L’UOMO-MASSA DI PIRANDELLO

L’UOMO-MASSA DI PIRANDELLO

L’Ottocento è ormai superato sia nei contenuti che nelle forme. Nelle forme perchè l’arte umoristica, fondata sul sentimento del contrario, tende alla deformazione delle cose e dei personaggi, a quella deformazione dell’apparire naturale degli oggetti che si trova alla base di tutta l’arte del Novecento. Nei contenuti perchè il contrasto fra l’ideale e il reale, fra l’illusione e la vita, fra la maschera e il volto non è più ancorato a nessuna certezza sia pure totalmente negativa – come avveniva nell’Ottocento – ma dà luogo al sentimento dello scacco e dell’impotenza, alimenta una sensazione di casualità, imprevedibilità, relatività delle vicende umane, si nutre d’inquietudini nascoste nei recessi più remoti dell’anima umana nei quali l’arte ottocentesca non sapeva e non voleva affondare il suo scandaglio. Per questo il Novecento non ha segreti per il nostro scrittore, nonostante che egli ne ignori spesso le scoperte fondamentali della scienza, della filosofia, della psicologia: si pensi che tutte le conoscenze di Luigi Pirandello nel campo della psicologia si limitavano probabilmente – almeno fino alla prima guerra mondiale – al libro di un onesto, ma mediocre psicologo italiano, Le finzioni dell’anima del Marchesini, pubblicato nel 1905 dall’editore Laterza. Egli comprende d’intuito, fin dal loro primo manifestarsi, alcuni dei fenomeni più caratteristici e sconcertanti del secolo scorso. In un romanzo quasi sconosciuto e del tutto sottovalutato dalla critica, Giustino Roncella nato Boggiolo, egli sa cogliere, già nel 1911, il fondo di alienazione che si trova alla base della pubblicità, quando questa capovolge il rapporto con l’oggetto al cui servizio dovrebbe porsi e del quale dovrebbe mettere in luce le qualità che possono soddisfare alcuni bisogni dell’uomo, e diviene invece autonoma ponendo l’oggetto al suo servizio e creando bisogni fittizi e innaturali. Nel romanzo di Pirandello è il marito di una grande scrittrice che si trasforma in suo agente pubblicitario e si persuade che i successi delle opere della moglie non sono dovuti alle loro qualità artistiche ma all’efficacia della sua propaganda. Qualunque cosa scriva la moglie, non ha molta importanza perchè c’è lui che sa fare innalzare quell’opera come un pallone di carta portato in una festa e che egli “abbia” a lungo e con cura trepidante sorretto sulle fiamme da lui stesso suscitate perchè si gonfiasse; a cui ora egli abbia “acceso lo stoppaccio” e che segue nell’ascesa con ansia temendo “che da un istante all’altro un buffo d’aria, una scossa di vento, non lo abbatta da un lato, ed esso non s’incendi, non sia divorato lì nell’alto dallo stesso fuoco ch’egli vi ha acceso” (16). E in un altro romanzo, anch’esso non molto noto, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Pirandello coglie il carattere stesso della produzione industriale e il rapporto che si stabilisce nel mondo moderno fra la macchina e l’uomo, quando non è più l’uomo che si serve della macchina e condiziona il lavoro, ma è la macchina che si serve dell’uomo e lo condiziona alle sue esigenze. Che cosa è diventato Serafino Gubbio operatore? Una mano che gira una manovella: che gira senza che le vicende degli uomini, le loro gioie, i loro dolori, le loro miserie i loro drammi abbiano peso su di lui, o meglio, su quella macchina di cui egli è divenuto servo. Così la mano continua a girare anche quando a pochi passi una tigre sbrana un uomo. È un servizio che frutterà tesori alla sua Casa cinematografica e renderà ricco anche lui: ma la natura umana ha pure operato la sua vendetta ed egli è divenuto muto, agghiacciato dall’orrore e dallo spavento. Insomma “l’uomo che, prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricare di ferro, d’acciaio le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse” (17). Così scriveva Pirandello quando l’industrialismo soprattutto in Italia, non aveva rivelato per intero il suo volto, anticipando di parecchi anni l’indimenticabile Tempi moderni di Charlot. Ma forse l’intuizione più profonda del nostro scrittore si riferisce al fenomeno più importante della civiltà industriale, a quello che i sociologi chiamano processo di massificazione e, nello stesso tempo, di atomizzazione dell’uomo. Mi si consenta di spendere due parole in proposito.

