante il banchetto d’onore, il cantore Demodoco suscita nell’ospite il pianto ricordando una contesa di Ulisse con Achille. Il re invita poi i presenti a gareggiare negli agoni sportivi ed anche Ulisse, offeso da Eurialo, si cimenta e dimostra la sua superiorità su tutti. I Feaci danno quindi un saggio di danza e, su proposta del re, i principi offrono i loro doni all’ospite, doni che aggiunti ad una coppa d’oro di Alcinoo; la regina Arete colloca in un forziere. Avviene quindi l’ultimo incontro ed il saluto dell’ospite a Nausica. Nel banchetto Demodoco fa piangere ancora Ulisse col racconto del cavallo di legno, per cui il re invita l’ospite a rivelare il suo nome, la sua terra e il motivo di quel suo piangere, ogni qualvolta il cantore rievoca la guerra di Troia.
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Benché il raccontare i propri affanni significhi rinnovarne il dolore Ulisse si manifesta ad Alcinoo e, col nome, rivela la propria patria, descrivendola con accorata nostalgia.
Egli dà quindi inizio al racconto del suo sventurato peregrinare. Partito da Troia i venti portarono le sue navi a Ismaro, nella regione dei Ciconi, già alleati dei Troiani. Dopo aver messo a sacco il paese e uccisi gli abitanti, i suoi compagni vogliono ritardare la partenza e cosi i Ciconi, aiutati dai popoli del retroterra, passano al contrattacco, sicché egli perde sei uomini per ogni nave.
Rimessisi in mare sono costretti da una furiosa tempesta a riprendere terra per due giorni; finalmente salpano, ma doppiando il capo Malea, la punta sud-orientale del Peloponneso, i venti Ii tengono in balia per nove giorni, spingendoli a sud, nel paese dei Lotofagi. Ivi esploratori, mandati innanzi, mangiano il loto, che dà l’oblio della patria e a mala pena Ulisse con la forza riesce a farli risalire sulle navi.
Giungono cosi in vista del paese dei Ciclopi, giganti selvaggi e feroci, che vivono senza leggi, nutrendosi di ciò che la terra produce spontaneamente. Dirimpetto alla loro terra sorge l’isola delle Capre, senza traccia di vita umana e solo popolata da capre selvatiche, di cui essi fanno una grande strage, banchettando lautamente e riempiendone le navi.
All’alba del giorno seguente con una nave e pochi compagni Ulisse sbarca alla terra dei Ciclopi, entra nell’antro di Polifemo, recando un otre di vino gagliardo e, mentre i compagni vorrebbero ripartire subito, dopo aver fatta razzia di formaggi e di pecore, Ulisse vuol conoscere il Ciclope e attende che ritorni dal pascolo.
Giunge finalmente il gigante con le greggi ed un gran carico di legna sulle spalle che, buttate a terra, impauriscono col loro frastuono i malcapitati.
II Ciclope, lasciati fuori i maschi e fatte entrare le femmine, chiude l’ingresso della spelonca con un grossissimo macigno e, dopo aver munto pecore e capre e aver fatto cagliare una parte del latte, acceso il fuoco, scorge gli ospiti e chiede loro, con voce rimbombante, chi siano e donde vengano. Risponde Ulisse e chiede ospitalità. Ma Polifemo non è veneratore di Dei e dopoché Ulisse gli ha falsamente riferito di essersi salvato a stento da un naufragio con pochi compagni, il mostro ne afferra due e li ingoia per cena, bevendoci sopra latte abbondante e cadendo quindi in un sonno profondo.
Ulisse pensa tosto di uccidere il mostro con la spada; ma chi riuscirebbe poi a smuovere il masso che chiude l’antro? Aspetta perciò angosciato l’aurora.
All’alba il Ciclope, dopo aver atteso alle sue occupazioni pastorali, divora altri due compagni ed esce per condurre al pascolo la greggia, richiudendo ancora la spelonca. Ulisse, allora, pensa ad una via di scampo; aiutato dai suoi taglia un palo d’ulivo lungo sei piedi, lo appuntisce, lo risecca un poco al fuoco, nascondendolo quindi sotto Io sterco. Poi, sorteggiati i quattro compagni che con lui dovranno collaborare all’accecamento del mostro, tutti ne attendono ansiosi il ritorno.
