LA COSA BUFFA – Giuseppe Berto

LA COSA BUFFA

Giuseppe Berto

Introduzione

LA COSA BUFFA offre il pretesto per amare considerazioni sul punto d’approdo della produzione letteraria del secolo scorso. Banalizzata e svuotata, per le esigenze dell’industrializzazione dell’arte, la lezione del realismo e delle avanguardie, la letteratura è ridotta a sterile gioco. Il succo di questo romanzo di Giuseppe Berto, come il precedente che tanto successo e consenso (almeno presso un certo ma senz’altro vastissimo pubblico) ottenne, IL MALE OSCURO, lo dico presto e facilmente…

Recensione


Antonio, un giovane studente, che fa anche, per necessità, il maestro elementare, di natura assai introversa e insieme sognante, ma più per condizione provinciale che per la tendenza alla mitomania; trovandosi nella condizione abbastanza fuori del normale di avere a disposizione una minuscola eredità, si mette alla ricerca di una ragazza, aspettandone e temendone l’incontro in un caffè di Venezia.
Maria, una giovanissima, precoce studentessa, accetta subito il suo timido invito, e anzi lo sollecita, e di lui si innamora, con crescente precisione sensuale e infine volontà di rapporto sessuale. Ma due sono gli ostacoli al pieno soddisfacimento erotico e sentimentale:
l’indeterminatezza di Antonio, nutrita di vari sensi di colpa e di responsabilità e di una vaghezza di comportamento; e il classismo dei genitori di lei, ricchi affaristi veneziani fattisi dal nulla.
Allo sfumare doloroso e boccaccesco insieme di questo incontro, ad Antonio ne capita un altro: stavolta si tratta di una profuga, apolide e orfana, ungherese, cameriera in un albergo veneziano, anche essa quanto mai generosa sessualmente, ma stavolta, rovesciando le parti, per un’incapacità di giungere all’orgasmo, da cui le deriva una forma di ninfomania. Povera e sprovveduta com’è, dal punto di vista sociale, sembrerebbe che Marica (questo il nome della seconda ninfa) sia quanto mai pronta ad essere convogliata a giuste e saporose nozze. Ma si posa chi si ama, dice Marica: lei non ama Antonio, il quale deve dunque rinunciare anche ai piaceri dei sensi e tornare, se pure con qualche riflessione in più, nel regno della sua indeterminatezza spirituale e psicologica.

Come sempre avviene, anche in una così “esile” tessitura si può fare un romanzo: o meglio, si sarebbe potuto. Io non ho alcun schema fisso per il genere “romanzo”, se non quello datoci dalla storia, cioè dalla tradizione, con tutte le sue vicende e convulsioni. Ma siccome Giuseppe Berto, a mo’ di conclusione del suo scritto, parla appunto di romanzo, e per di più “all’antica”, vediamo se è legittimo l’uso che ne fa.

