BERTRAND RUSSELL – Il rigore morale

Bertrand Russell (Trelleck 18.5.1872 – Penrhyndeudraeth 2.2.1970)

.

Il rigore morale di Bertrand Russell

.
“La conoscenza è stata usata per cattivi fini che la nostra immaginazione non si raffigura facilmente gli impieghi benefici che si rendono possibili con l’innalzamento dei livello medio della popolazione a quello attualmente consentito soltanto ai geni. Quando mi concedo la speranza che il mondo riesca a liberarsi dei suoi guai odierni e che impari un giorno ad affidare la direzione degli affari non a dei saltimbanchi crudeli ma ad uomini di saggezza e di coraggio, mi appare davanti una soluzione luminosa: un mondo dove nessuno soffra la fame, dove pochi siano malati, dove il lavoro sia piacevole e non eccessivo, dove la gentilezza sia cosa comune, e dove le menti, libere dalla paura, creino delizie per gli occhi, per le orecchie, per il cuore. Non dite che ciò è impossibile. Non é impossibile. Non dico che si possa fare domani; dico però che si potrebbe fare entro i prossimi mille anni, se gli uomini dedicassero le loro forze per la conquista di quel tipo di felicità che dovrebbe essere caratteristico dell’uomo. (Bertrand Russell)

Sarebbe assai facile presentare la opera di Russell filosofo della matematica, facile nel senso che si tratta di un’opera ormai consacrata, di valore riconosciuto e in qualche modo già appartenente al passato.
Più difficile è presentare l’opera di Russell filosofo in senso generale, moralista, saggista, politico: come sempre, in questi campi le valutazioni sono meno concordi e meno ovvia è la strada per intendere il significato di quello che ha fatto.
Ma la cosa più difficile è, in un certo senso, intendere la relazione tra i due campi nei quali egli ha esercitato la sua influenza. E questa difficoltà non è gratuita.
Intendere il legame tra le credenze filosofiche e gli atteggiamenti pratici e politici di Kant o di Hegel o di Marx non è difficile, mentre quel legame è meno diretto tra le credenze filosofiche e gli atteggiamenti pratico-politici di Locke, di Hume, di Stuart Mill; e Russell è, per un certo verso, l’erede di quella tradizione empiristica britannica, un’erede che ha avuto la singolare ventura di vivere fino all’età della civiltà industriale avanzata, della tecnologia diffusa, della società di massa.
Russel apparteneva a una nobile famiglia inglese, dalla quale aveva ereditato il diritto di sedere nella Camera dei Pari d’Inghilterra; suo nonno era stato primo ministro della regina Vittoria, e nella famiglia dei nonni, che lo avevano allevato dopo la morte precoce dei genitori, aveva respirato lo spirito vittoriano dell’Inghilterra imperiale.
Ma aveva anche conosciuto il non-conformismo che costituiva una componente importante della tradizione liberale inglese e che aveva rappresentanti non trascurabili nell’aristocrazia britannica.
La famiglia della madre amava prendere atteggiamenti non conformistici, certamente il matrimonio dei suoi genitori non era concepibile secondo i canoni della morale vittoriana, e persino il vittorianesimo della nonna paterna lasciava intravedere qua e là qualche spiraglio.
I termini della personalità di Russell sono in parte contenuti in questi semplici dati familiari: per molti versi il suo fu un continuo tentativo di liberare l’eredità liberale e riformistica da quella vittoriana, che aveva ricevuto dalla propria famiglia.
Il vittorianesimo è molte cose, e non è possibile sbrigarlo qui con due formule.
Ma certamente il vittorianesimo fu la convinzione che un certo ordine sociale interno e politico internazionale fossero le cose migliori e più razionali possibili. In questa prospettiva il dominio delle classi ricche, il lavoro degli umili, l’impero britannico, lo sfruttamento delle colonie erano cose sante e giuste, premi dati ai più capaci, occasioni preziose per diffondere la civiltà nel mondo.
Non si trattava di un patrimonio proprio della sola Inghilterra, ché la Germania guglielmina o la Francia di Napoleone III o l’Italia post-risorgimentale conoscevano mentalità assai vicine a quella vittoriana.
In Inghilterra i filoni culturali che meglio rappresentavano una forma di resistenza all’ideologia ufficiale vittoriana erano i movimenti di riforma sociale, che richiamavano l’attenzione sugli aspetti meno edificanti e rispondenti alla razionalità santificatrice del sistema sociale, aspetti come la condizione degli operai e delle donne.
A questi movimenti aveva: dato aiuto una cultura vivace e non conformista, erede della tradizione empiristica inglese, legata al positivismo e al socialismo europeo.
