IL FU MATTIA PASCAL – Luigi Pirandello

IL FU MATTIA PASCAL

Luigi Pirandello

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LA TRAMA

La signora Pascal, madre di Roberto e di Mattia, era una santa donna, di carattere fin troppo placido, di una ingenuità quasi infantile. Perfino a vederla parlare, con quella vocetta nasale, sembrava una bambina. Quando rimase vedova Roberto aveva sei anni e Mattia quattro; ella si dedicò ai due figli, per i quali aveva una tenerezza morbosa. Il marito l’aveva lasciata ricca, padrona di terre e di case. La giovane vedova, sempre malaticcia, del tutto incapace di amministrare, si affidò ciecamente a Batta Malagna, uno del paese, che aveva ricevuto tanti favori dal suo povero marito e proprio per questo avrebbe dovuto, secondo lei, amministrare onestamente, almeno per debito di riconoscenza.

Altro che riconoscenza ! Batta Malagna, sebbene largamente remunerato per i suoi servigi, rubava a man salva, senza incertezze, senza rimorsi. Così la famiglia Pascal si impoverì, mentre Batta Malagna, il ladro, diventava sempre più ricco.
Quando Roberto e Mattia furono cresciuti, qualcosa si sarebbe potuto ancora salvare dalle grinfie del Malagna, solo che i due ragazzi fossero stati meno spensierati e la loro madre meno inetta. Invece, né Roberto né Mattia si curavano dei beni, paghi di vivere agiatamente, senza pensieri.
L’amministratore ebbe l’arte di non farli mancare di nulla, almeno finché visse la madre…., quel benessere serviva a nascondere l’abisso che ben presto li avrebbe ingoiati. Roberto riuscì a sfuggire alla miseria sposandosi giovanissimo con una ragazza molto ricca…, così il povero Mattia dovette sopportare tutto il peso della sfortuna familiare.
Mattia Pascal non era un bel ragazzo, ma il carattere gioviale e spensierato e l’intelligenza brillante facevano dimenticare la sua scarsa avvenenza.
Le donne erano attratte dalla sua estrosa parlantina, dalla sua impetuosa vivacità che sembrava rendere tutto più facile. Così, quando il timido Pomino, grande amico di Mattia, si innamorò della bella Romilda, supplicò Mattia di aiutarlo, di parlare per lui alla ragazza, i cui verdi occhi intensi e cupi gli avevano tolto la pace. Romilda era bella e giovane, ma aveva una madre perfida che le rendeva la vita impossibile. Mattia consolava la povera ragazza, le parlava di Pomino, che era tanto innamorato e la voleva sposare, ed ella lo ascoltava affascinata, quasi rapita.
Finché un bel giorno Mattia, davanti a Romilda che lo scongiurava di aiutarla a liberarsi dalla tirannia della madre, mentre le lacrime rendevano ancora più splendenti i suoi occhi verdi, si dimenticò del tutto dell’amico Pomino, tanto fiducioso, e un mese dopo si trovò costretto a sposarsela lui, la bella Romilda.
La vedova Pescatore, madre della ragazza, accettò a denti stretti il matrimonio della figlia con quel …discolo buono a nulla, ricco soltanto di debiti… che era Mattia Pascal. Non perdeva occasione di parlare male a Romilda, di aizzarla contro il marito; la vita in comune diventò ben presto per i due sposi un vero inferno.
Romilda inoltre attendeva un bimbo e i disturbi inerenti al suo stato ne avevano inasprito il carattere.
Mattia intanto era riuscito a ottenere un posticino di bibliotecario comunale e guadagnava appena appena da vivere, per lui e la moglie. Marianna, la suocera, aveva una piccola pensione, di cui non mollava un soldo.Una sera, appena arrivato sulla porta di casa, Mattia si sente afferrare per le spalle dalla vedova, che gli urlò in faccia :- Un medico presto ! Romilda muore !