Dal punto di vista più esterno e bibliografico, cioè di una definizione di comodo: sì, è un romanzo. Come dire? E’ un modesto, superficiale, corrivo, facile facile romanzo, con qualche pimento erotico e una molto esibita ma non poi del tutto sgradevole ironia di consumo. Niente di grave.
Non è grave che il suo carattere “all’antica” sia da manuale: ogni capitolo ha il sottotitolo alla maniera (ricerca certamente ardua) di Fielding, diciamo. Se il carattere “all’antica” sta tutto qui, o quasi, riconosciamo che non è difficile e che ci arrivano tutti. Ma è anche un po’ “alla moderna”, in modo che le signore bisognose di analisi in pillole, le quali finalmente si erano sentite inserire nella “cultura” con IL MALE OSCURO, trovino anche qui qualche bocconcino
da rodere.
La prova più sicura che le forme (o linguaggi o tecniche) espressive, non sono trasmissibili, la si trova proprio nei romanzi che tentano una volgarizzazione. O anche solo una ripetizione. Prendiamo il caso di uno scrittore colto e avvertito come Pratolini; e di quello che secondo me è il suo libro migliore, LO SCIALO. Che rapporto ha con i personaggi e la sua visione della vita l’uso del monologo interiore? E’ ormai più definibile monologo interiore quel fiume di pensieri appiccicati nella mente di quella gente? Non è meglio definirli discorsi indiretti? E allora che bisogno c’è di togliere punti e virgole o che so io? Tutto si riduce ad un’operazione di banalizzazione. La tecnica non è davvero trasmissibile. Perché, tanto per avanzare qualche delucidazione, ad esempio il flusso di coscienza è del tutto arbitrario e infantile se è staccato dalla concezione atemporale o istantanea di Joyce e del Joyce dell’ULISSE, e dalla simbologia e dalla filosofia implicite nell’elezione d’una giornata qualsiasi a campo di battaglia e sintesi della vita
Il tempo cronologico si dilata e moltiplica all’infinito nel tempo interiore: dalla quale semplice proposizione si deduce che il flusso della coscienza non è più solo una soluzione tecnica, ma un contenuto. Credendo che la tecnica sia utilizzabile in altri contesti, si crede che “i pensieri che capitano per la mente”, siano appunto la stessa cosa che “monologo interiore”.
Se anche Pratolini è caduto pressappoco in tale equivoco, anche forse per concedere alla moda, ma soprattutto, io credo, per sincero bisogno di liberarsi, immaginarsi Berto, quando già nel MALE OSCURO con bella semplicità crede di creare l’equivalente letterario dell’analisi psicoanalitica, ove il discorso proceda non solo senza segni di interpunzione, ma per associazioni. Con lui l’hanno creduto naturalmente tutte le signore di cui sopra; e, ahimé, anche qualche critico (o lettore molto approssimativo e poco addentro alle indiscutibili fatiche, se si vuole ai clamorosi fallimenti, dell’arte contemporanea).
Dato il successo del primo esperimento, sarebbe stata pura follia rinunciare in seguito alla formuletta. Ecco la ragione dell’andatura “un po’ moderna” che, insieme a quella “un po’ all’antica”, costituisce tutto il mistero letterario di questa COSA BUFFA.
Il discorso non è più in prima persona, ma in terza: di Antonio, soprattutto, il protagonista. Il quale è presentato, o concepito, così… Antonio è uno studente di lettere un po’ scioperato, ma non per scellerataggine, bensì per vaghezza interiore, per indeterminatezza, d’altro canto assai diffusa in chi ha 25 anni, età come si sa splendida e tutta intenta ai sogni e all’amore. Studente, significa che ha studiato, insomma che sa chi siano Giorgine e Tetrarca, chi siano Goethe e Abelardo. Non cose proprio profonde, ma insomma neanche solo i nomi. Ha perfino qualche
nozione platonica, e infatti anche nell’amore pensa ai sogni di unificazione cosmica (niente di strambo, però, non temete), più all’armonia universale o che so io, che all’atto sessuale vero e proprio. Inoltre Antonio ha qualche complessino; nulla di particolarmente amaro. E’ vero che Berto usa spesso la parola “amaro”, ma se non lo dicesse, l’amarezza non la coglieremmo, perché in conclusione Antonio è proprio il tipo di studente quale si rappresenta non uno che gli studenti li conosca (o che conosca l’omo), ma un commerciante o una signora bisognosa magari di psicanalista però non del tutto disattenta ai libri. Una genericità, avrebbe detto Francesco De Sanctis. Un tipo qualunque, allora? No, neanche questo. Antonio non è everyman. Il suo anonimato sta nel modo in cui è concepito concretamente, più che nelle probabili intenzioni. Non è il Bloom di Ca’ Foscari. E’ uno studente fuoricorso qualsiasi, ma senza nessuna particolare caratteristica se non quella di essere concepito con le caratteristiche più generiche e fumettistiche. E poi, i pensieri di Antonio (stesi e presentati all’antica, cioè con un po’ di ironia, pochissime virgole e tantissimi polisindeti) sono invece, secondo l’autore una cosa tremendamente seria….



