CENTO ANNI – Giuseppe Rovani

Giuseppe Rovani (Milano, 12 gennaio 1818 – Milano, 26 gennaio 1874) è stato uno scrittore e giornalista italiano.

Giuseppe Rovani fu il personaggio centrale della Scapigliatura milanese. Scrivendo di lui Luigi Russo (Delia, 29 novembre 1892 – Marina di Pietrasanta, 14 agosto 1961)  nei Narratori:
“Fa il Socrate dotto e mordace degli scapigliati milanesi; improvvisatore di vivaci e caustiche conversazioni, uomo di lampeggiante fantasia, suscitò attorno a sé gli entusiasmi della gioventù lombarda per due o tre generazioni, ed per molti anni rimase il simbolo di una genialità creatrice, che i posteri gli hanno a poco a poco contesa e infine negata”.
In questi ultimi anni, nel quadro d’un generale risveglio d’interessi per la narrativa italiana, dobbiamo dire che la fortuna del Rovani presso i posteri tende a un nuovo momento di favore, dopo la fase di depressione che il Russo denunciava nel 1922, quando era diventata opinione pressoché concorde che i valori dello storico e del moralista avessero notevolmente superato quelli dell’artista.
Nocque indubbiamente al Rovani l’essere apparso troppo grande agli amici e troppo legato a un ambiente particolare. Carlo Dossi (Zenevredo, 27 marzo 1849 – Cardina, 17 novembre 1910), che fra questi amici gli fu specialmente legato. tracciò di lui nella Rovaniana un ritratto che può sembrare addirittura un monumento, e nello stesso tempo riportò notizie e aneddoti che confermano la citata definizione del Russo, come per esempio questo “quadro”: “Rovani ad un tavolo circondato da un’eletta schiera di letterati e d’artisti. Beve e fa loro una lezione d’estetica. Questo quadro darebbe occasione di osservare le sembianze di molti egregi, onor di Milano, quali il Cremona, il Grandi, Ranzoni, il Magni e Uberti. E il quadro potrebbe intitolarsi: Una cattedra all’aria aperta”.
Proprio per queste “cattedre all’aria aperta” il Rovani è apparso a molti come una figura limitata; poi il successo mondano del Fogazzaro e dei più sciatti narratori del realismo borghese giungeva a condizionare i gusti del grosso pubblico nell’ultimo ventennio dell’Ottocento e fino alla prima guerra mondiale, cosicché non soltanto il Rovani, ma tutti gli scrittori delle due scapigliatura, milanese e piemontese, venivano più o meno dimenticati in attesa di un giudizio critico che rialzasse le loro sorti. Oggi noi sappiamo che lo schema della narrativa italiana del secondo Ottocento è in gran parte da rifare, e che dobbiamo rileggere con nuovo spirito i De Marchi, i Rovani, ì Dossi, i De Roberto, i Faldella.

Tutto ciò, per quanto si riferisce al Rovani, perché non possiamo vedere la sua vita interamente risolta nella “cattedra all’aria aperta”; il che poi avrebbe già di per sé la la sua importanza.