A questa forma di cultura non si era aperto il mondo del sapere tradizionalista e conservatore delle università inglesi più famose, Cambridge e Oxford, dominate ancora da forme tradizionali di erudizione, dalla soggezione alla chiesa ufficiale e aperte semmai all’influenza della filosofia accademica tedesca.
Solo verso la fine dell’Ottocento proprio l’eredità hegeliana doveva dare vita a una forma di filosofia accademica conosciuta come neoidealismo inglese, nella quale l’hegelismo veniva usato non come uno strumento per glorificare la razionalità della realtà esistente, ma come uno strumento per mettere in luce il carattere illusorio della realtà, disordinata e irrazionale: la via della salvezza dal disordine era una via individuale, qualche volta vagamente religiosa. qualche volta estetizzante.
In questa situazione culturale matura Russell.
Dopo aver studiato privatamente, entra nell’università di Cambridge, mostrando un vivo interesse per la matematica e per i problemi filosofici connessi con la matematica.
Dai professori dell’università Russell disse sempre di non aver imparato molto: ma all’università egli conobbe il matematico Whitehead, con il quale collaborò poi per molto tempo, e un ambiente intellettuale estremamente vivo, che gli permise di prendere contatto con la cultura internazionale.
.
.
Il problema della fondazione della matematica era un problema classico della filosofia moderna, almeno dal tempo cui la scienza aveva riconosciuto la propria strada maestra nell’applicazione sistematica della matematica, ma aveva tolto alla matematica il carattere di un discorso che descrive una porzione particolare, magari ideale, dell’universo.
E il problema era diventato più urgente e più complicato quando la matematica ottocentesca aveva riconosciuto la propria ricchezza, ma anche la propria anarchia: la matematica era diventata un insieme di teorie e di tecniche difficilmente riconducibili a principi unitari e semplici.
Era ormai difficile sapere se la matematica fosse un tutto unitario e coerente.
Nell’opera di fondazione della matematica, che conobbe il massimo sviluppo in Germania, ma ebbe rappresentanti importanti anche negli altri paesi, si incontrò ben presto il problema della logica.
La matematica lavora con operazioni mentali o con operazioni su simboli, operazioni che sono appunto regolate dalla logica. Ma quella che veniva considerata la “logica tradizionale” e che, bene o male, si faceva risalire ad Aristotele non bastava più a intendere il funzionamento della matematica.
Russell partecipò a questo intenso lavoro culturale.
I suoi primi saggi in questo campo furono di sapore kantiano: cioè i fondamenti della matematica venivano cercati in operazioni conoscitive e intellettuali, più che in operazioni di carattere logico.
Ma a vivere la crisi della logica Russell era preparato.
Proprio l’idealismo negativo inglese aveva messo in luce come la logica hegeliana (che sostanzialmente era una variazione della logica tradizionale) non si prestasse a intendere la realtà.
Per gli idealisti questa conclusione andava a tutto scapito della realtà; ma era possibile intendere la lezione anche in un altro moda.
Nell’Università di Cambridge Russell trovò un clima molto interessato all’hegelismo, ma anche percorso da fermenti anti-hegeliani: in questa atmosfera non gli fu difficile assumere un atteggiamento decisamente critico verso la logica tradizionale.
I risultati di questo lavoro, inteso a riformare la logica per comprendere la matematica e a illustrare il funzionamento della matematica furono due opere, The Principles of Mathematics (1903) e Principia Mathematica (del 1910-13 in collaborazione con Whitehead), che costituiscono due classici della cu1tura filosofica e matematica del nostro secolo.
.
Russell arrivava a spiegare il funzionamento della matematica con l’applicazione di operazioni assai semplici a simboli elementari, poi di nuovo con l’applicazione di quelle operazioni ai risultati così ottenuti, poi di nuovo con l’applicazione di quelle operazioni a quei risultati e così via.
I concetti matematici più complicati potevano essere ridotti, con operazioni lunghe e complicate, a operazioni assai semplici su concetti semplici.
Tuttavia il risultato di questa ricostruzione della matematica era assai sorprendente; perché risultava che la matematica, nel lavoro di generazione di se stessa, non andava del tutto immune dal pericolo di generare contraddizioni.
In secondo luogo la applicazione della matematica al mondo reale non era una possibilità garantita né sicura a tutti i livelli della matematica. Infine risultava che il discorso ordinario, fatto di parole e non di simboli matematici, utilizza sì le regole fondamentali della logica, ma genera concetti dubbi, spesso bastardi, che vanno analizzati, scomposti nelle funzioni logiche che li compongono, e talvolta anche espunti, perché celano errori logici.
.
.
La crisi dell’hegelismo giovanile di Russell si consumava così nello abbraccio strettissimo di logica e matematica, per cui la matematica è la più attendibile realizzazione della logica, mentre il discorso reale si serve di una logica rudimentale sulla quale sono cresciuti falsi concetti, che hanno dietro di sé pretese infondate e veri e propri errori.