Mattia sentì che gli mancavano le forze per l’emozione e l’ansia, ma corse come un pazzo in cerca del dottore. Infine, Romilda mise al mondo due gemelle e non morì. Pochi giorni dopo invece morì una delle due piccine, la più gracile.
L’altra, un amore di bimbetta, rosea, bionda, affettuosissima, visse meno di un anno.
Diede a Mattia il tempo di affezionarsi a lei, con tutto l’ardore di un padre che, non avendo più altro al mondo, vedeva nella propria creaturina lo scopo della sua vita, poi morì.
Le scenate familiari continuarono anche dopo la morte della piccina… la vedova Pescatore pareva si fosse messa d’impegno per rendere sempre più intollerabile l’esistenza al povero Mattia.
Finché il disgraziato, non potendo più resistere oltre, decise di fuggire dal paese natio.
Ed ecco che un giorno se ne va senza dir nulla, col poco denaro che ha in tasca e l’abito consunto dei giorni di lavoro. Pensa di imbarcarsi per l’America, così… alla ventura. Che può capitargli di peggio di quello che ha sofferto a casa sua? Il rischio di un incerto futuro gli sembra nullo in confronto all’oppressione che da troppi mesi lo soffoca, anzi in un certo senso il rischio lo attrae.
Salta sul primo treno per la Francia e scende a Nizza, quasi spinto da una forza ignota…, Montecarlo è lì a due passi, splendida e invitante. La tentazione di sfidare la sorte al gioco è troppo forte…, Mattia scende che “deve” provare. Pallido e sudato per l’emozione, entra nel grande palazzo, che sembra un tempio eretto alla dea Fortuna. Nella prima sala, così a casaccio, punta sul venticinque. Con gli occhi fissi sulla pallina della roulette, mentre uno strano senso di eccitazione lo assale, sente gridare un numero :- Venticinque ! Ha vinto ! Punta ancora, su numeri diversi, e continua a vincere.
Il giorno dopo torna a giocare…, ci torna per dodici giorni di fila…, vive come in un sogno, gioca alla disperata, vincendo e perdendo con alterna fortuna. Tornato finalmente in se dopo quella follia durata dodici giorni, Mattia Pascal si trova in tasca una bella sommetta…, è quasi ricco.
Decide allora di ritornare al paese…, sul treno fa e disfa progetti, sogna un avvenire tranquillo, una vita nuova, serena, al riparo dalla miseria. Potrebbe pagare i debiti, riscattare una parte delle terre, ritirarsi a vivere in campagna e fare io contadino. Chissà come rimarranno stupite la moglie e la suocera ! Gli pare di vederle, con gli occhi e la bocca spalancati, quando si metterà a contare tutti quei bigliettoni di banca…. – Dove li hai rubati ?… gli chiederanno. E lui lì, zitto, mentre la bile della vedova Pescatore salirà a farle scoppiare il fegato.
Così fantasticando Mattia Pascal non può fare a meno di ridacchiare tra sé, e i compagni di viaggio lo guardano stupiti, giudicandolo un po’ matto. Alla stazione italiana Mattia compra un giornale e subito gli vanno gli occhi su un titolo in grassetto :- Suicidio – . Alla prossima riga si arresta sorpreso : qualcuno si è suicidato a Mirano, il suo paese. Chi mai…. Il cuore gli balza in gola : sì, il suicida è proprio lui, Mattia Pascal!
Allibito, con gli occhi che sembrano schizzargli fuori dalle orbite, Mattia legge e rilegge il trafiletto stampato in minutissimi caratteri, poi lo ripete tra se, quasi sillabando, fermandosi ad ogni parola .
– Nella gola del mulino, a Mirano, è stato ripescato un cadavere, subito riconosciuto dalla moglie disperata e dalla suocera per quello di Mattia Pascal, scomparso da parecchi giorni dal nostro paese. Si suppone che causa del suicidio siano i dissesti finanziari.