ECCO UNA PAGINA

Così il nostro eroe facendosi sedurre più che altro dal profumo di sé che Marica aveva lasciato nel letto arrivò ad una conclusione diciamo non molto consolante e neppure leale decidendo che non era giusto rimanere legato da eterno rimpianto ad una ragazza che in fin dei conti non aveva fatto abbastanza per rimanere legata a lui perciò ora poteva pensare di procedere nella vita mettendo un po’ di voglia di vivere nella molta voglia di morire concetto che in parole povere significava sentirsi pronto a lanciarsi in una nuova avventura con quel minimo di partecipazione sentimentale che sembrava indispensabile per poter fare l’amore con qualche soddisfazione, però le due storie, quella appena finita e quella non ancora cominciata avrebbero avuto in ogni caso un differente ordine poiché certo egli non partiva ora da illusioni d’anime che da sempre si cercassero nell’infinito dei mondi per saldarsi una buona volta in una lusinga d’eternità bensì nel riconoscimento dell’umana temporaneità e decadenza, e forse non era bello cominciare una storia in tal modo ma evidentemente non v’era modo migliore di incominciare una storia su questa terra ossia il male vi era così grande e diffuso che non era concesso d’amarsi per speranza ma solo per difesa, perciò lui e Maria nient’altro erano che due persone le quali decidevano di percorrere insieme un tratto sicuramente non interminabile dell’esistenza unendosi più nella miseria che nella felicità e tuttavia accordandosi il conforto reciproco che nella miseria è lecito ai mortali accordarsi vale a dire far l’amore con la più grande frequenza e col più grande gusto possibile“.

Ho scelto un esempio a caso, non dei migliori ma neanche dei peggiori, e comunque tipico. Tipico perché vi sono ben evidenti i due piani del gioco: tanto evidenti che tutto il mio discorso forse è inutile. Quando l’autore vuole ironizzare il personaggio, usa qualche leggera iperbole (“infinito dei mondi”…, “lusinga d’eternità”…ecc.), ma quando fa sul serio (lui e il protagonista), grandi concetti vengono fuori senza ironia, come alla fine del periodo, dove troviamo il veramente peregrino concetto che l’amore è difesa in un tragitto non interminabile dell’esistenza.


Giuseppe Berto

Niente di male, s’intende. Chiunque ha diritto di essere superficiale. Né varrebbe la pena di rilevarlo, e quindi di far cosa sgradevole, in fondo, a questo scrittore (morto nel 1978), che non ha fatto del male a nessuno, se non avessimo presente un problema che supera l’autore medesimo, e altri come lui (e peggiori di lui, almeno sul piano della moralità letteraria). E poco male, sarebbe anche se, silenziose o sfinite o esaurite le voci prestigiose, o più prestigiose, il tutto si riducesse all’affiorare, per legge si direbbe meccanica, del modesto o del mediocre, o del brutto.
Neppure è gran male che la maggioranza del pubblico abbia gradito in fondo (almeno un certo pubblico) la letteratura più corriva che con poco sforzo dia il brivido della modernità. Il vero problema sta altrove, perché è un problema di politica culturale: l’industrializzazione dell’arte, che arriva, naturalmente, a industrializzare non solo i “prodotti”, quanto le forme.
Ovviamente, a queste punto le forme non sono più tali, ma espedienti, ideine, trovatine, con qualche pimento, non proprio così arduo da trovare, dato che si tratta quasi sempre di sesso (o sessino, e insomma descrizione, un po’ tecnicamente audace, dell’atto sessuale: e di quello non dirò proprio casalingo ma giovanile, igienico e naturale, dio bono!).
E così, gusto del pubblico, anche popolare, spesso, e dignità dell’arte e serietà della ricerca, vanno a farsi benedire.
Una storia che, per me, non è per nulla buffa, ma triste.


Conclusioni

La triste cosa di Giuseppe Berto…

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