FRA’ DOLCINO e MARGHERITA – Ritorno alla purezza evangelica

 

Fra Dolcino. Litografia di Michel Doyen (1809-1881)

Se la Chiesa era impegnata nella corsa alla ricchezza e la povertà degli umili era ogni giorno insultata dallo sgargiante fasto mondano e dagli sperperi della corte papale e degli alti prelati, sempre più si diffondeva nelle coscienze più cristalline la nostalgia della purezza evangelica, l’aspirazione ad un ritorno al cristianesimo primitivo.

Ancor prima che in Assisi il figlio del ricco mercante Bernardone inizi, nella primavera del 1206, la sua missione di restauratore della idealità evangelica, in Lione il mercante Piero Valdo avrà attuato, nel 1176, il dettato di Cristo nel Vangelo di Matteo (XIX, 21) spogliandosi dei suoi beni e sarà sceso, benchè laico, a predicare fra le classi umili. Francesco, chiamando intorno a sè i “poverelli” (i Minori, come li disse, riprendendo un nome che designava in Assisi le classi popolari), non prese mai posizione contro la Chiesa e la parte corrotta del clero, limitandosi a predicare la povertà e l’umiltà e l’amore per il prossimo. Ben diverso fu l’atteggiamento di Pietro Valdo, intorno a cui si strinsero i Poveri di Cristo o Poveri di Lione; deve ritenersi che la sua predicazione sonasse aspra rampogna per la corruzione ecclesiastica e proponesse riforme di struttura religiosa, se la diocesi di Lione lo espulse (1177), se gli fu inibito, perchè laico, di predicare e nel 1184 il Sinodo di Verona lo condannò esplicitamente. Ma la condanna avrà come effetto la valorizzazione del movimento, che era animato da contadini ed artigiani e costituiva quindi una potente forza classista anti-feudale che ebbe ramificazioni in molti paesi d’Europa.
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I movimenti per il ritorno alla purezza evangelica

In Italia, i Valdesi si propagavano in Lombardia e Piemonte (un gruppo arrivò sino in Calabria); un gruppo superstite si raccolse nel Piemonte, in alcune valli delle Alpi Cozie, dove furono sottoposti a dure persecuzioni dei Savoia, desiderosi di ingraziarci il papato. Ai principi del secolo XIII, Innocenzo III bandì la crociata contro gli Albigesi, guidata da Simone di Monfort, con la partecipazione di S. Domenico di Guzman.
Il 22 luglio 1209, i crociati penetrarono in Beziérs, massacrando attraverso inauditi orrori, tutta la popolazione asserragliata nelle case e rifugiatasi nelle chiese.
Nel secolo XIII il moto di riforme già due secoli prima iniziato nel seno della Chiesa da Pier Damiani e da Ildebrando è ben lontano dall’avere raggiunto il suo fine e, come già dal secolo X non era valsa a purificare la Chiesa l’esemplare rinascita del monachesimo benedettino (sede principale il monastero di Cluny), che con la purezza della vita fatta di raccoglimento, di lavoro, di carità e povertà, si era eretto contro il clero simoniaco e concubinario, così, ora, senza positivi risultati di esempio resta la fondazione di nuovi ordini religiosi – gli Ordini Mendicanti – i quali, propugnando tra povertà, la castità, la carità, l’amore per gli umili, si propongono di dimostrare che l’osservanza dei precetti evangelici può essere ottenuta nel seno e coi mezzi della Chiesa stessa.
È un esempio sterile: nello stesso ordine francescano si delineerà, poco dopo la morte di Francesco, un conflitto fra coloro – gli spirituali – che intendevano restare fedeli alle regole del fondatore e il ramo lassista, detto dei conventuali, disposti ad ogni compromesso.
La Chiesa è per questi ultimi. Perseguitati dalle autorità ecclesiastiche, gli spirituali furono disciolti per eresia nel 1257 e i Fraticelli dalla vita povera confluirono in sette ereticali. Quanto ai domenicani, essi osteggiavano vivamente i francescani e si posero a servizio dell’Inquisizione (a favore della quale le Costituzioni di Federico II, del 1220, avevano concesso il sostegno del braccio secolare); ma torture e roghi non impedirono il moltiplicarsi delle sette ereticali in cui affluivano i derelitti, i miseri, e, comunque, tutti gli esseri avidi di giustizia divina, in mancanza di quella terrena.
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I Fratelli Apostolici e il supplizio dell’eretico Segarelli

