I GIGANTI DELLA MONTAGNA – Luigi Pirandello

I GIGANTI DELLA MONTAGNA 

“Mito” in prosa in quattro parti, rimasto incompiuto della quarta, di Luigi Pirandello. La prima parte, composta fra l’aprile 1930 e il marzo 1931, venne pubblicata su “Nuova Antologia” nel novembre-dicembre 1931, col titolo I fantasmi; la seconda, composta nell’estate del 1933, fu pubblicata su “Quadrante” nel novembre 1934, col titolo I giganti dalla montagna. Alla terza e ultima parte Pirandello stava lavorando nei giorni che precedettero la sua morte. La prima rappresentazione, col finale mancante, si ebbe al Giardino di Boboli di Firenze il 5 giugno 1937.

Il sottotitolo dell’opera, “mito”, indica la caratteristica del testo, che aspira a una riflessione sul tema dei rapporti fra cultura, arte, da un lato, e società moderna dall’altro. La vicenda si svolge infatti in tempo e luoghi indeterminati.

PARTI  I – II

In una villa misteriosa, detta “La Scalogna”, abita una sorta di sciamano, Cotrone, insieme a sei compagni, detti Scalognati. Vivono come in un ghetto, lontano dal mondo, capace pero di potenziare 1a vita dello spirito e della fantasia. In tale villa arriva una compagnia di attori, guidati dalla prima attrice, Ilse, che ha inutilmente tentato di portare in scena il testo a lei dedicato da un poeta che per lei si è ucciso, La favola del figlio cambiato. Gli Scalognati propongono agli attori di restate con loro, accettando di poter recitare l’opera solo per se stessi, rinunciando all’impossibile missione di portare il teatro a una società che rifiuta l’arte (e il teatro in particolare). Ma Ilse ribadisce il suo irrinunciabile impegno pedagogico.

PARTE III

Cotrone annuncia il giorno seguente che gli attori potranno recitare in occasione di un banchetto di nozze dei Giganti della montagna, tutti dediti alla vita della materia, e dunque difficilmente sensibili ai valori dell’arte.

L’ultima parte avrebbe dovuto mostrare lo scontro tragico fra i due universi, sanzionato dalla morte di Ilse, uccisa dal pubblico bestiale dei Giganti.

COMMENTO

Il testo più significativo, a cui Pirandello affida in certo qual modo il suo testamento spirituale, è I giganti della montagna. In forme simboliche e allusive, talvolta oscure e difficilmente decifrabili, l’opera affronta un problema che assilla lo scrittore, quello della posizione dell’arte, in particolare quella teatrale, nella realtà moderna, capitalistica e industriale, in rapporto con il mercato e il pubblico.
L’attrice Ilse vuole portare tra gli uomini il messaggio estetico, ostinandosi eroicamente a recitare La favola del figlio cambiato, il testo di un poeta che l’aveva amata ed è ormai morto (nella realtà l’opera è di Pirandello stesso), ad un pubblico volgare che rifiuta l’arte e la poesia. Di contro il mago Cotrone, chiuso con un gruppo di stravaganti creature nella Villa della Scalogna, appartata dal mondo, afferma che l’arte pub vivere solo nella sfera della fantasia, dei sogni, dell’inconscio, quindi è perfettamente autosufficiente e non deve cercare il contatto con la società e il pubblico.
Il mago non riesce a convincere Ilse e questa, su suo consiglio, cerca l’aiuto dei Giganti, potenti creature che vivono sulla montagna, e che rappresentano il Potere, legato strettamente alla realtà industriale moderna, efficiente e produttiva (e forse alludono anche al regime fascista): il simbolismo sembra voler dire che l’arte nella società industriale, dominata dal mercato, non può sopravvivere con le sole sue forze, ma deve cercare l’appoggio del potere economico e politico (attraverso sovvenzioni, finanziamenti, appoggi).
La conclusione del dramma non fu scritta da Pirandello, ma il figlio Stefano ne ha conservata la traccia, confidatagli dal padre: Ilse recita la Favola dinanzi ai servi dei Giganti, durante un banchetto nuziale, ma quegli esseri barbari e rozzi sbranano lei e i suoi attori. In questa pessimistica conclusione sulle sorti dell’arte e del teatro si può forse cogliere l’eco di un episodio reale vissuto da Pirandello: egli aveva rappresentato a Roma la sua Favola del figlio cambiato, musicata da Malipiero, e aveva incontrato scarsa approvazione da parte del regime. Nei servi dei Giganti quindi Pirandello adombrerebbe i gerarchi fascisti, e nella sorte della recita di Ilse la sorte dei propri tentativi di cercare appoggio per il suo teatro presso lo State.

Nelle figure dell’attrice Ilse e del mago Cotrone si proietta quindi un dilemma che doveva essere lacerante per lo scrittore negli ultimi suoi anni: continuare l’attività teatrale, facendo i conti con la sordità del pubblico alla poesia e lottando per ottenere un sostegno dello Stato che finanziasse il teatro in crisi, quindi cercando un compromesso tra le ragioni dell’arte e quelle del potere e dell’economia, o rinunciare al rapporto con il pubblico, chiudersi nella sfera autosufficiente della pura creazione poetica, che sprezza i condizionamenti materiali. La sorte finale di Ilse sembra far capire che Pirandello, stanco e disilluso, propendesse per la seconda soluzione.

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