Mattia ha dapprima un moto di sgomento, quasi di terrore…, poi una strana e ironica esultanza si impadronisce di lui. Ecco finalmente la liberazione ! E’ morto, Mattia Pascal morto ! Non ha più moglie, non ha più suocera, non ha più creditori…, nessuno ! E’ libero! Libero! Libero! Tutti i pesi e i guai della sua vita precedente se li ha portati via quel poveraccio, trovato morto nella gora del mulino e così prontamente riconosciuto da Romilda e dalla vedova Pescatore. Ogni ricordo della vita di prima deve essere cancellato…, Mattia si sente colmo di una fresca letizia infantile. Sarà per lui una nuova vita….Mattia decide che d’ora in poi si chiamerà Adriano Meis. Con qualche accorgimento anche il suo aspetto fisico muta, e ben pochi ora potrebbero riconoscere in lui il fu Mattia Pascal, compianto bibliotecario di Mirano.
Tra viaggi e letture, per qualche mese Adriano Meis gode profondamente la sua libertà senza limiti.
Infine, stanco di vagabondare, decide di prendere stabile dimora a Roma e affitta una stanza affacciata sul Tevere.
La figlia del padrone di casa è giovane, graziosa e di dolcissimo carattere…, si chiama Adriana e questo sembra ad Adriano Meis un segno del destino. La ragazza gli ispira subito simpatia…, una simpatia ricambiata, che in pochi giorni si trasforma in un sentimento più profondo, ma come può Adriano Meis godere di questo amore? Egli non è nessuno…, non ha stato civile, non può offrire nulla alla donna che ama. A che cosa si è ridotta allora la libertà felice e spensierata del fu Mattia Pascal?
Adriano Meis non esiste…, non ha nessuno dei diritti che hanno i cittadini iscritti all’anagrafe. Se lo derubano non può denunciare il furto…, se lo minacciano non può reagire nel timore di venir scoperto. Ora ama una buona e bella ragazza, ma non la può sposare.
Che vita è mai la sua? Il fu Mattia Pascal deve confessare amaramente a sé stesso che la sua condizione di fantasma, di uomo-ombra gli è divenuta intollerabile.
La sua libertà è sinonimo di solitudine, e poi di che libertà si tratta, se egli non può vivere di una vita qualsiasi uomo normale? Non gli resta che “risuscitare”, ritornare al paese e riprendersi i suoi diritti di cittadino. Ma perché Mattia Pascal possa resuscitare, deve morire Adriano Meis, l’uomo solitario e un po’ misterioso che la dolce Adriana vorrebbe sposare.
Ecco che un giorno, su un ponte del Tevere, Mattia abbandona il bastone e il cappello, col nome e l’indirizzo di Adriano Meis, e se ne va per sempre. Adriana, suo padre e tutti quelli che l’hanno conosciuto, volontariamente annegato nel fiume, e mai troveranno una soluzione al mistero di quel suicidio.
Sono passati soltanto due anni e due mesi dalla supposta morte di Mattia Pascal, ma sembrano un’eternità, per i casi straordinari che in quel tempo sono accaduti. Al paese Romilda è rimasta vedova ben poco…, sposato il suo ex spasimante Pomino, ne ha avuto una figlia. Mattia torna in quella che era la sua famiglia e che ora è una famiglia di un altro. Romilda, Marianna, Pomino lo guardano stupefatti, allucinati, come si guarda un fantasma o qualcuno che viene dall’altro mondo. E allora egli capisce…. ha voluto essere morto? Sia, ma la vita è andata avanti senza di lui…., e i morti non hanno più diritti, ma soltanto il dovere di non risuscitare, per non creare fastidio ai vivi.
A Mattia Pascal non resta che lasciare la moglie a Pomino e tornare a fare il bibliotecario nell’umida chiesa sconsacrata e adibita a biblioteca comunale. Ogni anno fa una passeggiatina al cimitero…, dalla tomba del povero suicida del mulino nessuno ha ancora provveduto a togliere la lapide che vi era stata posta due anni prima a spese del comune….

