ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE – Lewis Carroll

ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE

Lewis Carroll

Introduzione

Alice nel paese delle meraviglie è il titolo italiano di un libro inglese per ragazzi, molto noto anche da noi, dove tuttavia non gode della popolarità che seppe conquistarsi nei paesi anglosassoni fin dal suo primo apparire nel 1865. 
Il titolo originale è Alice’s Adventures in Wonderland (Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie). Avventure strane, è vero, surreali, assurde, qualcosa come il lungo sogno di una bambina bizzarra; ma sono pur sempre avventure, anche se di un genere particolare, che coinvolge una zona della fantasia raramente tentata prima: quella che possiamo senz’altro chiamare, con una parola più inglese che italiana, la zona del nonsenso (in inglese nonsense).

Recensione




II nonsense


Che cos’è il nonsense, o nonsenso che dir si voglia? È un discorso senza capo né coda e soprattutto senza senso, o, per essere più esatti, che rifiuta di concludersi in un significato immediato, comprensibile, normale. Normali possono essere le parole che lo formano, le loro combinazioni, i nessi grammaticali e sintattici; ma, preso nel complesso, il nonsenso significa qualcosa di anomalo, di assurdo, di grottescamente stravolto; o addirittura non significa niente.
E allora a che serve, che scopo ha, che segnale vuol trasmettere? Vuol comunicare un messaggio misterioso? È possibile che, se non ha un senso apparente, ne abbia uno nascosto?
Se il nonsenso avesse un significato nascosto, sarebbe un indovinello e non il discorso insensato che è. Il nonsenso in genere non nasconde proprio nulla: tuttavia uno scopo ce l’ha, e come.
Intanto è provocatorio, proponendosi ad ogni passo di rompere lo schema logico comune. Si veda questo esempio tolto proprio da Alice, a colloquio con gli strani personaggi del suo magico mondo: Alice è a tavola per il tè (la cerimonia pomeridiana rituale degli Inglesi) con la Lepre Marzolina e il Cappellaio, che ha appena estratto l’orologio di tasca e lo sta guardando preoccupato:
“E’ indietro di due giorni”… sospirò il Cappellaio; e guardando di traverso la Lepre Marzolina aggiunse: 
“Te l’avevo detto che il burro non è buono per aggiustare gli orologi!”
“Ma era burro di prima qualità” rispose la lepre con tono di scusa…
E’ chiaro che non ha senso sostenere che un orologio (che allora era senza datario) è indietro di due giorni; che è una stramberia affermare che gli orologi non si aggiustano col burro, anche se la cosa in sé è vera; peggio ancora rispondere “Ma era burro di prima qualità”, che può sembrare lì per lì una risposta coerente e sensata, mentre è insensata del tutto e non c’entra nulla (noi infatti, alla risposta della lepre, ribatteremmo stizziti: “Ma che c’entra?”).
Il dialogo, in questo modo, col suo finto tono di normalità, è stravolto dunque a rottura provocatoria degli schemi usuali del discorso; che è appunto lo scopo principale del nonsenso.
Scopo che subito, a sud volta, ne implica un altro: lo scatenamento della fantasia spesso sofferente dei limiti del verosimile, che, costretta di solito a non contraddirsi, si libera finalmente in una serie di affermazioni in contraddizione tra loro e prive di logica, legate soltanto (questo è importante) da analogie piacevoli, capricciose, dense di umorismo.
L’intero gioco, infine, può nascondere, in qualche caso, ma non necessariamente, qualche doppio significato, senza per questo scadere nel comune indovinello: richiamare, per esempio, i nostri modi di comportamento per satireggiarne la monotonia, I’ipocrisia, la miseria; deridere i vizi, la vanità, il moralismo ossessivo, il gretto formalismo; scherzare sulle debolezze, le banalità di ogni giorno.




Il limerick


A scrivere nonsensi già si era dilettato, prima che il libro del Carroll vedesse la luce, un pittore, inglese anche lui, Edward Lear, che aveva pubblicato, una ventina d’anni prima, una serie di poesiole, i cosiddetti limericks, raccolte sotto il titolo Il libro dei nonsensi e molto diffuse tra i ragazzi inglesi.
Ne do due esempi presi a caso:


C’era una vecchia signora di Praga
che parlava in maniera orribilmente vaga.
Quando le chiedevano: “Sono cuffie, queste qui?”
Rispondeva: “Forse sì”
quell’indovina signora di Praga.


C’era un vecchio signore di Gretna:
ruzzolò nel cratere dell’Etna.
Qualcuno gli chiese: “Fa caldo?”
“No, no” rispose il bugiardo
vecchio signore di Gretna. 


Discorsi piuttosto insensati (e nella raccolta ve ne sono di più insensati ancora): tuttavia, almeno in questi due casi, danno vita a due figurine chiaramente delineate: la signora che non sa mai decidersi (e si noti l’ironia della “indovina” dell’ultimo verso) e il signore ottusamente ottimista, che sente fresco anche dentro il cratere del vulcano.
In Alice nel paese delle meraviglie non ci sono limericks, anche se non mancano le poesiole e le canzonette insensate.
Alice è un vero e proprio racconto di avventure: ma avventure di parole, più che di situazioni: un gioco cerebrale, di stampo tutto anglosassone, delizioso anche se a modo suo, anche se di non facile presa sui nostri gusti latini, mediterranei, più esigenti nella direzione del reale o almeno del verosimile, meno pronti ad abbandonarsi a questo tipo di divertimento.




