2 – LUIGI PIRANDELLO – La vita

 LUIGI PIRANDELLO

Luigi Pirandello nacque il 28 luglio del 1867, secondogenito di Stefano Pirandello e di Caterina Ricci-Gramitto. Sia la madre che il padre – sia pure con diversa intensità – avevano partecipato al movimento risorgimentale e Stefano aveva conosciuto fra i garibaldini il fratello di Caterina, Rocco. Fu appunto in occasione del ritorno a casa di Rocco, dopo l’episodio di Aspromonte, che capitò a Girgenti, per affari, Stefano Pirandello. “Il popolo lo aveva portato in trionfo fino alla casa dove la mamma e le sorelle aspettavano il reduce, e così, in quel momento di esultanza, s’eran veduti la prima volta Stefano e Caterina: lui bello, e lei no, tranne gli occhi. E poi, ormai a ventott’anni si considerava già una vecchia zitella; la gioventù l’aveva data alla Patria; Quando Stefano, seduta stante, chiese la su-a mano, credeva che scherzasse. Fu un matrimonio patriottico. La mamma rideva e scoteva il capo, nel ripensarci. Bei giorni di fervore: tutte le forze sane, tutti i credenti dovevano riunirsi nell’opera sacra di fare l’Italia, e poi farla grande”.

Luigi nacque in campagna, in un podere portato in dote dalla madre e chiamato il Caos. Il primo elemento interessante della vita di Pirandello riguarda il rapporto col padre. Come giustamente osserva Gaspare Giudice (Roma,1925 – Napoli, 2009): “Nell’ombra vaga dell’infanzia di Pirandello, si profila un drammatico contrasto che non fu mai risolto. Luigi è un bambino minuto, gracile, sempre in cerca di un più di affetto. L’affetto della madre non gli basta; rappresenta appena uno dei muri della stanza in cui egli, nato senza corazza, vuole assicurarsi. Questo improrogabile bisogno di una sicurezza che corrisponda alla sua attesa fiduciosa, di una tenerezza certa che lo circondi nel giro breve delle presenze familiari, non regge all’urto quotidiano con la durezza estranea del padre. Un uomo, questi, tutto diverso, alieno dalle effusioni affettuose, rude e distratto: fisicamente enorme, pieno di violenza e lieto di stare con gli altri “omaccioni”, e fuori, più che dentro casa”.

L’incapacità di comunicazione col padre, il sentirsi spesso annichilito in sua presenza, può spiegare da una parte il senso di frustrazione e di scacco che accompagna Pirandello durante tutta la vita e dall’altra gli scatti ribelli che spesso lo caratterizzavano.
Due episodi dell’infanzia di Pirandello sono particolarmente importanti.
Il primo riguarda i suoi rapporti con la Chiesa e la religione. La famiglia di Luigi non frequentava la Chiesa (come ogni buona famiglia liberale dell’epoca), ma la cameriera Maria Stella riuscì a persuadere il ragazzo ad assistere ad una funzione. Luigi ne provò una grande impressione e fu preso da una sorta d’infatuazione, per cui, di nascosto del padre, ogni mattina prestissimo si recava in chiesa. Questo fervore mistico fu stroncato per sempre dallo stesso parroco, per eccesso di zelo. Egli, infatti, nell’intento di legare sempre più il giovane alla chiesa gli fece vincere, con un piccolo imbroglio, in una lotteria una madonnina di cui Luigi si era mostrato molto desideroso. Ma Pirandello si rese conto dell’imbroglio e non mise più piede in Chiesa.
Commenta Gaspare Giudice: “Sono episodi infantili e leggeri fino a un certo punto. Di solito a quell’età si giuoca ancora, senza cercare di capire il giuoco, o di metterlo alla prova contro un puro cielo di perfetta coerenza. In Pirandello fanciullo sembra esservi questa esigenza di coerenza e di perfezione che viene continuamente frustrata: in lui è una fiducia e un’attesa, sia pure in termini infantili, che si verifichi il sommo bene e invece avviene un continuo crollare di miti in una serie irreversibile. La scoperta dell’ipocrisia e del male in padre Sparma, che avrebbe dovuto rappresentare, perché prete, la verità e il bene, è per Pirandello uno di tali episodi catastrofici”.

