LA DOLCE VITA – Federico Fellini

Mastroianni e Anita EKberg nella famosissima scena della Fontana di Trevi

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LA DOLCE VITA

Regia – Federico Fellini
Soggetto – Federico Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli
Sceneggiatura – Federico Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, Brunello Rondi, Pier Paolo Pasolini
Produttore – Angelo Rizzoli e Giuseppe Amato
Casa di produzione – Riama Film (Roma), Pathé Consortium Cinéma (Parigi)
Distribuzione (Italia) – Cineriz
Fotografia – Otello Martelli
Montaggio – Leo Catozzo
Musiche – Nino Rota
Scenografia – Piero Gherardi
Costumi – Piero Gherardi
Genere – Drammatico
Paese – Italia, Francia
Colore – Bianco/Nero
Anno – 1960
Durata – 174 minuti

 

Interpreti e personaggi

Marcello Mastroianni: Marcello Rubini
Anita Ekberg: Sylvia
Anouk Aimée: Maddalena
Yvonne Furneaux: Emma
Magali Noël: Fanny
Alain Cuny: Steiner
Annibale Ninchi: Padre di Marcello
Walter Santesso: Paparazzo
Valeria Ciangottini: Paola
Riccardo Garrone: Riccardo, proprietario della villa
Laura Betti: Laura
Lex Barker: Robert
Harriet White: Segretaria di Sylvia
Ida Galli: Debuttante dell’anno
Gianni Baghino: l’infermiere
Audrey McDonald: Jane
Polidor: Clown
Alain Dijon: Frankie Stout
Enzo Cerusico: Fotografo
Giulio Paradisi: Fotografo
Enzo Doria: Fotografo
Nadia Gray: Nadia
Mino Doro: amante di Nadia
Enrico Glori: Ammiratore di Nadia
Adriana Moneta: Ninni la prostituta
Dominot: Travestito
Adriano Celentano: Cantante rock
Christa Paffgen (Nico): se stessa
Rina Franchetti: La madre dei miracolati
Oretta Fiume
Giò Stajano
Jacques Sernas: il divo
Gianfranco Mingozzi: prete
Anna Salvatore: se stessa
Leonida Repaci: se stesso
Giuliana Lojodice: cameriera in casa Steiner
Franco Giacobini:
Giulio Questi: don Giulio Mascalchi
Lilly Granado: Lucy
Giulio Girola:
Daniela Calvino: Daniela
Umberto Orsini:
Renato Mambor:
Italo Zingarelli: don Giulio

Doppiatori italiani

Lilla Brignone: Maddalena
Gabriella Genta: Emma
Romolo Valli: Steiner
Gianni Musy: Paparazzo

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PREMESSA

“La dolce vita” fa venire a mente una di quelle vaste, apparentemente caotiche figurazioni pittoriche che i grandi maestri di ieri dedicarono al “Giudizio Universale”. Le immagini sono costruite alla maniera di un Bosch o di un Breugel, e sono succose, anche “barocche”, come nel cinema possono essere stati Stroheim o Sternberg, antiche e fiabesche come una fantasia del romanticismo tedesca: il caso personale di Marcello, rinunciatario della letteratura, giornalista mondano che preferirà il meglio remunerato mestiere di manager di attori e stelle, è soltanto un pretesto, il tenue fila conduttore che tiene uniti i differenti episodi di quest’opera, in un nuovo e più definito ritratto delle “notti romane”.
Il quadro era già stato abbozzato da Fellini in precedenti film, e particolarmente nel “Bidone” (come un suo abituale collaboratore, Leopoldo Trieste, l’aveva già tentato in “Città di notte”).
Ma la maniera scelta da Fellini di esporre i fatti e i drammi dei singoli personaggi è del tutto nuova. Si passa da un episodio all’altro, da un quadro all’altro, in maniera che potrebbe sembrare disordinata, con “stacco”, senza “dissolvere”, proprio come in una esposizione di fotografie il cui tema sia, appunto, la “dolce vita” romana: questa falsa e vera vita dolce-amara che si svolge in locali notturni dove il maquillage vuol riprodurre lo scenario, degradato, dei baccanali di Tiberio; in ‘boîtes’ dove si balla il cha cha cha; in appartamenti lussuosi dei Parioli; in castelli, spesso in rovina, del Lazio; ma anche sulla autostrada del mare, infilata con le fuori serie a velocità folle, in una incosciente corsa alla morte, e sulla spiaggia deserta di Fregene; in un “prato dei miracoli” o in una abitazione popolare ai Cessati Spiriti.