COLPITO DA AVVERSI FATTI
MATTIA PASCAL
BIBLIOTECARIO
CUOR GENEROSO
ANIMA APERTA
QUI VOLONTARIO RIPOSA
LA PIETÀ DEI CONCITTADINI
QUESTA LAPIDE POSE

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Mattia legge compunto, con gli occhi socchiusi, a testa bassa…, depone i suoi fiori e rilegge ancora una volta la “sua” lapide. Un giorno, un curioso che lo osservava da qualche tempo, gli pone infine una domanda precisa :- Ma voi, insomma, chi siete?….. – Stringendosi nelle spalle egli risponde con rassegnazione :- Io sono il fu Mattia Pascal…!

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COMMENTO

Ciò che colpisce nella prosa di Pirandello è il tono discorsivo, quel raccontare vivacemente, naturalmente, come si fa in una naturale conversazione.
La naturalezza è accentuata dalla narrazione in prima persona…, qui il protagonista del romanzo che racconta le sue esperienze , in un lungo monologo, ora doloroso ora ironico. Pirandello non cerca preziosità e raffinatezze letterarie, che riuscirebbero di rallentare il ritmo incalzante della narrazione.
Egli bada a rendere vivi i personaggi e l’ambiente in cui si muovono, con uno stile secco, scarno, sarcastico.
Il suo metodo di lavoro era singolare…, valendosi di una memoria portentosa, dapprima immaginava tutto il racconto, poi si metteva al tavolino e scriveva di getto, senza interrompersi.
Proprio da questa spontaneità deriva l’efficacia del suo stile, così colorito, anche se qualche volta un po’ trasandato.
Lo stile vuol dire individualità, modo proprio di pensare, di sentire, di esprimersi…., ha stile chi ha proprie cose da dire e sa dirle in modo proprio, con un atteggiamento, con una maniera affatto personale, che può anche essere bella.

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Il romanzo “Il fu Mattia Pascal” uscì nel 1904 e rappresentò il primo successo europeo di Pirandello.
Inesauribile nell’inventare trame ora comiche, ora pietose, ora grottesche e insieme drammatiche, talvolta narra storie così assurde da sembrare inconcepibili. Ne “Il fu Mattia Pascal” la trovata, cioè la situazione chiave, sta nella falsa morte di Mattia.
Fino a quel momento sembra una storia come tante altre…, quella di un uomo le cui vicende sono avvenute per caso, non per sua scelta o sua volontà (per caso, si è innamorato di Romilda, è sceso a Montecarlo, ha vinto al gioco).
Ma ad un tratto, ecco la trovata che cambia il corso della vicenda semplice e lineare…, Mattia Pascal, creduto morto, si trova improvvisamente tagliato fuori dal mondo che aveva tentato di abbandonare.
E’ una libertà nuova, tutta da gustare, quella che si presenta ad Adriano Meis, ma in realtà essa si rivela ben preso un’illusione. Ancora una volta caso interviene e si fa beffe di lui…, lo ha reso libero per fargli desiderare subito di riacquistare la no-libertà che gli dà modo di vivere almeno come un vero uomo. Sembra un’avventura inverosimile, ma è proprio nella vita, dice Pirandello, che si verificano le avventure più straordinarie, quali nessuna fantasia riuscirebbe a concepire. Conclusa la sua avventura, Mattia Pascal dovrà accettare con rassegnazione ciò che un saggio dice :- Fuori della legge e fuori delle particolarità, liete o tristi che siano, per cui noi siamo noi… non è possibile vivere….
Attraverso Mattia Pascal e tanti altri suoi personaggi, Pirandello esprime la sofferenza dell’uomo, angosciato dall’impossibilità di sfuggire alle convenzioni e ai vincoli della società, che sono insieme una catena ed un modo di esistere, e oppresso, nello stesso tempo, dall’impossibilità di farsi capire dagli altri, che come lui appartengono a questa società. Inutile illudersi di poter evadere, come Mattia Pascal ha tentato di fare, rompendo ogni legame. E’ meglio restare nel posto in cui ci troviamo…, anche se continueremo a chiederci perché siamo lì piuttosto che altrove, perché siamo nati, perché amiamo, perché moriamo….. Il volto dei personaggi pirandelliani non può essere lieto…, è un volto senza maschera, quello che gli uomini non mostrano mai nella società cui vivono.
Pirandello non era ottimista…, egli aveva una visione triste della vita e nessuna fiducia nelle illusorie felicità che gli uomini inseguono in mille modi, peccando continuamente di ipocrisia.
Però lo scrittore non si mette mai nei panni del giudicante severo…., anzi, si china con profonda pietà a considerare le dolenti figure e i drammatici casi che animano le molte pagine della sua opera.
I primi romanzi di Pirandello furono di chiara ispirazione verista, ma di verismo assai diverso da quello di Verga e di Capuana. Nelle sue opere, infatti, non è tanto la condizione umana di una classe di diseredati, all’interno di una società dura e ingiusta, a sollecitare la sensibilità e la riflessione dell’artista, quanto uomo, il singolo e il contrasto che in lui si manifesta tra realtà e illusione.
Una realtà ora meschina ora tragica che si scontra drammaticamente con l’illusione che qualcosa di diverso sia possibile…, illusione che inevitabilmente si rivela come una sorte di penoso autoinganno.
Anche quando l’arte di Pirandello si distaccherà più nettamente dalle origini veriste, questo tema permarrà a caratterizzare la sua più importante e famosa produzione teatrale. Accanto al conflitto tra realtà e illusione si pongono, da un lato, quello che Pirandello definisce il “sentimento del contrario” (ovvero la capacità critica di ogni uomo di capire, di cogliere la vanità dell’illusione) e, dall’altro, il sentimento che le vicende di un individuo, degli uomini, non sono altro che eventi casuali e imprevedibili, capaci di sorprendere ogni volta, anche perché parziale ed effimera ogni volta, anche perché parziale ed effimera è la conoscenza che ogni essere ha di se stesso. Tanto che al limite, possiamo illuderci di essere un’altra persona, una sola anima mentre la realtà può disconoscerci, ad ogni momento, il contrario.
Il contrario, dunque, tra reale e illusorio, tra ciò che può apparire e ciò che invece è, sta, per Pirandello, alla base dell’arte umoristica, la quale trova nella delusione, …cioè nel risultato ultimo di tale contrasto, la sconfitta…, la chiave per giungere alla deformazione delle cose e dei personaggi.
In questa concezione è veramente segnata la separazione tra Ottocento e Novecento e si delinea la condizione dell’uomo nella società del XX secolo.
Si spiega in tal modo il peso che Pirandello ha avuto e continua ad avere nella narrativa europea e americana dei nostri tempi…, egli ha affrontato, infatti, il grande, doloroso problema dell’alienazione, della solitudine e delle sconfitte dell’uomo, in una società che non è fatta a sua misura.