Il secondo episodio è raccontato da Federico Vittore Nardelli (Avezzano, 4 aprile 1891 – Roma, 20 dicembre 1973), sulla scorta di una conversazione avuta con Pirandello. “Luigi a quel tempo non aveva ancora mai veduto un morto. Un giorno udì dalle chiacchiere altrui che nella torre adibita a morgue c’era una tale… Un irragionevole desiderio d’entrar nel mistero colse il Nostro ch’era sulla via delle Falde, tutto solo. E benché quasi bambino, ardì saltar giù dal ciglio e premere colle sue piccole braccia la gran porta grigia. Passato nell’interno e guidandosi sopra la lista azzurra della feritoia venne avanti fino a inciampare nella panca funebre. E vide all’improvviso il corpo giacente. Portava due grosse scarpacce. Dimostrava, all’aspetto, forse quarant’anni… Nel tacito della chiusa atmosfera tuttavia Luigi percepì un piccolo rumore, qua- si un frullo… Trattenne il respiro. Quel frullo tornò a farsi udire, non d’ali, non d”aria. Un frullo strambo, continuo e vivo… In quei tempi e in quelle regioni le donne portavano sotto la gonna una sottoveste abbondante, terminata da un ricciolo insaldato coll’amido… Infatti, una donna. Gli occhi del piccolo abituati al buio distinguevano i corpi a poco a poco. Una donna. E un altro. Erano allacciati insieme”.

Annota un critico assai penetrante: “Sempre in Pirandello l’amore avrà questo sentore di morte. Non l’idea della morte: ma la fisica putrescente presenza della morte. O sarà intorbidato dalla pazzia. O avvelenato dalla incomprensione e dai tradimenti. Non c’è mai nei suoi personaggi un momento di abbandono al cuore e ai sensi. E non c’è mai una donna che, per quanto bella, l’autore non investa, più o meno evidentemente, d’un’ombra di repulsione”.

Pirandello cominciò gli studi a Girgenti prima nell’istituto tecnico e poi al ginnasio. Li seguitò a Palermo. dove si trasferì la famiglia in seguito a un primo disastro finanziario, ininterrottamente dai tredici ai venti anni. A Palermo ebbe alcune altre esperienze che lasciarono il segno sulla sua personalità. Una particolarmente importante che riguarda l’amante del padre. Stefano Pirandello era stato fidanzato con una cugina. Si lasciarono per un puntiglio ed entrambi presero strade diverse. Ma la cugina – rimasta vedova – si trovò in gravi ristrettezze e si rivolse per aiuto al suo antico fidanzato. Ripresi i rapporti ben presto divennero amanti.

I traumi dell’infanzia

Ed ecco come lo stesso Luigi nella novella Ritorno racconta il drammatico episodio del suo intervento in difesa della madre: “…Sapeva che le domeniche mattina i due si davano convegno nel parlatorietto riservato alla madre badessa nel monastero di S. Vincenzo, ch’era una loro zia. Fingevano d’andarle a far visita; e la vecchia badessa, che forse scusava con la parentela tra i due la tenera intimità di quei convegni, godeva nel vederseli davanti, l’uno di fronte all’altra, ai due lati del tavolino sotto la doppia grata: lui… con l’abito turchino… lei d’una piacenza tutta carnale ma placida perché soddisfatta, vestita di raso nero e luccicante d’ori nella penombra di quel parlatorietto che aveva il rigido delle chiese. S’imbeccavano, un boccone tu, un boccone io, le innocenti confezioni della badia, e dai bicchierini il pallido rosolio con l’essenza di cannella, un sorso tu, un sorso io. E ridevano. E anche la zia badessa… dietro la vecchia grata, si buttava via dalle risa. Era andato a sorprenderli, una di quelle domeniche. Il padre aveva fatto a tempo a nascondersi dietro una tenda verde che riparava a destra un usciolo; ma la tenda era corta, e sotto i péneri ancora mossi si vedevano bene le due scarpe di coppale lisce e lustre; ella era rimasta a sedere davanti al tavolino, col bicchierino ancora tra le dita, in atto di bere. Le era andato di fronte e s’era tirato un po’ indietro col busto per scagliarle con più forza in faccia lo sputo. Il padre non s’era mosso dalla tenda. E a lui, poi, a casa, non aveva torto un capello né detto nulla”. Dopo tanto tempo, “gli appariva d’improvviso, bella, la faccia di quell’altra, col ricordo indelebile di com’ella lo aveva guardato, mentre ancora lo sputo le pendeva dalla guancia: un sorriso incerto, di quasi allegra sorpresa, che le luceva sui denti tra le labbra rosse; e tanta pena, invece, tanta pena negli occhi”.

