LE CINQUE TERRE

Il pittoresco borgo di Manarola, abbarbicato alle rocce scoscese sul mare (Foto IGDA/G. Elli)

LE CINQUE TERRE

Quel tratto del litus italicum, che Francesco Petrarca stimava degno di un canto immortale, fu in passato termine di confine fra la Lunigiana ed il Genovesato. Oggi appartiene alla provincia della Spezia e va famoso nel mondo con il nome di Cinque Terre, da cinque paesi abbarbicati fra roccia e mare: Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore. Sono essi ancora quasi isolati. Qui non è ancora giunto il turismo di massa, qui il nostro sguardo può immergersi nei gorghi luminosi del mare adamantino o abbracciare immensi orizzonti dagli spalti rocciosi a picco sul mare; qui ci si può appagare del frangersi delle onde sulla roccia, dei canti dei vignaioli o dello sbuffare di qualche treno che rapido si tuffa nell’azzurro e rientra subito nei cunicoli bui scavati nel ventre della montagna. Da queste serene solitudini tutto sembra favolosamente piccolo: dalle casine rosse e grigie dei borghi al treno che passa come in un giuoco di ragazzi, dalle barchette immobili come secchi gusci di noce agli uomini, quegli uomini che come formiche, vivono aggrappati alle rocce, seminascosti dai tralci dei loro famosi vigneti. “Quod natura negavit industria peperit” scrive il Targioni nel 1777, traducendo l’annalista cinquecentesco Giustiniani, “perché non essendo egli altro che monti sassosi e dirupati in modo che neppure vi possono montare capre, nientedimeno abbonda di vigne al sommo fruttifere, per coltivare le quali è necessario che gli uomini si calino dalle rupi legati nel mezzo del corpo con una corda”. Oggi poco è cambiato, l’uomo è legato ugualmente ai suoi vitigni a terrazze, ai suoi “pastini”.
In un’insenatura protetta a ponente dalla punta del Mesco, donde hanno inizio le Cinque Terre, posa Monterosso, il maggiore e moderno borgo di questo tratto di Liguria. La rosa, incastonata nella facciata a strisce bianco-nere della parrocchiale, ricostruita ai primi del trecento, è l’elemento artisticamente più nobile della cittadina. L’interno del sacro edificio, arioso e leggero per lo slancio delle sue arcate, racchiude qualche bella tela di scuola genovese del cinquecento ed un grandioso ciborio in legno dorato e dipinto, a forma di tempio, che seppur di primo seicento sviluppa ancora elementi rinascimentali. Veglia la quiete di Monterosso il convento dei cappuccini (XVII secolo), dal cui ombroso piazzale che si affaccia sul mare è possibile scorgere tutta la costa delle Cinque Terre in un digradare lievissimo di sporgenze e di rientranze sempre più trasparenti ed azzurrine. Più in alto, a quasi cinquecento metri di altitudine, l’occhio vigile della Madonna di Saviore spazia benigno questa sua selvaggia terra e l’immensità dell’azzurro mare sino alle isole lontane della Corsica, di Capraia e di Gorgona.
Per arrampicarsi sui dossi delle Cinque Terre occorrono buoni garretti. Se è già dura l’erta che sale da Monterosso a Soviore, o da Vernazza al santuario di Reggio, solo ai più audaci il monte Malpertuso offrirà, con i suoi impervi ottocento e più metri, uno dei più superbi panorami della Liguria. E di monte in monte, di costa in costa, queste visioni, ora selvagge e rupestri, ora più dolci e serene, ci accompagneranno scendendo verso il santuario della Madonna di Reggio che domina Vernazza, con una facciata gotica del XIV secolo e mura perimetrali, in parte più antiche. Ora i “pastini”, simili a balconi ricolmi di verde, si fanno sempre più fitti, fino a lambire le acque del mare. Siamo nella patria dello sciacchetrà, dell’amabile, dei rinforzati. Il paese, incrostato alla nuda roccia sporgente sul mare, sembra una prora di nave attaccata dai marosi. Le case si conformano allo scoglio: case-fortezza, addossate l’una sull’altra, in mezzo alle quali si aprono stradette buie e strettissime. Furono così volute in difesa dalle scorrerie saracene: una cassapanca, un sacchetto di terra, un masso gettati dalle finestre e l’orda corsara era costretta a sostare perdendo tempo prezioso per quegli assalti la cui buona riuscita era condizionata dalla rapidità dell’azione.
Sulla proda del mare, nel centro di Vernazza, si apre una piazzola ove vengono issate le barche da pesca. Vecchi portici, rustiche botteghe chiudono la piazza. Sulla sinistra, gli speroni nudi dei muri della parrocchiale che sembra sorgere dal mare. La facciata è ormai totalmente sfigurata, ma nell’interno, con i suoi possenti arconi a tutto sesto, ritroveremo le schiette e rudi forme dell’architettura tardoromanica di pretta ispirazione lombarda. Nei giorni di mare mosso si può udire un rauco e profondo rumore, come un ansare sotterraneo e misterioso: sono i marosi che furoreggiano dentro la grotta del Diavolo che fora, al livello del mare, tutta Vernazza.
All’ansimare possente della rupe, fanno eco altri rumori lungo tutta la costa, fino al canto solenne della grotta Arpaia, sotto il castello di Portovenere.
A Corniglia si può giungere in pochi minuti con il treno, attraverso il buio di una galleria; ma chi vuol rivivere le impressioni che Eugenio Montale, nativo proprio di queste terre, ha lasciato nei suoi Ossi di seppia, si lasci trasportare sulle onde da un guscio natante. Le agavi carnose, uscenti dai crepacci della rupe, protendono all’aria i loro aurati tentacoli come giganteschi candelabri. Scalinate aperte nella roccia salgono ripidamente al cielo, in una sequenza senza fine. Ove neppure l’agave, né la vite può allungare i suoi tralci ora verdi, ora dorati o rossicci, si protende la roccia nuda, spaccata dal sole e dai venti salmastri. Qui resiste solo l’umile cineraria selvatica con l’oro dei suoi fiori e l’argenteo biancore delle foglie.
Dal mare saliamo a Corniglia, avventurandoci per una ripida gradinata che sembra non aver termine. Giungiamo infine al gruppetto di case sul vertice del promontorio, abbarbicato alla roccia che, per tre lati, di fronte al mare aperto, è tutta. coperta dal verde dei suoi vigneti famosi. Corniglia è sola nel riposante suo isolamento: una bella addormentata in un bosco tra mare e cielo. La sua testa si illumina nella facciata della parrocchiale che incastona nel centro un radioso rosone marmoreo. La chiesina fu iniziata in forme goticheggianti nel 1334; i pistoiesi Matteo e Pietro da Campiglio l’ornarono della rosa che poi si ripeterà sulla facciata della’ chiesa di Manarola, il terzo paese delle Cinque Terre.