Fellini si ribella all’elicottero che porta una statua di Gesù per esibirla alla folla raccolta a San Pietro, perché non vede in avvenimento siffatto la “religiosità” vera, e gli basta di mostrarci questo volo per farci capire l’aspetto pubblicitario, che può assumere significati non riverenti, della manifestazione. È d’accordo col sacerdote, in fondo, che protesta a causa dell’agglomeramento di gente sul “prato dei miracoli” per vedere e ascoltare due bambini, forse bugiardi o visionari, che dicono di aver visto la Madonna. È pieno di sarcasmo per i cinematografari “in coppia” e per le star che arrivano dall’aeroporto e ripetono all’infinito per i fotografi la scena dell’arrivo; per le attrici e le dame che passano con mentalità animalesca da ingenuità infantili a stranezze da cortigiane; per gli intellettuali, anche forbiti parlatori, sensibili cultori del bello, inattaccabili loici, cui peraltro la intelligenza non comune vieta di capire gli aspetti veri della vita più semplice. L’episodio della “notte al castello”, cogli echi nelle stanze, la passeggiata all’alba nel parco, la “mascherata” dei partecipanti al festino (tragici come personaggi di Ensor) è di una grandezza hoffmannesca, cui contribuisce non poco l’apporto del costume.
Questa Roma che appartiene soprattutto alle “star” come Sylvia (Anita Ekberg), agli intellettuali come Steiner (Alain Cuny), alle predestinate al suicidio come Emma (Yvonne Fourneau), alle dumes “maudites” come Maddalena (Anouk Aymée), e qualche volta anche ai provinciali come il padre di Marcello (Annibale Ninchi) – ognuno d’essi nella migliore interpretazione della loro carriera cinematografica – non è tutta la Roma che conosciamo, intendiamoci. Gli aristocratici stupidi e corrotti che Fellini ci presenta, le stelle di poco cervello, gli ubriaconi importanti, non sono tutta la Roma possibile. Accanto ai debosciati la città può esibire tipi e ceti di un costume più sano e meno degradato.
Per quanto l’opera (e di opera fondamentale nella storia del cinema, si tratta) sia frutto di una delle più lucide e vivide fantasie che possiede la cinematografia mondiale, niente mi sembra presente nel film che non appartenga alla realtà. È tutto vero, artisticamente vero, negli squarci di vita che ci passano davanti: orge nere e suicidi con barbiturici, atteggiamenti insensati e tragedie impossibili per cui la logica non trova spiegazione, sacro e profano, doppie vite e piaceri proibiti, raffinatezze che arrivano a capovolgere la dignità umana e ricerca disperata di stordimento “per non sapere”. Poiché questo è il vero senso del film: la umanità esagitata che ci passa davanti, che inventa l’incredibile per vivere una propria vita e soddisfarla ad ogni costo e con ogni mezzo, in definitiva non sa quello che vuole, e questa è la sua vera dannazione.
Nelle tre ore di spettacolo, agile e ritmato, cui ci avvince il film, ricchissima è la galleria dei tipi, ognuno dei quali ci appare illuminato, nel bene o nel male, dalla “moralità” che Fellini ha voluto desumerne. Sono i medesimi volti che si incontrano, spesso fuggevolmente, nelle feste abituali di Roma notturna, essi stessi appartenenti alla “dolce vita” che contribuiscono ad esporre e far capire agli altri. E Marcello Mastroianni, perfettamente “identificato” nel personaggio che rappresenta, è il perno – sempre a fuoco – di questa sovraccarica giostra, da fiaba nera per grandi, che ci gira intorno come un turbine: lui, che nel ruolo del protagonista dovrebbe “realizzarsi”, che come pensa Steiner ‘varrebbe’ qualcosa, se sapesse indirizzarsi verso la strada giusta; se capisse che in quella “dolce vita” è fuori posto. Ma quel mondo vuoto e corrotto, che scivola verso il naufragio, a sua volta lo corrompe, mentre ancora è in bilico tra sentimento e perdizione, tra lavoro onesto e “facile”, tra cinismo e irrequietezza insoddisfatta. Alla fine, quando si è specchiato, ebbro, nel mostro viscido, anche Marcello non vede e non sente più: è perduto.


