ODISSEA – Riassunto e commento 17° libro

ODISSEA

L’INCONTRO COL CAPRAIO MELANZIO
IL CANE ARGO
NELLA SUA CASA
UNO SGABELLO CONTRO IL MENDICO

LIBRO XVII

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Tempo: Trentottesima giornata dall’inizio del poema
Luoghi dell’azione raccontata: Strada che porta dalla capanna di Eumeo in città; la reggia di Itaca

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NEL LIBRO PRECEDENTE

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Giunge intanto alla capanna Telemaco, ed Eumeo, meravigliato e felice, lo abbraccia e lo la entrare, presentandogli l’ospite e affidandoglielo. Si scusa tuttavia il giovane, ché troppi sono i Proci e difficilmente egli potrebbe garantire l’ospite dalle loro offese. Resti da Eumeo e non gli mancherà nulla. Ma il mendico interviene, spronando il giovane alla vendetta. Mentre Eumeo si reca in città per dire a Penelope dell’arrivo di Telemaco, Ulisse sì svela al figlio e con lui concerta un generico piano di vendetta sui pretendenti, per quanto numerosi. Ritorna la nave dei Proci dal mare; Antinoo, scornato, propone un secondo agguato a Telemaco, prima che rientri in città, ma alla fine prevale il consiglio di Anfinomo, che vorrebbe prima consultare gli oracoli. Penelope, frattanto, si presenta ai Proci rimproverandoli del loro attentato, ma essi negano sfacciatamente. Eumeo torna alla capanna e, dopo aver cenato, i tre si mettono a riposare.
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All’alba Telemaco, dopo aver ordinato ad Eumeo di condurre il mendico in città a pitoccare – secondo i suoi desideri – raggiunge la reggia ed è accolto festosamente da Euriclea e dalle ancelle ed affettuosamente dalla madre che piange lacrime di gioia e vorrebbe subito avere notizie del suo viaggio. Il giovane, però, la prega soltanto di promettere sacrifici agli Dei se egli potrà vendicarsi sui Proci, che hanno attentato alla sua vita.
Quindi egli si reca in cerca di Pireo e Teoclimeno; lo accompagnano i Proci con aria falsamente amichevole, finché egli incontra tre vecchi amici del padre e s’intrattiene con loro. Giungono intanto anche Pireo e l’indovino; Telemaco ringrazia Pireo, lo prega di tenere ancora presso di sé i doni e con Teoclimeno rientra alla reggia, dove, dopo il bagno, essi seggono a mensa.
Penelope chiede ancora al figliolo notizie del suo viaggio ed egli riferisce ogni cosa, anche l’assicurazione di Proteo a Menelao che Ulisse è vivo, prigioniero in un’isola. Teoclimeno aggiunge di poter affermare, per aver visto un presagio, che Ulisse è già in Itaca e prepara la sua vendetta sui Proci, i quali, mentre avvengono questi discorsi, fuori della sala stanno gareggiando al disco e all’asta.
Eumeo ed il mendico lasciano intanto la capanna per venire in città; presso la fonte sacra alle Naiadi s’imbattono in Melanzio, il capraio che ha fatto causa comune coi Proci e sta loro recando le più belle capre, quale tributo giornaliero. Melanzio insolentisce contro Eumeo e più contro il mendico, che colpisce con un calcio, preannunciandogli quale bella accoglienza egli potrà trovare presso i Proci.
Ulisse sopporta paziente e si trattiene dal fracassargli la testa come vorrebbe.
Ora sono arrivati al vestibolo della reggia; giungono all’orecchio le note della cetra di Femio ed Ulisse se ne commuove e ripensa alla sua casa. Nel vestibolo, presso la porta, il vecchio cane Argo, patito e giacente sopra un mucchio di letame, ha riconosciuto la voce del padrone, dopo tanti anni. Ulisse gli si avvicina, Argo agita la coda e poi muore, fulminato dalla gioia.
Nella sala del banchetto entra prima Eumeo e quindi Ulisse che siede sulla soglia, ricevendo dalle mani del porcaro della carne e del pane, per ordine di Telemaco. Poi, finito il canto di Femio, il mendico fa il giro della sala, accattando qualcosa da tutti; il solo Antinoo lo oltraggia e lo minaccia e infine, tacciato di taccagneria, gli scaglia contro uno sgabello, ricevendone in cambio un funesto augurio ed una maledizione.