Al pari di Corniglia, Manarola poggia su un promontorio a picco sul mare, ma il vecchio borgo si dilunga scosceso fino alla riva. Qui la caletta è costruita sulla viva roccia come una specie di terrazzo pensile ove le barche vengono fatte scivolare a forza di braccia e quindi issate in alto, al riparo dai marosi. È la prima terrazza che s’incontra, e non v’è casa che non ne possieda almeno una, quasi sempre pensile, spesso affacciata a perpendicolo sul mare, in posizioni da capogiro. E sulle terrazze, bruciati dal sole accecante, in un tripudio impensato di colori, fioriscono splendidi gerani. Nei pochi metri quadrati di terra rimasta libera, fra una casa e l’altra, vengono coltivati orticelli recinti da muriccioli a secco, cui si accede spesso dal tetto o dalle finestre che guardano a monte.
La parte orientale del borgo, a perpendicolo sulla parete rocciosa, strapiombante,.è una sola grande terrazza in colloquio, anzi in lotta continua con i marosi sottostanti. Chi non si è mai inebriato di luce, si affacci almeno una volta dagli spalti di questa favolosa altana. La gotica parrocchiale, iniziata sembra nel 1338, s’innalza in posizione dominante quasi all’estremo nord del paese. La luce che filtra nell’interno dalla rosa elegantissima di facciata, giuoca con l’oro di un grande polittico quattrocentesco. Chi sia stato l’ignoto pittore non è dato di sapere, un toscano probabilmente che lasciò un’opera nell’antichissimo (ma ricostruito verso e deturpato nel seicento) santuario di Volastra, a 340 metri di altitudine, in una stupenda posizione, davanti al mare azzurro di Manarola.
Un umile sentiero pedonale collega Manarola con Riomaggiore. È chiamato via dell’Amore, e nella sua rustica semplicità può considerarsi, se non la più famosa, certo una fra le più belle strade panoramiche di tutta la nostra penisola. Tagliata nella roccia viva, in alto sulla costa del monte, si snoda come un magico, luminosissimo nastro aereo, in bilico quasi sui flutti che incessantemente vengono ad infrangersi ai suoi piedi. La visione è dolce, quasi incantata, nei giorni di sole o nelle notti di bonaccia estiva, ma orrendamente bella quando infuria la tempesta. Per avere un’idea di via dell’Amore, si pensi alla passeggiata di Nervi, anche se questa è assai più bassa sul mare e stucchevolmente illeggiadrita da troppo accomodati terrazzi e da brutti edifici. Quaggiù invece la zona è ancora intatta: solo la rupe viva che scoscende a picco, e che forma naturali bastioni di rocce stratificate. Dagli spalti si può spaziare, come dal più alto balcone di un faro, fino a punta del Mesco.
Lasciando poi alle spalle lo scoglio di Manarola, aggirata l’ultima curva a serpentino, verrà incontro Riomaggiore, il più noto borgo delle Cinque Terre. La sua fama è legata ai cento e cento dipinti e disegni che qui Telemaco Signorini eseguì e che ben presto esularono in ogni parte d’Europa. Riomaggiore fu conosciuta a Firenze come a Parigi, a Roma come a Londra.