Sono questi, forse, i tre episodi più importanti della biografia di Pirandello, almeno sotto il punto di vista dei riflessi che le vicende autobiografiche ebbero sul suo mondo poetico. Infatti in tutt’e tre gli episodi ritroviamo quel contrasto fra un modello di perfezione costruito dentro di sé, un ideale custodito gelosamente e una realtà tutta diversa a contatto con la quale quel modello e quell’ideale si rivelano falsi, si corrompono e intristiscono. Lo stesso contrasto vissuto da un’intera generazione – la generazione post-risorgimentale – fra gli ideali del risorgimento e la realtà italiana, si ripete ora, sotto altra veste, nell’esperienza privata di Pirandello adolescente.

L’esperienza con gli zolfatari

Pirandello finì gli studi liceali a Palermo e qui si fidanzò giovanissimo con la sorella di un suo amico, Lina. Naturalmente il padre non era d’accordo, ma non oppose una resistenza decisa fidando nel fattore tempo. Tanto più che, per mantenere una famiglia, Luigi doveva interrompere gli studi e mettersi a lavorare. Così, finito il liceo, nell’estate del 1886 Pirandello andò a Porto Empedocle ad aiutare il padre nella direzione della zolfara. Qui ebbe un’esperienza diretta del lavoro dei zolfatari che troverà notevole eco nelle sue opere. Ecco come descrive Porto Empedocle ne I vecchi e i giovani: “Da mane a sera – ricorda ne I vecchi e i giovani – è uno stridor continuo di carri che vengono carichi di zolfo dalla stazione ferroviaria o anche, direttamente, dalle zolfare vicine; e un rimescolio senza fine d’uomini scalzi e di bestie, ciattìo di piedi nudi sul bagnato, sbaccaneggiar di liti, bestemmie e richiami, tra lo strepito e i fischi d’un treno che attraversa la spiaggia, diretto ora all’una ora all’altra delle due scogliere sempre in riparazione… Schiacciati sotto il carico (“il giallo incarco stridulo”, sarà nella poesia) con l’acqua fino alle reni. Uomini? Bestie!…le fogne sono ancora scoperte sulla spiaggia e la gente muore appestata; con tanto mare lì davanti, manca l’acqua potabile e la gente muore assetata! Nessuno ci pensa; nessuno se ne lagna. Pajono tutti pazzi, là, imbestiati nella guerra del guadagno, bassa e feroce!”.

Ed ecco come parla dei zolfatari nella novella Il fumo: “Appena i zolfatari venivan su dal fondo della buca col fiato ai denti e le ossa rotte dalla fatica, la prima cosa che cercavano con gli occhi era quel verde della collina lontana, che chiudeva a ponente l’ampia vallata… Per tutti, era come un paese di sogno quella collina lontana. Di là veniva l’olio alle loro lucerne che a malapena rompevano il crudo tenebrare della zolfara; di là il pane, quel pane solido e nero che li teneva in piedi per tutta la giornata, alla fatica bestiale; di là il vino, l’unico loro bene, la sera, il vino che dava loro il coraggio, la forza di durare a quella vita maledetta, se pur vita si poteva chiamare: parevano, sottoterra, tanti morti affaccendati”.

Come è ovvio Pirandello non poteva resistere in questo ambiente: accettò, così, volentieri la proposta del padre di tornare a Palermo, laurearsi in legge e, appena laureato, sposarsi. Ma anche a Palermo e alla facoltà di legge resistette poco: con la scusa che la vicinanza di Lina lo distraeva decise di trasferirsi a Roma. In tal modo, a venti anni, lasciò la Sicilia. La sua tensione anarchica, che inaspettatamente, e per lo più con scarso profitto, si scarica, si può assimilare (in stretto parallelismo con una già da noi intravista componente freudiana) a un clima sociologico che gli studiosi di storia siciliana conoscono bene. (Gli avvenimenti rivoluzionari siciliani hanno avuto sempre questa fisionomia).
A Roma, dove giunse nel 1887, Pirandello frequentò la facoltà di lettere, si appassionò alla filologia romanza e divenne alunno assai apprezzato di Ernesto Monaci. E fu proprio il Monaci – quando Luigi, deferito al consiglio di disciplina per un alterco avuto con il professore di latino, fu costretto ad abbandonare l’università – a consigliargli di finire gli studi in Germania e, in particolare, a Bonn.