La riduzione dell’uomo a oggetto passivo

Pirandello coglie tutti e due gli aspetti di questo fenomeno: il meccanizzarsi della vita quotidiana in azioni, gesti, pensieri ripetuti senza aver più coscienza del loro valore e della loro portata, e la solitudine reale dell’uomo in ogni momento che voglia uscire dal tessuto connettivo delle convenzioni e voglia affacciarsi a qualcosa di nuovo, che dia un sapore alla vita, che lo metta in contatto reale con gli altri uomini. “In certi momenti di silenzio interiore” – egli ci dice, ed è questa una delle sue pagine più belle e disperate, – “in certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in se stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista umana, fuori delle forme della umana ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poichè tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistar la coscienza normale delle cose, di riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci vivi come per l’innanzi, al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a queste idee riconnesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più prestar fede, perchè sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c’è qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o d’impazzire. È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l’impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrasta la stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose o misere apparenze. La vita, allora, che s’aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle importanza? come portarle rispetto?” (18).

L’impossibilità di sfuggire alle convenzioni sociali

Tutte le grandi situazioni poetiche pirandelliane sono legate a questa profonda intuizione. Mattia Pascal vive direttamente la tragica impossibilità di sfuggire alle convenzioni della società costituita e, contemporaneamente, l’impossibilità di trovare in essa il tessuto connettivo di una vita sociale, dalla comunicazione con gli altri. Molti personaggi della sua narrativa e del suo teatro sperimentano la casualità del loro destino, il fatto di essere rotelle inconsapevoli di una macchina di cui non si conosce nè il funzionamento nè gli scopi: sperimentano, insomma, la condizione anarchica dell’uomo moderno, privo di certezze, dominato dalle cose che egli stesso produce, incapace di comunicare con i suoi simili, destinato alla sconfitta e all’infelicità. Un fatto assolutamente casuale e di nessuna importanza provoca – già nel primo romanzo (e lo abbiamo già detto) – la rovina della protagonista e della sua famiglia. E nelle novelle e negli altri romanzi si afferma sempre più l’amara consapevolezza della contraddittorietà del mondo che lo circonda e della stessa persona umana, del caotico intrecciarsi di forze e volontà individuali che finiscono per determinarsi fra loro in modo del tutto casuale. Vana è la veste organica e apparentemente logica di cui si copre la società, nella quale si celano le stesse singole individualità quando vengono in contatto con altre. Il ritmo stesso della vita apre mille strappi in quella veste e ne mostra il contenuto caotico e irrazionale. “Tutto ciò che avviene doveva dunque fatalmente avvenire?”, si domanda Lao Griffi, il giovane ufficiale che voleva andare a Udine e sognava di visitare l’Austria e la Germania e, invece, il Ministero l’ha lasciato a Potenza e lì s’è sposato ed è stato tradito e ha ucciso la moglie.
“Falso! Poteva non avvenire se! Una mosca che ti molesti, un movimento che tu fai per scacciarla, possono di qui a sei, a dieci, a quindici anni divenire causa per te di chi sa quale sciagura” (19). Tale disperata concezione della vita trova la sua più alta espressione nel teatro, a cui Pirandello si dedica negli anni seguenti la prima guerra mondiale.

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2 – LUIGI PIRANDELLO – La vita

3 – LUIGI PIRANDELLO – La vita

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