La logica, che sembrava la più severa disciplina del pensiero o il filo d’Arianna per ritrovare la strada della realtà, si rivelava così uno strumento capace al massimo di disciplinare la matematica, ma buono soprattutto per rivelare le magagne della realtà.
La quale, tuttavia, per Russell, continuava a essere ben reale.
La crisi dell’hegelismo era stata in fondo la crisi dell’eredità vittoriana, la fine della fede nella coincidenza del reale e del razionale.
La conquista della logica della matematica segnava per Russell l’inizio di un lavoro di analisi delle più importanti nozioni filosofiche tradizionali (La nostra conoscenza del mondo esterno, 1914…, L’analisi dello spirito, 1921…, L’analisi della materia, 1927…, La conoscenza umana, 1948), un lavoro di analisi diretto a scoprire in che modo le operazioni logiche elementari hanno dato luogo a quelle nozioni.
.
Sul piano personale la crisi della morale vittoriana era cominciata molto presto in Russell.
In famiglia aveva trovato tracce della tradizione liberale e riformista inglese, era venuto a contatto con la socialdemocrazia tedesca prima della prima guerra mondiale, in patria era legato ai movimenti socialisti e riformatori.
La morale sessuale e quella sociale della tradizione vittoriana gli sembravano imposizioni sempre più assurde.
Ma la crisi dei valori tradizionali gli si manifestò proprio allo scoppio della prima guerra mondiale. Da un lato parteggiava sinceramente per la sconfitta degli imperi centrali, dall’altro, guardava con terrore e disgusto alla realtà della guerra, al nazionalismo che essa rinfocolava in tutti i paesi belligeranti, compresi quelli dell’intesa.
Nacque così il pacifismo di Russell come decisione di non collaborare alla guerra, come salvaguardia del libero giudizio personale di fronte alle menzogne della propaganda e all’efferatezza della guerra.
.
Ma dietro le posizioni pacifiste di Russell c’erano concezioni ben precise.
Russell rifiutava qualsiasi forma di morale e di politica fondata su norme o valori assoluti, cioè sulla considerazione di certe cose come mali e di altre come beni.
Questa morale gli sembrava l’erede della nozione religiosa di peccato, come questa illegittima.
Il peccato è un divieto assoluto, non giustificato dal carattere negativo delle sue conseguenze percepibili.
Sulla nozione di peccato era fondata la morale sessuale religiosa e vittoriana, che aveva poi come conseguenza la posizione di subordinazione sociale della donna.
Sulle nozioni assolute di bene e di male erano fondate le giustificazioni di parte della guerra e la relativa propaganda.
Il regime di guerra inoltre aveva messo in luce l’enorme estensione che il potere centrale aveva acquistato nella società contemporanea, soprattutto con la mobilitazione di tutti i mezzi di comunicazione e di pressione psicologica.
La guerra dava un volto reale al nemico contro il quale Russell sceglieva di combattere: il fanatismo politico, la menzogna consapevole e sistematica in favore del potere.
.
La società ufficiale rispose immediatamente alla presa di posizione di Russell, mettendolo in prigione e privandolo del posto all’università di Cambridge.
Ma Russell non smise di cercare le radici della minaccia che per l’umanità rappresenta la società ufficiale, e di scandalizzare i benpensanti con il suo anticonformismo.
Come dicevo, alla fonte dell’atteggiamento russelliano sta il rifiuto del concetto religioso di peccato.
Di fronte al divieto assoluto stabilito dalla morale religiosa, Russell rivendica il diritto dell’individuo di esaminare ogni divieto con la sua ragione personale e il diritto di seguire le condotte che non abbiano conseguenze negative apprezzabili per sé e per gli altri.
La morale non è una serie di divieti immotivati, ma una disciplina che ciascuno s’impone per cercare la felicità, e, poiché questo ne è il fondamento, essa può anche perdere il carattere coercitivo che la caratterizza nella mentalità tradizionale.
Il diritto del singolo di esaminare da solo il bene e il male e di stabilire da sé i criteri del proprio comportamento trova un ostacolo non solo nell’autorità religiosa tradizionale. ma anche nella concentrazione del potere, soprattutto se il potere può far appello allo stato di guerra.
Russell fu un sensibile osservatore dei primi fenomeni caratteristici della civiltà di massa.
Molto tempestivamente diede un quadro efficace della società americana rosa dalla competizione e frustrata dall’uniformità, anche se guardò con simpatia alle forze nuove che negli Stati Uniti si affacciavano alla cultura.
Con non minore simpatia guardò alla rivoluzione bolscevica, anche se si dimostrò deluso della dittatura del proletariato e lasciò un quadro piuttosto sinistro del proprio incontro con Lenin.
