PIERO DELLA FRANCESCA – Vita e opere

“Nella storia dell’arte esistono uomini che con la propria arte battezzano un’epoca, la informano con la propria sensibilità, la leggono con la propria intelligenza e la ricreano nell’invenzione di un nuovo mondo e di un nuovo uomo. Questa invenzione può essere chiamata stile, ma in certi casi è più opportuno chiamarla rivoluzione. Piero della Francesca è uno di questi uomini.”
(dal saggio di Pietro Allegretti).
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Piero di Benedetto de’ Franceschi, noto comunemente come Piero della Francesca (Borgo Sansepolcro, 12 settembre 1416/1417 – Borgo Sansepolcro, 12 ottobre 1492), è stato un pittore e matematico italiano. Tra le personalità più emblematiche del Rinascimento italiano, fu un esponente della seconda generazione di pittori-umanisti.

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Artista dalla personalità completa con precisi caratteri nazionali, Piero della Francesca crea un’arte “aristocratica” ma naturale. Le sue qualità emergono in un modo superbo nel ciclo degli affreschi della Chiesa di San Francesco in Arezzo.
Il “monarca della pittura”, secondo l’espressione di Pietro Allegretti, fu, per la generazione della metà del secolo, una personalità completa come quella di Giotto, e, come lui, di carattere nazionale, non provinciale.
Il suo genio superava i confini della Toscana e soprattutto di Firenze, dove, dopo gli anni di giovinezza che gli hanno permesso di conoscere l’opera di Masaccio e di lavorare a Sant’Egidio (1438 – 1440) con Domenico Veneziano, non è più ritornato.
La sua attività fu spesa fra piccoli centri del suo paese natio. Borgo San Sepolcro, la città di Arezzo, e le corti principesche, oltre l’Appennino , prima a Ferrara, poi a Urbino, dove fu chiamato.
Le esigenze dell’intelletto moderno e un assorta di ineffabile arcaismo innato, come l’amore virgiliano per la natura e l’esperienza del cerimoniale signorile hanno dunque nutrito in ugual misura la ricchezza di un’arte che sembra interamente sorgiva e di una perfetta naturalezza .
Il naturalismo, così diretto e nudo in Masaccio, accusa già in Piero della Francesca una flessione verso la frontalità, le forme auliche e di cerimonia.
Questa tendenza, che si spiega in parte con la circostanza che il pittore ha lavorato a lungo per le corti dell’Italia centrale e con il lento volgersi della borghesia verso il gusto aristocratico, non impedisce la profonda concretezza della rappresentazione.
Un altro punto su cui gli studiosi sono in genere concordi nel giudicare il carattere della pittura di Piero è quello della sua “impersonalità”.
Il critico d’arte del Novecento, Bernard Berenson, afferma…

“Fu, come comunemente si direbbe, impassibile; e cioè, non emotivo, nelle sue concezioni. L’impersonalità e l’assenza di emozioni manifeste le amava come una qualità delle cose. Ed avendo scelto, per ragioni artistiche, i tipi più virili e, per ragioni forse analoghe, un paesaggio della massima severità e dignità, combinò e ricombinò questi elementi, e questi soltanto, secondo le esigenze dei vari soggetti…, in modo che le grandi figure, le azioni solenni, il paesaggio severo, esclusa ogni mediazione sentimentale, esercitassero su di noi il potere più intenso”.

 LA LEGGENDA DELLA VERA CROCE – VIII Episodio

Tutte queste qualità e caratteristiche di Piero sono decisamente ben descritte nel saggio di Pietro Allegretti ed emergono in modo superbo nel ciclo degli affreschi che il pittore dipinse ad Arezzo, nella chiesa di San Francesco, tra il 1452 e il 1459.
Il tema di questo ciclo d’affreschi è ripreso da una leggenda cristiana raccontata da Jacopo da Varagine: L’INVENZIONE DELLA SANTA CROCE.
Si tratta cioè della storia dell’imperatore Costantino e di sua madre, che va in Palestina alla ricerca della preziosa reliquia.
La scelta di questo soggetto è abbastanza significativa: in quest’epoca infatti Pio II aveva bandito una crociata contro gli “infedeli”.
Ma in fondo, per Piero, tutto ciò non è che un pretesto: il suo affresco infatti ha ben altro senso e significato.
Le composizioni di questi affreschi infatti rappresentano e celebrano soprattutto ogni aspetto della vita del tempo con un rigore solenne, con un accento epico, rude, e cavalleresco insieme.
Battaglie folte di personaggi, di cavalli, di stendardi, di lance, scudi, spade e mazze ferrate, con sfondi di paesaggi larghi, luminosi: ecco di quali figurazioni vivono questi affreschi, né manca il corteo, il ricevimento, la gente delle strade o che lavora.
Ma tutti questi personaggi sono legati insieme da una logica formale, da una struttura compositiva e prospettica di straordinaria forza intellettuale.
È anzi proprio questo fatto che appare di prima evidenza nell’opera di Piero: questa “organizzazione” intellettuale, a cui egli dà uno svolgimento deciso per solidità di forme e grandiosità di concezione.

