PASTORELLA CON IL SUO GREGGE – Jean-François Millet

PASTORELLA CON IL SUO GREGGE (1864)
Jean-François Millet (1814-1875)
Olio su tela cm 81 x 146
Musée d’Orsay, Parigi

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Quest’opera, conosciuta anche come La grande bergêre, risale al periodo di Barbizon (piccolo villaggio ai bordi della foresta di Fointainebleau), dove l’artista si trasferì definitivamente nel 1849.
Il dipinto, pur distinguendosi dagli altri eseguiti in questo periodo, ne è affine per il gusto della rappresentazione naturalista. La figura solitaria della pecoraia, solidamente costruita in primo piano per larghe masse di colore, nettamente delineata e ridotta a motivi essenziali, è sorprendente per il vigore plastico. Questa semplificazione delle forme e della composizione comparve nell’opera di Millet dagli inizi degli anni l860, grazie alla conoscenza delle stampe giapponesi riprodotte dal periodico “Magasin pittoresque”.
L’atteggiamento della pastorella, con la testa inclinata e lo sguardo fisso, esprime una profonda rassegnazione al suo modesto ceto, che ben rivela le intenzioni dell’artista che nel 1851 scriveva al suo amico Sensier: “Voglio che gli esseri che rappresento abbiano l’aria di essere radicati nel loro stato in modo che sia impossibile immaginare che pensino di essere una cosa diversa da quella che sono”. Questa condizione umana trova ugualmente la sua connotazione nella grande pianura spoglia che si estende, dietro il gregge, fino all’orizzonte. Lo stesso sfondo si ritrova in molti altri dipinti di Millet come nell’Angélus e in Hiver aux corbeaux; il suo paesaggio e “spoglio, essenziale, livellato, ridotto quasi ai cespugli e alla linea dell’orizzonte […] e ciò per mettere in primo piano […] l’uomo dei campi […] che la terra condanna a vivere in un mondo in cui tutto cambia eccetto lui (André Fermigier).

Quest’opera, commissionata da Paul Tesse nel 1863 ed esposta l’anno seguente al Salon, fu il primo successo pubblico di Millet. Il Governo avrebbe voluto acquistarla, ma ciò non fu possibile perché si trattava di una commissione privata. In una lettera del 1° giugno 1864, il suo agente Sensier così scriveva all’artista: “Questo dipinto ha realmente affascinato tutti”. La tela fu esposta insieme al suo pendant La naissance du veau, su cui Millet aveva riposto tutte le sue speranze, ma che suscitò critiche feroci: Ernest Chesneau l’accusò di aver rappresentato “il tipico sempliciotto di campagna”, Théophile Gautier (fino a quel momento strenuo difensore delle opere di Millet) sottolineò l’esagerata solennità dei contadini, simili a sacerdoti egizi intenti a trasportare il futuro Bue Api.

Millet e la critica

La critica romantica ha accusato Millet di essere un artista grossolano, non soltanto per la scelta dei soggetti legati alla terra e alla vita dei campi, ma soprattutto a causa dell’estrema semplificazione delle forme. Il pittore si difendeva da queste accuse dichiarando: “Vorrei solamente richiamare l’attenzione sull’uomo condannato a guadagnarsi da vivere col sudore della fronte. Io sono un contadino […] e per ciò che “riguarda” la mia maniera di dipingere […] essa deriva dal modo di comprendere le difficoltà della vita”.
Théophile Gautier, uno dei critici più interessanti dell’epoca, scriveva di lui: “Millet è un indipendente e non pensa di sicuro a seguire qualcuno. Tra le sue opere, solo quelle che vogliono esprimere qualcosa gli piacciono […] e tutto ciò fa sì che la sua pittura turbi il sonno delle persone fortunate […] quest’uomo non può essere influenzato da nessuno e non può camminare nel solco tracciato da un altro”.

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