Tra le opere effettivamente scritte, e scritte per di più con alta coscienza di stile, figurano i Cento anni, “romanzo storico” di vasta costruzione, che, uscito dapprima e irregolarmente sulla Gazzetta di Milano a cominciare dal 31 dicembre 1856, dà evidenza d’arte a un ampio quadro di costume rappresentando in movimento la società lombarda del Sette e dell’Ottocento. “Vedremo le parrucche cadenti a riccioni tramutarsi in topè; vedremo il topè subire più svolgimenti e concentrarsi nel codino col nodo; vedremo i capelli alla Brutus e i ciuffi a campanile e la cerchia del rinascimento; vedremo il guardinfante del secolo passato che attraverso a più tramiti verrà a patti col guardinfante del secolo presente”; così scrisse lo stesso Rovani, caratterizzando un aspetto del suo romanzo, che ravvicinò quattro generazioni, svolgendosi, intorno alla vita di un uomo, che nacque verso la metà del Settecento e morì nonagenario, quasi alla metà dell’Ottocento.
Distinguendo poi fra manzoniani e manzoniani, riconosciamo che per Rovani il Manzoni, più che un modello formale, fu come uno specchio in cui egli riconobbe le sue qualità di spregiudicato e penetrante moralista.
“Il suo romanzo, ha scritto il Russo, non è più il semplice romanzo storico dei manzoniani, ma già, si trasforma in una ricca galleria di quadri, dove il consueto intreccio monotono, con inserzione posticcia di digressioni storiche, viene abbandonato per una franca e coraggiosa ambizione dei panorami storici di più largo orizzonte”.
Tale ambizione fu accompagnata, nell’esposizione, da limpidità di stile, da acutezza di indagine psicologica, da varia vivezza degli episodi; tutte doti, queste, che furono, in ogni caso, riconosciute anche da quanti si mostrarono restii a riconoscere al Rovani più larghi meriti.
Fra le sue altre opere si ricordano principalmente La Libia d’oro e La giovinezza di Giulio Cesare, nelle quali ritroviamo sempre le sue doti d’artista e insieme la sua tempra di uomo che non scese mai a patti coi comodi della vita e seppe affrontare le più crude difficoltà per mantenersi moralmente coerente alla sua vocazione di libero scrittore.

 

UNO DEGLI EPISODI PIÙ  FAMOSI

Dell’eccidio del Conte Giuseppe Prina (Novara, 19 luglio 1766 – Milano, 20 aprile 1814), ministro delle finanze, napoleonico, ritenuto come il colpevole delle numerose tasse imposte dal governo francese, linciato dalla folla di Milano il 20 aprile 1814. La descrizione dell’eccidio costituisce una delle pagine più vive dei “Cento Anni“. Stralcio dal libro XVIII: “Più nessuno ormai avrebbe potuto stornare la catastrofe della tragedia orrenda. Nell’interno del palazzo aveva già cominciato a sfogarsi l’ira( pubblica; diventata repentinamente una furiosa demenza. Cogli ombrelli, coi bastoni, coi pugni, coi piedi percuotono il ministro, lo trascinano nel cortile, lo denudano dei panni onde è coperto, lo portano in una stalla, tutto sudicio e immelmato, lo mostrano per ischerno alla folla da una lurida finestra della stalla medesima. Un urlo spaventoso di gioia diabolica alza la turba a questa vista, mentre quelli che lo tenevano, lo lasciano cadere a capo in giù tra quella turba istessa”.

 

.Giuseppe Rovani nacque a Milano il 12 gennaio 1818; fu, nel 1849, coi volontari che difesero la Repubblica Romana. Emigrò, nel tragico agosto di quell’anno, nel Canton Ticino, e per attraversare la Lombardia (che era stata rioccupata dagli Austriaci) viaggiò da Como a Chiasso sotto un carro, disteso sulla branda del vetturale. Nel Canton Ticino strinse amicizia con Carlo Cattaneo, Giuseppe Mazzini, Giuseppe Ferrari, Carlo Pisacane ed altri patrioti emigrati. Detestava gli Sciori de Milan (i signori di Milano), e cioè i moderati nei quali vedeva i complici di Carlo Alberto e, quindi, i traditori delle Cinque Giornate.
“Scapigliato” anche nella vita, si abbandonò al vizio dell’alcool, che minò, negli ultimi anni, la sua salute. Mori, carico di debiti, il 26 gennaio 1874.

L’ARGOMENTO DEI CENTO ANNI

Cento anni è un romanzo storico scritto da Giuseppe Rovani tra il 1859 e il 1865. Considerato a tutti gli effetti il capolavoro letterario dell’autore, l’opera lo consacrò alla popolarità dei suoi contemporanei, specie in Lombardia. La storia si svolge a Milano dal 1750 al 1850, incentrata sulla vicende di una famiglia della nobiltà e sulla figura del “Galantino”, Andrea Suardi, un servitore che con le sue azioni innesca l’intreccio dell’intera vicenda.

