ODISSEA – Riassunto e commento 24° libro

 ODISSEA

ULISSE E LAERTE
ULISSE SI FA RICONOSCERE
 GIOIA DEI SERVI
 L’ULTIMA BATTAGLIA E LA PACE

LIBRO XXIV
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Tempo: Quarantesima giornata dall’inizio del poema
Luoghi dell’azione raccontata: Ade, la campagna di Laerte, Itaca, l’Olimpo

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NEL LIBRO PRECEDENTE

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Penelope avvertita da Euriclea che il mendico è Ulisse scende nel mègaron, ma dubita a riconoscere il suo sposo anche quando, rivestito di una nuova veste, egli riceve da Minerva vigore e bellezza. Solo in prova del letto nuziale rende del tutto convinta la donna, che abbraccia finalmente Ulisse unendo le sue lacrime a quelle di lui. Nella notte, cessata la festa danzante indetta da Ulisse per far credere agli Itacesi che si stessero celebrando le nuove nozze della regina, marito e moglie si raccontano le loro reciproche traversie. All’alba infine Ulisse, dopo aver raccomandato a Penelope di rimanere ritirata nelle proprie stanze e di non ricevere nessuno, si reca con Telemaco e i due mandriani al podere di Laerte, avvolto in una nube mandata da Minerva.
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Dopo la strage dei Proci Mercurio accompagna all’Ade le anime degli uccisi. Nei regni sotterranei i principali eroi dell’Iliade Patroclo, Antiloco, Aiace stanno intorno ad Achille, il quale compiange la sorte toccata ad Agamennone per il tradimento di Clitennestra e di Egisto.
Sopraggiunge quindi anche l’Atride il quale, celebrando il destino del Pelide, morto gloriosamente sotto le mura di Troia, rievoca i grandiosi onori funebri che i Greci gli tributarono per diciassette giorni, ardendone quindi nel diciottesimo il cadavere, i cui resti furono racchiusi insieme a quelli di Patroclo in un’anfora d’oro, recata dalla stessa madre Tetide.
Giungono frattanto le ombre dei Proci; Agamennone riconosce fra essi Anfimedonte, del cui padre fu ospite in Itaca quando con Menelao egli era andato per persuadere Ulisse a prendere parte alla guerra di Troia e, meravigliato di vedere tutti assieme tanti giovani, chiede ad Anfimedonte notizie sulla loro morte immatura. Il giovane allora gli spiega tutta la loro storia, la corte alla regina nella convinzione che Ulisse più non tornasse, l’inganno della
tela da parte di Penelope, il ritorno e la vendetta del falso mendico, sotto le cui spoglie si celava appunto Ulisse.
L’Atride, a questo racconto, invidia Ulisse che aveva potuto far vendetta su chi gli insidiava la sua donna ed ha parole di ammirazione per la fedele Penelope, tanto diversa dall’infame Clitennestra.
Nella seconda parte del libro la scena ritorna ad Itaca. Ulisse col figliolo e i due servi giunge al podere di Laerte, ma il vecchio non è in casa e mentre Telemaco, Eumeo e Filezio restano a preparare il pranzo, l’eroe va in cerca del padre e lo trova nell’orto miseramente vestito e squallido d’aspetto, che sta lavorando intorno ad una pianta. L’eroe è incerto se rivelarsi subito oppure risvegliare nel vecchio il dolore per la lontananza del figlio, perché sia poi più intensa la gioia di saperlo ritornato. Infine mette in atto questo secondo proposito; accostatosi al padre gli chiede perché mai trascuri a tal punto la sua persona, si dichiara forestiero, gli chiede se quell’isola sia veramente Itaca e se sa dargli notizie di un suo antico ospite in Alibante, il quale diceva di essere itacese e figlio di Laerte d’Arcesio.
II vecchio, piangendo, tempesta a sua volta di domande il presunto forestiero e Ulisse inventa una delle sue solite storie, finché, impietosito della disperazione del padre, gli si manifesta abbracciandolo, gli mostra quindi quale segno di riconoscimento, la famosa cicatrice e, infine, gli nomina le piante regalategli da lui stesso, quando da piccolo lo accompagnava nei campi.
Laerte sviene dalla gioia e quindi, riavutosi, e ricevuta assicurazione dal figlio che già ha provveduto per resistere ad una eventuale vendetta dei parenti dei Proci, entrambi si recano in casa a mensa ed ivi Ulisse riceve le congratulazioni per il suo ritorno anche dal vecchio servo Dolio e dai suoi sei figlioli, al loro sopraggiungere.