Del resto sono doti che si riscontrano in tutte le opere che egli ha dipinto in questo stesso periodo.

IL SOGNO DI COSTANTINO – Piero della Francesca 

Dalla LEGGENDA DELLA VERA CROCE, il SOGNO DI COSTANTINO (coro della chiesa di San Francesco ad Arezzo) crea il gioco del chiaroscuro, il primo notturno della pittura italiana, è un affresco tra i più celebri del nostro Piero ed è un’opera che ha sempre sollecitato commenti sulla rusticità innata, sulle radici contadine, sulla natura popolare della sua arte.

RESURREZIONE DI CRISTO

La RESURREZIONE DI CRISTO di Borgo San Sepolcro è monumentale negli scorci e quasi trasparente nella vita del colore. L’immagine racchiude un duplice significato, religioso e politico: la figura del Cristo risorto è infatti rappresentata sullo stemma di Borgo Sansepolcro, che da una leggenda legata ai luoghi del Santo Sepolcro trarrebbe le sue mitiche leggende.
Complessa è la lettura iconografica dell’opera: Cristo, fulcro dell’intera composizione, è il simbolo della “Renovatio Mundi”…, al suo passaggio la natura, prima sterile, diventa feconda…, la morte e la notte, metaforicamente rappresentate nei soldati addormentati dinanzi al sarcofago, vengono sconfitte dalla potente immagine di vita, di forza e di luce spirituale del Risorto, simbolo di salvezza eterna.
Nel volto riverso del guardiano che poggia il capo sul bordo marmoreo del sepolcro la tradizione suole riconoscere l’autoritratto del nostro caro Piero.

 

POLITTICO DELLA MISERICORDIA – Piero della Francesca 

Nel POLITTICO DELLA MISERICORDIA eseguito per la chiesa di Sant’Agostino, sempre a Borgo San Sepolcro, ultimato nel 1469, la tesi è enunciata in termini quasi astrattamente teorici: il fondo d’oro come identità assoluta spazio-luce, le figure ridotte a forme quasi geometriche…, oggi il dipinto si trova smembrato tra Lisbona, Londra e New York.
Il dipinto raffigura uno schieramento di figure isolate, in piedi, su fondo d’oro: i rapporti di grandezza tra gli scomparti sono modulari…, ogni figura occupa e misura esattamente la cubatura spaziale compresa tra piano frontale e piano di fondo…, questo prisma di spazio è riempito dalla luce che investe le figure ed è riflessa dal fondo dorato…, l’illuminazione, dunque, costruisce il volume. L’assenza di ogni elemento architettonico o paesistico prova che, per Piero, la figura umana non è soltanto la mediazione tra spazio teorico e spazio empirico, ma la rivelazione della identità assoluta di spazio geometrico e luce.
Accanto a queste opere, bisogna ricordare la MADONNA DI SINIGALLIA (“Madonna col Bambino benedicente e due angeli” – 1470 circa – Galleria degli Uffizi, Firenze), è una vera e propria creazione della luce, che penetra dalla finestra chiusa e investe frontalmente tutte le figure, sfumando i contorni dei volti, infiltrandosi nelle pieghe dei voluminoso panneggi, indorando di riflessi argentinati i capelli degli angeli, sollevando in delicate trasparenze il velo leggero che poggia sul capo perfettamente ovale della Vergine, riflettendosi infine nei particolari più minuti, come nella precisa coroncina di corallo del bambino o nella duplice fila di perle dell’angelo di destra.
LA MADONNA COL FIGLIO, ANGELI E SANTI E, IN GINOCCHIO, FEDERICO DI MONTEFELTRO, DUCA D’URBINO, un’opera del 1475 (Pinacoteca di Brera, Milano).
In questa mirabile pala, la Vergine seduta in trono è circondata dalla sua corte beata, mentre il Duca nella sua armatura è inginocchiato in primo piano a destra…, dalla piccola cupola che sovrasta la scena, al centro, pende un uovo di struzzo, simbolo medievale dell’Immacolata Concezione e, insieme, emblema intellettuale dell’ordine cosmico.
Opere precedenti di Piero sono…