Ritorna finalmente il Ciclope, introduce questa volta nello speco anche i maschi, afferra altri due ospiti e li divora. Allora Ulisse gli offre di quel vino che aveva con sé, una tazza e poi un’altra e un’altra ancora, finché il gigante si abbatte al suolo ubriaco. Cioncando ha promesso all’ospite, che astutamente gli ha detto di chiamarsi Nessuno, che lo divorerà per ultimo, in segno di cortese omaggio. È l’ora della vendetta; si arroventa il palo e lo si conficca nell’unico occhio del mostro che urla tremendamente e invoca gli altri Ciclopi:
“Nessuno mi uccide!” Ma quelli: “Se nessuno ti fa del male, è Giove che te lo manda; raccomandati a tuo padre Nettuno!”.
Allora, in preda al dolore, l’energumeno toglie il masso e brancica sull’entrata alla ricerca dei suoi uomini; ma Ulisse riesce a sfuggirgli: unisce i montoni a tre a tre e sotto quello di mezzo lega un compagno, per cui Polifemo, pur tastando, non trova. Egli stesso, poi, si aggrappa sotto il ventre dell’ariete, cui il Ciclope rivolge un accorato discorso, ritenendolo triste per la disgrazia toccata al padrone.
È la salvezza. Si imbarcano, imbarcano gli armenti predati, ma prima di salpare Ulisse rinfaccia a Polifemo le sue colpe, esaltando la sua vendetta e rivelandogli il suo vero nome. Il mostro, infuriato, scaglia alla cieca massi nelle acque e per poco non sommerge la nave. Poi prega il padre Nettuno che Io vendichi.
Si giunge all’isola delle Capre, si banchetta, si fanno sacrifici e il giorno dopo Ulisse e i superstiti compagni si rimettono in mare.
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COMMENTO – Nel libro nono inizia il racconto di Ulisse ad Alcinoo, racconto che durerà per quattro libri, i quali costituiscono la parte centrale di tutto il poema.
La figura di Ulisse, anche se materialmente assente fino al canto quinto, è stata il centro poetico dell’opera fin dai primi versi dell’Odissea. Poi Ulisse è apparso direttamente sulla scena del poema, in quell’isola di Ogigia, che può essere considerata lo sfondo ideale per un racconto di avventura; Omero, presentandoci il personaggio, ce lo ha quindi descritto nella sua ultima lotta contro il Cielo e gli avversi elementi della natura. Finché, con una sapiente gradazione, il protagonista stesso, in questo libro, ci narra le sue avventure ed il poeta, pur felicissimo intermediario tra la sua e la nostra fantasia, ci mette in comunicazione diretta col suo personaggio, per cui non va perduta una sola sfumatura di quell’altissima poesia di cui è ricco il canto.
Cosi, ad un certo punto, il lettore non ascolta più le avventure di Ulisse nella terra dei Ciconi, dove ancora risuonano echi dell’epopea iliadea, al paese dei Lotofagi, col dolce incantesimo dei suoi fiori, all’isola delle Capre, idillico intermezzo che prepara poeticamente, per contrasto, all’episodio fondamentale del canto, nell’antro di Polifemo.
Noi non ascoltiamo più; ci siamo immedesimati nel nostro personaggio, agevolmente superando la finzione del racconto raccontato e divenendo i protagonisti di tutte le avventure del libro, ed in modo particolare dell’ultima, da cui il canto è interamente dominato.
Le virtù di Ulisse ci erano note anche prima della lettura di questo libro; le ha esaltate continuamente tra le lacrime Penelope, le hanno rievocate con trepida commozione Nestore a Pilo e Menelao a Sparta; il poeta d’altra parte, ci ha già presentato direttamente l’eroe, da Ogigia a Scheria e poi ancora qui, nella reggia di Alcinoo, fino al presente racconto.
Ma in questo canto Ulisse si manifesta in tutta la pienezza della sua umanità; in tre episodi: di guerra il primo, il secondo di incantesimo e più importante di tutti il terzo, con una sua nota particolare, che lo distingue dagli altri: alla terra di Polifemo Ulisse sbarca non sbattutovi dalla tempesta o per necessità di rifornimento, ma spinto dalla sua avidità di conoscere, da un’audacia spirituale dalla quale è nato nei secoli il “mito di Ulisse”, che tanto fascino ha esercitato sulla poesia d’ogni tempo.
Le bellezze dell’episodio di Polifemo sono già state messe in evidenza nelle diverse note, nostre e altrui, che commentano il passo; qui basti concludere che il canto è una delle più eloquenti testimonianze della grande poesia di Omero.
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