Si è intanto diffusa la notizia della strage ed i parenti dei Proci provvedono a ritirarne i cadaveri per il funerale. Poi Eupite, il padre di Antinoo, radunati gli Itacesi, tenta di incitarli alla vendetta per il grave delitto. Le sue parole raggiungerebbero l’effetto desiderato se molti degli Itacesi non fossero dissuasi dall’araldo Medonte e dall’indovino Aliterse, che ricorda i gravi soprusi dei Proci. minacciando nuove sventure.
Alcuni tuttavia, con Eupite, si accingono in armi a raggiungere la casa di Laerte; un figlio di Dolio, appostato in vedetta, dà l’allarme. Nello scontro le forze sono diseguali, ma ancora una volta Minerva non manca di assistere Ulisse e i suoi, sotto le spoglie di Mentore. Cade Eupite, ucciso da Laerte e la battaglia infurierebbe se Minerva a gran voce non gridasse di far pace e di abbandonare il campo.
Ulisse vorrebbe inseguire gli assalitori in fuga, ma un fulmine di Giove lo trattiene; quindi, con l’auspicio di Minerva, si stabilisce la pace tra Ulisse e i suoi sudditi e ritorna, finalmente, l’agognata e serena tranquillità.
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COMMENTO – Fu detto che al poeta dell’Odissea è mancato, proprio al culmine dell’azione, l’afflato lirico ed è questa la conclusione alla quale dovrà giungere ogni attento lettore, che non si sia lasciato distrarre, nella lettura di questi ultimi canti, e del XXIV in particolare, da un eccessivo interesse per la vicenda, che ha la sua logica conclusione in un anelito di pace, dopo tante vicissitudini, pace che viene raggiunta con l’immancabile intervento di Giove e Minerva e la purificazione finale degli animi, dopo l’eccidio dei Proci.
Se la lettura dei poemi omerici ha avuto il potere di risvegliare la vostra sensibilità poetica – e non è necessario essere poeti per godere della poesia – vi sarete accorti che mentre il finale dell’Iliade vi ha lasciati turbati di un felice e gioioso turbamento, quello dell’Odissea, per quanto la nostra scelta di episodi si sia soffermata sui più belli dell’intero libro, ci ha lasciati indifferenti e solo attenti lettori alla vana ricerca di qualcosa che ancora ci commuovesse, che facesse vibrare nel nostro intimo quelle corde invisibili che ognuno di noi, anche se inconsapevolmente, custodisce nel suo cuore, forse più che nella mente.
Oppure, a non voler esser troppo severi, un solo passo s’è mostrato con accenti di vera poesia, l’incontro di Ulisse col padre Laerte ed il conseguente riconoscimento. Ci avrebbe lasciati certamente indifferenti la cosiddetta seconda nèkyia (presso gli antichi Greci, sacrificio o rito con cui si evocavano i morti a scopo divinatorio) che, per essere una fredda imitazione degli stupendi episodi dell’XI libro, fu giustamente considerata un’interpolazione tardiva; ci lascia solo attenti, perché c’è aria e sapor di conclusione, il finale del libro con la battaglietta tra Ulisse e i parenti dei Proci, della quale l’esito è facilmente intuibile o addirittura già scontato, per il peso considerevole della presenza di Minerva.
Resta l’incontro del padre col figlio, il quale, da solo, rende sensibilmente più vivo il tono assai scadente della poesia nell’intero libro. E a nessuno sarà sfuggita la grazia e la freschezza nel rievocare sereno di Ulisse, che si rivede bambino, in quello stesso orto, mentre segue con passi ineguali il padre, ancor florido negli anni, chiedendogli mille cose diverse e facendosi regalare ora un pero, ora un melo, ora un fico. Sentimenti idillici e di riposata pace, che valgono a sedare nel cuore del vecchio e del figlio il tumulto passionale del riconoscimento, che ha fatto perdere i sensi a Laerte e piangere Ulisse.
Comunque questo ventiquattresimo libro, accanto a coloro che lo giudicarono perfino “un centone raffazzonato alla meglio” da altra mano che non fu quella di Omero, è stato anche riabilitato e difeso da chi ha sostenuto che esso è l’opportuna conclusione non solo dell’Odissea, ma anche dell’Iliade. E se volessimo citare tutte le diverse opinioni dei critici non finiremmo più.
Per cui abituiamoci a “ripensare” da noi stessi quanto ci capiterà di leggere in avvenire, poesia valida o meno valida: il nostro giudizio, il vostro, può valere quello del critico più famoso, anche se sarà una semplice idea, espressa magari impropriamente: i più colossali incendi scaturiscono da una piccolissima scintilla.
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