 

BATTESIMO DI CRISTO

Nel BATTESIMO DI CRISTO del National Gallery di Londra, la tesi è verificata sulla varietà delle sembianze naturali: lo spazio è un paesaggio aperto fino all’orizzonte, pieno di luce chiara e trasparente, come nell’Angelico.
Ma non c’è propagazione della luce: il cielo si specchia nell’acqua in primo piano, alla luce che scende dall’alto corrisponde la luce che sale, riflessa, dal basso.
Non essendovi trasmissione ma fissazione di luce, non vi è corsa prospettica di linee e di piani colorati, ma un progressivo allontanarsi di macchie brune di boschi sui campi chiari.
I tre angeli non partecipano al rito portando, come di solito, le vesti di Cristo: sono pure presenze, quasi personificazioni mitiche dello spazio.
Ma non lo adombrano nel simbolo, lo rivelano nella pienezza della forma.
È evidente l’analogia tra il tronco dell’albero e i corpi nudi: tendono ugualmente alla forma ideale del cilindro, della colonna.
E il corpo del battezzando che si spoglia, in secondo piano, è incurvato per mettere in rapporto le verticali ripetute, parallele delle figure e dell’albero con l’ansa del fiume e le curve blande dell’orizzonte.
Nessuna “gerarchia” tra figure umane, alberi, paesaggio, fino ai minimi particolari: tutto ciò che si vede è, non vi sono gradi o diversi modi di essere.
Poiché tutto è rivelato e certo, non può esservi anelito, ansia, tensione religiosa: la rivelazione della verità è conoscenza per l’intelletto, norma per l’agire morale.
Per me questo dipinto è una chiara allusione al tema della riconciliazione tra Chiesa orientale e occidentale che si era discusso nel concilio fiorentino del 1439.

 

SAN GEROLAMO E UN DEVOTO

La tavoletta di SAN GEROLAMO E UN DEVOTO, che si trova nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, si configura come un’importantissima attestazione dell’attività giovanile di Piero, interessa per la funzione modellatrice della luce, per la qualità cromatica dell’insieme e per il rapporto armonico che la figura umana instaura con la natura, descritta con sensibilità e cura minuziosa.

 

FLAGELLAZIONE DI CRISTO

La FLAGELLAZIONE DI CRISTO, che si trova nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, rappresenta metaforicamente dipingendo, i drammatici avvenimenti che colpirono la cristianità in quegli anni: la presa di Costantinopoli del 1453, il successo blando della crociata del 1455 e il concilio di Mantova del 1459.
In tutte queste opere l’intuizione geometrica e l’intensità del colore sono portate ad un livello eccezionale di perfezione, a una nitidezza mentale che oggi si ama definire “metafisica”. Ma in Piero, naturalmente, non si trattava di ciò. Si trattava soltanto di imporre alla realtà il dominio razionale dell’intelligenza. Proprio per questo Piero della Francesca è stato anche un teorico.
Il suo trattato DE PERSPECTIVA PINGENDI è il risultato di tale passione intellettuale e il frutto di attenti studi per fornire all’artista un mezzo fondamentale di conoscenza del mondo. Il trovar che un artista del Quattrocento, in special modo se è architetto, si sia intrattenuto anche a scrivere di matematica quale premessa essenziale alla trattazione della sua attività principale, non desta alcuna meraviglia, si tratta di avvenimento tutt’altro che raro e agli studiosi di storia dell’arte son noti gli scritti di tal sorta che, da vari ricercatori come Pietro Allegretti, sono stati portati alle stampe.
Ora è da parlarsi di un artista che più volte ebbe a scrivere di matematica e non fu architetto; ma non sta in ciò la sua caratteristica fondamentale ché ben altre e di alto livello gli debbono essere riconosciute: intendo dire di Piero della Francesca. La matematica è una delle componenti della forma mentis di Piero della Francesca e ne è una delle più importanti.
Benché intimamente conscio dei fattori essenziali della vita e dell’arte, Piero della Francesca non ha nulla del primitivo.
Nel senso pieno e critico della parola, è un artista classico…,e la sua riscoperta si deve in gran parte a un nuovo classicismo, di cui Cézanne e Seurat furono le manifestazioni viventi.
Non c’è da meravigliarsi se gli ammiratori di Cezanne avevano un’idea dell’arte del ‘400 diversa da quella degli ammiratori di Burne Jones: non cercavano fantasia bensì ordine, non grazia bensì solidità.