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LA VITA DI PIRANDELLO in breve

Luigi Pirandello nacque ad Agrigento nel 1867. Dopo aver studiato a Palermo e Roma, si trasferì in Germania, a Bonn. Qui si laureò, discutendo una tesi sui problemi linguistici dei dialetti greco-siculi, ai quali aveva rivolto sin dagli inizi il suo interesse di studioso. Rientrato in Italia, si stabilì a Roma, cominciando un’intensa collaborazione con giornali e riviste.In questo periodo, tuttavia, dovette affrontare dolorose vicende familiari, a causa del tracollo delle attività finanziarie paterne…, che lo privò d’ogni risorsa materiale, e della grave malattia mentale che aveva colpito sua moglie. Si avviò, così, alla carriera dell’insegnamento, ottenendo nel 1897 la cattedra di stilistica presso l’Istituto superiore di magistero di Roma.
Col successo, si acuì in lui in maniera determinante il conflitto fra le soddisfazioni e la responsabilità che gli venivano dall’essere un personaggio pubblico di rilievo, e le tensioni e i drammi della sua vita privata.
I temi, ricorrenti nelle sue opere, della pazzia, dell’essere e dell’apparire, nascevano sia dalla vita quotidiana (sua moglie Antonietta, donna inquieta e legata ai modi di comportamento più tradizionalmente isolani, sposata in gioventù per un accordo tra famiglie, non si abituò mai alla dimensione pubblica di suo marito) che dall’evoluzione di quel ribollente periodo storico, pieno di aspirazioni, velleità e mascalzonate, risoltosi con l’affermazione del fascismo. Pirandello aderì in un primo momento alle tensioni innovative della politica mussoliniana, ma poi se ne distaccò quando si scoprì il fondo retorico. Morì a Roma nel 1936, ormai autore di fama mondiale, dopo che nel 1934 aveva vinto il Nobel per la letteratura.

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