Signorini giungeva per la prima volta a Riomaggiore nel 1860 e così la descriveva qualche tempo dopo: “…il rio che giù dalla valle precipitando al mare percorre il paese, era bordeggiato allora più che da case, da orride spelonche dalle quali pioveva nel rio ogni sozzura […] non una bottega, non un abitante che alla nostra vista non si rintanasse. E noi, tra quelle sozze tane, tra quel precipizio di volte di scale puzzolenti, scendemmo dalla stretta gola dello scalo alla marina. E là si ebbe il risveglio voluttuoso di tutti i nostri sensi”.

Erano dunque i tempi in cui la massaia, uscendo di casa al mattino per cuocere il suo pane nell’unico forno del paese, doveva gridare in continuazione, quasi cantando: “Passa il pan… passa il pan”, per tema che i rifiuti gettati dalle finestre non finissero dentro la sua saporita cesta. Ma il contatto con il resto del mondo, raggiunto nel 1874 con la costruzione della ferrovia litoranea, modificò assai presto il costume dei borghigiani e già il Signorini, tornando per un lungo soggiorno a Riomaggiore, poteva annotare: “Questa stessa gente che trentacinque anni avanti fuggiva rintanandosi, quanto è trasformata e quanto cortese con me: l’amico e il pittore di tutti gli eccentrici del paese”. Oggi rimane solo “il risveglio voluttuoso dei sensi”, anche se Riomaggiore non è cambiata affatto. Il rio è in gran parte coperto e lastricato; le case pulite, dipinte di rosa, di rosso o di celeste, si sporgono come allora, addossate l’una all’altra, intersecate da ponticelli volanti, da ballatoi, da orticelli pensili, da  aperture arcuate, da più grandi volte.
La parrocchiale di Riomaggiore (1340 circa) è contemporanea a quelle di Manarola e di Corniglia e, nell’interno, a questa assai simile, ma la sua facciata è un modesto rifacimento moderno. Più in alto, i ruderi del vecchio castello di difesa accolgono il più curioso cimitero del mondo: per necessità di spazio conteso dal vigneto centimetro per centimetro, né potendosi scavare a causa della roccia, i morti vengono sepolti l’uno sull’altro in monumentali cataste da sembrare nuovi terrazzi sorti al posto dei vecchi cadenti bastioni. Da qui, una gradinata interminabile che sale per 340 metri, conduce al santuario di Nostra Signora di Montenero, la patrona di Riomaggiore, la regina cui sono dedicati tutti gli antichi santuari delle Cinque Terre.
La scogliera inaccessibile continua fino a Portovenere in un alternarsi di rocce multicolori che toccano le note più violente del rosso granato in una zona detta appunto delle Rocce Rosse. Dal mare al monte, versa Campiglia, Monesteroli, Schiara, solo lunghe scalinate. La strada vera e propria è finora giunta dalla Spezia a Riomaggiore e Manarola. Le Cinque Terre vivono oggi nell’attesa che essa prosegua lungo tutta la costa fino a Monterosso ed oltre, fino a Sestri; ma quando la strada verrà solo un miracolo potrà salvare dal ferro e dal cemento questa ancor intatta, fulgida costa di Liguria. (Piero Torrìti)

Veduta di Corniglia – frazione di Vernazza – che sorge su un tavoliere di esigua ampiezza e a strapiombo sul mare nella striscia costiera delle Cinque Terre; intorno all’abitato si stendono alcuni dei vigneti che producono i vini (detti delle Cinque Terre) noti in tutt’Italia. (Foto: A. De Gregorio).

Scorcio di Riomaggiore, caratteristico e noto centro abitato delle Cinque Terre. Questo borgo – fitto di case addossate l’una all’altra – fu il luogo di soggiorno prediletto del pittore Telemaco Signorini che in numerosi quadri e disegni ritrasse la vita e gli aspetti tipici delle Cinque Terre. (Foto: IGDA/P2).

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