TRAMA

Il film comincia in una limpida mattina d’estate e c’è la statua di un Cristo Lavoratore che arriva in elicottero. Il giornalista Marcello Rubini (cioè Mastroianni) che ha ambizioni letterarie, e per ora è solamente a caccia di cronache scandalistiche nei nights-clubs, va a prendere una diva all’aeroporto e l’accompagna per Roma secondandola nei suoi capricci, fino a vederla bagnarsi nell’acqua della Fontana di Trevi. Ma il sopraggiunto fidanzato lo prende a botte, all’alba davanti all’albergo. I problemi di Marcello, oltre quello della carriera di scrittore, sono Emma, un’amica gelosa che minaccia di suicidarsi, l’ereditiera Maddalena, che lo invita a una festa di nobili nel suo castello, ma finisce per accompagnarsi con un altro. C’è un amico intellettuale, Steiner, in cui crede di ravvisare l’uomo ideale, e non gli nasconde la sua ammirazione. Ma presto saprà che il “superuomo” Steiner si è suicidato, dopo aver ucciso i propri figli. Gli episodi, come in un affresco fiammingo, si susseguono, spesso slegati gli uni dagli altri, ma con un fondo comune di ricerca della “vera vita”. Quale? Marcello segue dei pellegrini che credono nel “miracolo”, dei bambini che affermano di aver visto la Madonna. Sente, all’arrivo del padre dalla provincia, la nostalgia della sua vita infantile, che quasi vorrebbe recuperare. Lo vuole far divertire, portandolo proprio in un night, ma il padre ha un collasso.
A Fregene, partecipa ad una festa in una villa, in un clima di abbrutimento e di crisi. È una grigia alba autunnale. Alcuni pescatori portano a riva la carcassa putrida di un mostro marino: corpo inerte, simbolico, di un mondo disfatto, che teme la luce del giorno. Marcello lo guarda, come ipnotizzato, ma prima di tornare fra i suoi compagni ritrova la fanciulla, al di là del ruscello, che aveva già incontrato e che ora gli fa cenno di ascoltarlo. Forse è la “vera vita”, quella limpida e serena, ma lui, per il vento e il frastuono delle ondate, non riesce a intenderne le parole.

Anita Ekberg nella fontana di Trevi


COMMENTO

I criteri di lavoro di Fellini si precisano: ricostruire tutto, l’interno della cupola di San Pietro, parte di Via Veneto con i suoi alberghi, il bar, il traffico caotico, un assurdo e fantastico locale notturno nello scenario augusto delle Terme di Caracalla, oltre all’invasione della irripetibile Piazza di Fontana di Trevi.
E gli attori minori e i “tipi” reclutati tra cantanti di jazz, giovani aristocratici, mannequins, ex pugili, fotoreporters, che poi diventano tutti Paparazzi, come il fotografo che accompagna Marcello nelle sue escursioni giornalistiche, mimi, acrobati. E ci saranno anche fuoriserie, elicotteri e piscine. Una descrizione corale, un osservatorio sconfinato che può mostrare qualcosa come un evento grandioso e un disastro ferroviario.
Sono note le polemiche insorte in ambiente cattolico circa il significato della “Dolce vita” (addirittura condannata come “schifosa vita”). Il giudizio in un comunicato dell’Ufficio Stampa del Centro Cattolico Cinematografico: “Secondo Mario Verdone (vedi “Quotidiano”) il C.C.C. avrebbe classificato il film “La dolce vita”: sconsigliato, “nella certezza che la ‘moralità’, le sue conclusioni in materia così scottante, non saranno accessibili ai più”.
In verità il giudizio negativo è determinato dall’impostazione del lavoro, che è la presentazione di ambienti e di personaggi, dove la dissolutezza è norma di vita.
Ma ne “La dolce vita” non c’è speranza, non rimorso, non possibilità di redenzione.
La trascrizione minuziosa di tanto putridume, gli stridenti accostamenti tra il sacro e il libertinaggio, il frasario di alcuni personaggi, che una persona educata non solo non usa, ma evita per proprio decoro, di sentire, sono i motivi obiettivi che hanno determinato il giudizio negativo.
Mi sono informato in proposito che la Commissione di revisione del C.C.C., che aveva emesso il giudizio preventivo e provvisorio sconsigliato, ha poi definitivamente classificato il film: escluso per tutti!.
La polemica crebbe, se ne ha testimonianza nelle pagine stesse del libro Fellini di Tullio Kezich. Fu detto che il critico del ‘Quotidiano’ era stato licenziato (il che non era vero) e lo stesso Diego Fabbri, dichiaratosi favorevole al film, fu “bacchettato”. Con molta serenità il critico di cui sto parlando presentò le sue dimissioni dal giornale. Ma debbo riconoscere che il direttore Nino Badano non ne volle sapere, e le respinse. Nello stesso tempo Angelo Rizzoli, con gesto magnanimo, offrì allo stesso, di andare a far parte dello staff della Rizzoli Film.

I malumori di Fellini verso stampa, magistratura, e censure di vario genere, sono occasionati specialmente da quanto si è scritto all’epoca della “Dolce vita”. La scelta di un episodio come questo del “dottor Antonio”, che – quanto al titolo – fa venire a mente “Le tentazioni di Sant’Antonio” di Gustave Flaubert, è per rivendicare il rispetto del proprio lavoro creativo di regista, come di qualsiasi altro artista.


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