Penelope si sdegna di tale prepotenza e prega Eumeo di avvertire il mendico che ella vorrebbe parlargli, ma il mendico le fa riferire che è meglio attendere il tramonto, quando i Proci, ritornati alle loro case, non potranno più insolentire.
Eumeo, quindi, vorrebbe andarsene, ma Telemaco desidera prima che’egli ceni e infine, congedandosi, lo prega di ritornare il giorno dopo e di condurre personalmente le solite vittime per il banchetto.
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COMMENTO – Questo  XVII canto tra i vari motivi di poesia ne ha uno che supera gli altri e dal quale riceve il tono, il motivo del ritorno di Ulisse alla sua reggia.
Dopo lo sbarco felice all’isola del suo cuore, per l’eroe i dolori non sono finiti. Nessuna gioia possono godere gli uomini senza l’affanno di un dolore ed Ulisse deve ritornare alla sua casa sotto le misere spoglie di un mendico. Ulisse si accosta alla sua ricchezza, chiedendo ad altri un tozzo di pane, sentendosi rifiutare un tozzo del suo pane. Contrasto drammatico che il lettore avverte dal principio alla fine del canto. La devozione di Eumeo verso il mendico è devozione che va al di là di quanto è il verisimile per un porcaro verso un forestiero che è venuto a bussare alla sua porta: è la devozione del servo per Ulisse, che è più fortemente se stesso pur sotto i veli della finzione, la quale perdura e deve perdurare perché cosi vuole il racconto che ha le sue esigenza per andare avanti e concludersi.
L’avversione di Melanzio per il mendico è, d’altra parte, già un’avversione per Ulisse. II quale ha il potere magico di polarizzare su se stesso i sentimenti di chi lo incontra, siano essi sentimenti benevoli, siano essi malevoli, perché dotato di una personalità prorompente sotto la bisaccia sdrucita, dai panni logori, interprete troppo ricco di commozione e di emozione per lasciarsi imbrigliare completamente dal personaggio ch’egli è costretto a recitare.
Oh la commozione sua, piri che di Eumeo, davanti alla sacra fonte che un altare alle Naiadi sormonta e che egli guarda con l’animo ammirato del reduce e con occhio amoroso! Oh la musica di Femio che giunge all’orecchio, fuori dalle porte aperte della reggia, della sua reggia! E per contrasto la dura necessità di contenere quella gioia, di nasconderla agli occhi di tutti, anche degli intimi, perché la finzione non si scopra: il bisogno di non essere ancora Ulisse, per poterlo quindi essere, pienamente, a vendetta compiuta.
Ma l’episodio più famoso del canto, che da esso ha preso il nome, è la morte di Argo. II vecchio cane, sfinito, cieco, malandato, che giace su di un mucchio di letame tormentato dalle zecche, che trova tuttavia nella voce del mendico la voce del padrone e rizza felice gli orecchi e muove la coda gioiosamente e muore. Poche decine di versi, non di più, ma di condensata ed universale poesia. Tanta è l’umanità trasferita nel povero animale, che essa strappa al mendico una lacrima nascosta che ha il potere di farlo essere, per un attimo, Ulisse; davanti al proprio misero e tristissimo cane che ha conservato intatta, in venti anni, quella scintilla d’amore, che egli gli ha infusa da cucciolo, senza poterne godere allora…
Questo il primo contatto di Ulisse con la sua casa. Poi quando, dopo Eumeo, l’eroe entra nel mègaron, ricomincia la commedia del mendico, perché i pretendenti si scoprano e mettano a nudo la loro anima e i loro sentimenti. Ma ancora sotto le specie del mendico si scorge Ulisse, in quella istintiva ostilità di Antinoo, in quell’inespresso o appena espresso intuito degli altri verso di lui, che forse non è mendico, che potrebbe essere un Dio vendicatore, anche se non ancora e non proprio Ulisse, il re che ritorna.
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