Alice


Chi è dunque Alice? Alice è una bimbetta tutta inglese e tutta bene educata (siamo sotto il regno della regina Vittoria d’Inghilterra, in una società regolata da ferree convenzioni, con le quali non si scherza) che un giorno, mentre sta rincorrendo un suo coniglietto nel bosco, precipita in una buca verso il centro della terra; ma, intendiamoci, con molta naturalezza, da brava bambina intelligente che non teme di rompersi le gambe per così poco. 
Arrivata al fondo, si trova in un luogo che sembra fatto apposta per i bambini dalla fantasia vivace, dove, mangiando una fetta di torta, diventa piccola piccola, bevendo un sorso di liquore, diventa grande grande; dove gli animali parlano, il Coniglio, il Gatto che non si vede (si vede soltanto il suo sorriso), la Lepre Marzolina, la Finta Tartaruga e parecchi altri, e i personaggi dall’aspetto umano sono gli stessi delle carte da gioco, la Regna di Cuori, il Fante di Cuori e così via; e altri ancora ve ne sono, divenuti poi notissimi, come il già citato Cappellaio dall’orologio che resta indietro di due giorni.
Ma fin qui saremmo ancora nel variopinto mondo della fiaba. Sennonché d’altra natura è il comportamento di queste creature, sono i loro dialoghi astrusi e dolcemente folli, le loro bizzarrie, che mantengono ogni pagina su un piano assolutamente originale e nuovo.
Se alla base dell’operazione è la candida spregiudicatezza con la quale i bambini interpretano la realtà che li circonda, non ancora sperimentata e codificata – la spregiudicatezza della bambina che parla da sola alla propria bambola o del maschietto che trasforma tranquillamente una sedia in un’automobile -; nel libro di Alice l’operazione procede in un gioco di fine intelligenza, che si fa spesso satira sottile del mondo dei grandi imitandone grottescamente le insopportabili maniere convenzionali, con risultati quasi sempre di alto livello umoristico e poetico.




Alice attraverso lo specchio


Nel seguito di Alice, intitolato Alice attraverso lo specchio, pubblicato nel 1871, il Carroll immagina un’altra operazione semplicissima, che illumina ancora meglio questo gioco di scambio tra concreto e non concreto: immagina che Alice penetri in uno specchio, quello del suo salotto e entri nella zona inesistente è pur così visibile che sta al di là di una lastra di vetro.
Facciamo una prova: se anche noi ci specchiamo, vediamo noi stessi apparentemente identici a quel che siamo, ma in realtà rovesciati. Infatti, ciò che tocchiamo con la mano destra, la nostra immagine tocca con la sinistra; se strizziamo l’occhio sinistro, il nostro io che ci sta davanti ci stizza il destro. 
Quel mondo che sta di là ci sembra uguale e invece è diverso. Penetrarvi significa stravolgere, rovesciare appunto ogni rapporto usuale.
Così accade nel nuovo ciclo di avventure, che questa volta Alice, al di là dello specchio, vive su una scacchiera, sicché i personaggi sono i pezzi per il gioco degli scacchi. Un mondo dove i fiori parlano e dove Alice si comporta, come sempre, da ragazzina educata, che con tutta naturalezza fa scempio della logica degli adulti.




Il professor Dodgson


Non ho detto nulla dell’autore. Lo sbrigo rapidamente, anche se fu uomo da meritare un lunghissimo e complicatissimo discorso – che, del resto, è già stato fatto e si sta tuttora facendo da parie di studiosi di tutti i paesi. 
Non si chiamava Carroll: questo nome fu quello che egli adottò come pseudonimo per i suoi nonsensi. Il suo vero nome era Charles L. Dodgson; la sua professione, quella di docente di matematica pura all’Università di Oxford, autore di grossi trattati scientifici, che ebbero un posto importante negli studi matematici europei della fine del secolo scorso.
Scapolo impenitente, il celebre professore aveva una curiosa e particolare predilezione per le bambine, figlie di amici e conoscenti, che amava tenersi intorno incantandole con lunghi affascinanti racconti. 
L’amicizia con le tre sorelline Liddell, di cui la maggiore si chiamava Alice, gli dette l’occasione di inventare per loro le storie trascritte poi e pubblicate nei due volumi. Il primo dei quali fu scritto certamente per divertimento e solo con molta titubanza e ritrosia l’autore si decise a farlo conoscere. 
Ma che nascesse da un gioco non ha molta importanza; anzi, si può forse pensare che un nonsenso si possa scrivere senza divertimento? 
Certo si è che con quel gioco egli raggiunse, in certe pagine, persino la poesia; e fu così che la candida Alice rese noto nel mondo il timido giocoliere di parole Lewis Carroll, assai più di quanto potessero fare le opere severe di matematica nei confronti del dotto professor Dodgson.

















































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