Il soggiorno in Germania

Giunse a Bonn nell’ottobre del 1899. Intanto aveva pubblicato in Italia la sua prima raccolta di versi, Male giocando, che venne favorevolmente recensita. A Bonn visse agiatamente, studiò con calma, s’innamorò della figlia della padrona di casa, Jenny Schultz-Lander, dalla quale fu ardentemente corrisposto, scrisse molte poesie, che poi raccolse in Elegie renane e Pasqua di Gea, infine il 21 marzo 1891 si laureò. Tornò in Italia, abbandonando Jenny, e affidò al padre – che lo assunse volentieri – l’incarico di rompere anche il fidanzamento con Lina.
Così, libero, poté intraprendere la sua carriera di letterato stabilendosi a Roma. Ma la sua posizione come scrittore rimase sempre quella di un isolato. I suoi amici li trovò più nel raggio dei letterati tradizionali, che in quello dei nuovi gruppi di intellettuali che allora si venivano formando. Furono Fleres, Ojetti, Mantica, Cesareo, Romagnoli, Martoglio. E prima Capuana e solo più tardi Bontempelli. La sua carriera letteraria lo aveva visto passare – come si è detto – dalla poesia e dalla filologia della prima giovinezza, cioè da interessi culturali tipicamente carducciani, alla novella e al romanzo. Ma dovette per anni tenere le sue opere nei cassetti. Poi gli si aprirono le porte delle riviste meno d’avanguardia, o esclusivamente letterarie o decisamente conservatrici: alludo alla Vita Nuova e al Marzocco, alla Nuova Antologia e al Corriere della Sera.
Pirandello, insomma, era uno sconosciuto, estraneo a quel fermento di idee, a quel moto di rinnovamento, a quel raggrupparsi di intellettuali intorno a tendenze e a giornali che caratterizza il primo decennio del secolo. L’arco del suo sviluppo – come narratore prima, come drammaturgo poi – non dà luogo ad equivoci: è lo sviluppo dal verismo al decadentismo, dal regionalismo al cosmopolitismo che caratterizza in quel periodo tutta la nostra letteratura, tutta la nostra cultura. Ma egli non può essere assimilato a nessuna delle correnti ideali che allora si manifestavano. Passa silenziosamente e quasi ignoto, per un trentennio, in mezzo a quel fermento: eppure Il fu Mattia Pascal non sfuggì all’attenzione dell’Europa colta.

La ragione principale – soggettiva e oggettiva – di questo isolamento ci viene spiegata dallo stesso Pirandello nel suo famoso discorso su Giovanni Verga. Parlando esplicitamente di Verga ed implicitamente (ma non tanto) di se stesso, Pirandello diceva: “La ragione è un’altra: la ragione è una grande o, piuttosto, prestigiosa avventura letteraria, che prese tutt’a un tratto e tenne per tanto gli animi in un abbaglio fascinoso: quella d’un uomo adatto e magnifico, nato per l’avventura, così nell’arte come nella vita, e in una tale confusione di arte e di vita da non potersi dire quanta della sua vita sia nell’arte, quanta della sua arte sia nella sua vita. Ho detto Gabriele D’Annunzio. Giovanni Verga è il più antiletterario degli scrittori; il D’Annunzio è tutto letteratura, anche là dove l’esperta e istruita acutissima sensibilità riesce a farlo veramente vivo: noi sentiamo sempre ch’è troppo anche là e questo troppo gli è dato dalla letteratura…
Non era possibile che in un tempo pieno (e in principio, anzi, tutto quanto grottescamente echeggiante) di questa avventura letteraria, avesse se non una mediocre risonanza nell’animo dei lettori l’opera e l’arte di Giovanni Verga, che è la più antitetica che si possa dare. Là tutto il volubile delle opportunità propizie; qua la statica monotonia d’uno scoraggiamento disperato e rassegnato; là la pomposa opulenza non solo d’una prosa tutta tumida polpa con sapienza truccata, ma anche opulenza materiale di cose rappresentate, perché è ville e ozii e smanie e superbi orgogli di signori; qua asciutta magrezza d’ossatura e povertà nuda di parole e di cose, la piazza sempre quella e le vecchie case d’un umile villaggio, il mare (ma non il poetico divino mare), il mare avaro e crudele dei pescatori, deserte campagne infestate dalla malaria, gli stenti, i bisogni, le passioni chiuse, originarie e sospettose di un’infima gente che vuol salire o ch’è già salita e n’ha l’affanno che le vieta non solo il riposo, ma ogni consolazione. Là, insomma… uno stile di parole, qua uno stile di cose. Li abbiamo fin dagli inizi della nostra letteratura questi due stili opposti: Dante e Petrarca, e possiamo seguirli a mano a mano fino a noi, Machiavelli e Guicciardini, l’Ariosto e il Tasso, il Manzoni e il Monti, il Verga e il D’Annunzio. Negli uni la parola che pone le cose e per parola non può valere se non in quanto esprima la cosa… Negli altri, la cosa che non tanto vale per sé, quanto per com’è detta”.

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