In una notte di febbraio 1750, a Milano, nella casa di un vecchio ricchissimo e avarissimo morto in quel giorno, un ex lacchè soprannominato ”il Galantino”, entrato furtivamente, sottrae il testamento. Scoperto e inseguito; riesce a dileguarsi, mentre gl’inseguitori mettono le nani addosso a un altro: il tenore Amorevoli (realmente esistito), che si trova nel giardino di un’illustre dama dell’aristocrazia milanese (forse esistita, forse una Borromeo).
“Questo duplice fatto di cronaca scandalosa milanese è il punto di partenza di una complicata rete di avventure in cui sono avvolti i primi protagonisti e poi i loro discendenti, sui quali in un modo o nell’altro i fatti di quella notte di febbraio hanno una ripercussione, per lo più triste, meno che sull’astuto e audace Galantino, che diventa un ricco e potente banchiere”

Avventure amorose del Galantino: dal balcone lascia cadere una lettera per Ada, la nobile e ricca fanciulla che rapirà dal convento.

UNA PAGINA

“Il Galantino, descritto che ebbe quella strana parabola, per la quale, dopo essere nato da un cocchiere nelle stalle del marchese ed essersi dilettato a frugare nelle saccocce del suo padrone protettore, e aver mostrato la gamba più veloce fra quelle dei lacchè di tutto il Ducato, ed aver fatto il ladro commissionario per compensi non vulgari, e avere indossato a Venezia la serica velada di lustrissimo per frodare l’altrui al gioco, e aver subìto la tortura col coraggio onde quell’antico Romano mise la mano ad ardere nel braciere, e averla subita e vinta per uscir dalle mani della legge netto e purgato come un lebbroso da un bagno di zolfo, era pervenuto ad essere uno degli addetti alla Ferma (1), a possedere tre case in Milano, due grandi magazzini di varie merci nei Corpi Santi, due filande di seta tra Palazzolo e Bergamo, una villa ridente e voluttuosa tra Gorla e Crescenzago. un’altra villetta in Brianza; a nuotare insomma nell’oro, a dormire sotto il moschetto di damasco violetto, a portare uno splendido anellone di lapislazzuli sull’indice, ed un altro di diamante della più pura e bianca goccia sul medio, e due orologi d’oro a ripetizione nel taschino, perchè come allora voleva il costume, l’uno facesse la controlleria dell’altro; a calzare gli stivaletti di sommacco filettati d’oro col fiocco d’oro e gli speroni d’argento, per caracollare su di un bellissimo puledro normanno color isabella, a lunga criniera nera e coda lunghissima che sommoveva la polvere nel corso di via Marina, lungo il quale, tra le file dei carrozzoni patrizi, faceva leggiadra mostra di sé, mentre le giovani dame gli lanciavan guardi furtivi, e i mariti bestemmie e dileggi che non trovavan eco nelle mogli (e qui ci sia permesso tirare il fiato, perchè abbiamo fatto un periodo alla Guicciardini); molte dunque erano le ragioni per cui aveva messo l’occhio sulla fanciulla Ada, educanda nel monastero di S. Filippo”.

(1) Nel 1750, il generale Pallavicini, ministro plenipotenziario nel governo austriaco a Milano, abolì i separati appalti delle regalie del sale, del tabacco, della polvere ecc. e formò la cosiddetta Ferma generale riunendo tutte le suddette regalie in un sol corpo, ed affidandole ad una società costituita da tre bergamaschi (Greppi. Pezzolio e Rotigno), a cui si aggiunsero successivamente alcuni altri. Esercitando ogni sopruso, ogni ladroneria, ogni più turpe angheria riuscirono ad apparire agli occhi di Maria Teresa quali redentori del Regio erario, mentre macinavano milioni a loro vantaggio. Più volte il popolo tentò di ribellarsi. Solo dopo un’accanita lotta condotta da Pietro Verri la famigerata Ferma venne soppressa, quando già i fermieri avevano avuto campo di accumulare sterminate e favolose ricchezze. Nei Cento anni le malefatte dei fermieri e la lotta del Verri sono descritte con colori vivissimi.

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