Anche nel leninismo egli vide una forma di concentrazione di potere, alla quale contrapponeva la spinta del popolo russo che nella rivoluzione aveva trovato una strada per abbattere le barriere dell’autocrazia.
.
.
Ma soltanto le posizioni prese da Russell dopo la seconda guerra mondiale danno il senso del carattere e della portata del suo individualismo.
Proprio perché era un acuto osservatore delle forme assunte dal potere nel mondo contemporaneo, Russell fu uno dei primi ad avvertire la gravità della minaccia atomica pendente sul mondo dopo la fine della guerra.
La minaccia della guerra era il pericolo più grave che bisognava allontanare ad ogni costo.
Il modo migliore per ottenere questo scopo sarebbe stato di creare un governo mondiale con poteri effettivi, minacciando una guerra contro l’Unione Sovietica, ancora sfornita di armamento atomico, per indurla ad accettare la sottomissione al governo mondiale.
Russell non pretese mai che una guerra di questo genere sarebbe stata giusta, e non si schierò mai con i sostenitori della guerra preventiva in nome della superiorità della tradizione occidentale e cristiana; osservò invece che una guerra di quel genere sarebbe stata vinta senza esser combattuta, e che sarebbe stata una guerra incruenta con immense conseguenze positive.
Il modo di pensare di Russell, consistente nello spregiudicato bilancio delle conseguenze positive e negative di una decisione, aveva qui una clamorosa e impopolare (come egli si espresse) conferma.
Ma lo stesso Russell abbandonò questo atteggiamento quando l’Unione Sovietica conquistò l’armamento nucleare e quando la fiducia negli Stati Uniti, come guida di un governo mondiale, gli venne meno in seguito alla caduta dell’amministrazione democratica e alle persecuzioni maccartiste.
Allora Russell, in un mondo che andava avviandosi sempre più alla situazione dell’irrigidimento bellico permanente, sempre più gravato dalla minaccia della mobilitazione psicologica permanente, seppe prendere un’altra posizione impopolare, sostenendo la necessità del disarmo unilaterale del suo paese.
Infine, quando la fine della guerra fredda lasciò uno spazio alle guerre di liberazione dei popoli coloniali, egli divenne il maggiore accusatore dei crimini di guerra consumati dalle potenze coloniali nelle guerre di repressione, da quella combattuta dai francesi in Algeria a quella americana nel Vietnam.
Un tribunale privato, volto ad accertare la realtà dei fatti, doveva emanare sentenze fornite solo del prestigio morale del libero giudizio.
E prima della recente morte Russell ebbe modo di leggere anche la sentenza contro l’Unione Sovietica per l’invasione della Cecoslovacchia.
.
.
Per chi era stato hegeliano la demitizzazione della logica, attraverso un’operazione culturale apparentemente lontana dalla realtà quotidiana, significò la scoperta della ragione come facoltà di giudizio individuale, come ispiratrice di atteggiamenti che tanto più sono corretti quanto più sono lontani dal modo di pensare comune.
L’abito critico dello scienziato alimentava questa posizione illuministica, che trovava conferma nella tradizione radicale e riformistica inglese e in un certo moralismo ancora vittoriano.
Russell vide il volto sgradevole e anonimo del potere contemporaneo, il suo carattere pervadente, ma non perdette mai la fiducia che bastasse un cervello solitario e indipendente per difendersi da un nemico tanto potente e subdolo.
Non pensò mai che proprio la capacità di agire sulle menti individuali, di porsi come termine di riferimento costante e ineludibile di qualsiasi scelta costituisce il carattere dominante della società industriale contemporanea.
.
La serena fiducia nell’esame individuale, libero e indipendente, che Russell mise in pratica con coraggio, suscita certo ammirazione e perfino nostalgia, in un mondo in cui quell’atteggiamento deve continuamente fare i conti con la “strategia storica”, cioè con le previsioni degli atteggiamenti collettivi, delle grandi forze mondiali, in un mondo in cui l’intellettuale non può accontentarsi della buona fede personale, ma deve anche sapere da che parte vuole stare.
Tutto sommato, Russell rimase per certi versi un fiero vittoriano.
Gli atteggiamenti decadenti, che rappresentano un modo di avvertire il cambiamento della società, al quale Russell rimase sordo, gli furono sempre estranei, e la sua morale sessuale, che tanto scalpore fece in Inghilterra e in America, appare oggi piena di candore e perfino d’ingenuità.
Perfino la sua ricostruzione della matematica, così lineare e ancora così fiduciosa, appare l’ultimo grande discorso unitario prima della rottura dell’unità della matematica e dell’irrompere, anche all’interno della scienza, della minaccia dell’incomunicabilità.
Ma Russell viene prima di questi problemi, un vittoriano, aristocratico e matematico, sopravvissuto con grande coraggio fino all’età dei cervelli artificiali.