Ecco, fra questi, i Fratelli Apostolici raccolti intorno a Gherardo Segarelli di Parma 1 ) in venti anni di predicazione in vari centri d’Italia. Nel 1248 (Francesco d’Assisi era morto dal 1226) un giovane contadino incolto si presentò al monastero dei Francescani di Parma, domandando di essere ammesso all’Ordine. Secondo alcuni, la sua domanda fu respinta; secondo altri, il Segarelli, accolto, sarebbe stato, poi, presto dimesso, “per le sue stramberie”; ma, conoscendo il conflitto fra francescani spirituali e conventuali non è azzardato pensare che questi ultimi avessero la preponderanza in quel convento e, quindi, non credessero accettare l’estremismo spirituale del nuovo ammesso. Gherardo volle vestirsi, allora, come erano vestiti gli apostoli nei quadri delle chiese, con un mantello bianco e dei sandali. Lasciò crescere i suoi capelli e la sua barba e cominciò a predicare per le vie.
“Pentitevi, diceva, e convertitevi, perchè il regno di Dio è prossimo”.
Vendette tutti i suoi beni, mise il danaro in un sacco e cominciò la sua predica; quando la folla fu fitta intorno a lui gettò il danaro fra i presenti, gridando: “Lo prenda chi vuole!”.
Ben presto, radunò intorno a lui un buon numero di proseliti, i Fratelli Apostolici, a cui si aggiunse un buon numero di sorelle.
Vivevano in povertà, d’elemosina, e percorrevano i paesi, predicando al popolo che trovava in quelle rozze parole scottanti verità circa la misera condizione dei più umili; ed i proseliti attratti dalla forza di quelle verità aumentavano. Ciò nonostante, Gherardo non si proclamò mai, e non volle mai esser ritenuto, capo, poichè ciò, a suo avviso, sarebbe stato contrario all’eguaglianza fra gli uomini, e tutti eguali erano stati gli apostoli.
Egli attaccava i corrotti costumi della Chiesa e propugnava la purezza evangelica.
Il Concilio di Lione del 1274 proibì l’esistenza di Ordini Mendicanti che non fossero espressamente riconosciuti dal papa. La decisione non nocque alla setta che vide, anzi, aumentare sempre più il numero dei suoi proseliti, e quello dei Fratelli Apostolici diventò un movimento di massa.
In data 11 marzo 1285, Papa Onorio IV emanò una bolla che ordinava alla setta di sciogliersi, inviò ai vescovi istruzioni perchè gli appartenenti ad essa fossero banditi o incarcerati o condannati a pena maggiore, e particolarmente ingiunse al vescovo Obizzo di Parma (dove la setta aveva raggiunto una dimensione allarmante) di mettere le mani sul Segarelli. Questi fu incarcerato; ma il vescovo lo trovò così dolce e mite che non osò infierire contro di lui e dopo qualche tempo lo dimise dalla prigione.
Con ogni tranquillità Gherardo Segarelli riprese la sua predicazione alle folle di povera gente che accorreva intorno a lui. Il vescovo lo fece allora catturare e lo condannò al carcere perpetuo. Questa condanna che, comunque, salvava la vita dell’apostolico non soddisfece i Domenicani e l’Inquisizione. Ciò fu esplicitamente dichiarato da fra’ Manfredo da Parma, dei Domenicani predicatori, e l’Inquisitore riaprì il processo perchè Segarelli fosse condannato al rogo.
Condotto, secondo il rito, in solenne processione per la città, e torturato, poi, con tenaglie infuocate sulle carni, Gherardo Segarelli fu bruciato sulla piazza grande di Parma il 18 luglio 1300.
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Uno spettatore del supplizio

Fra gli spettatori numerosi dell’atroce delitto, stava ad osservare un giovane dalla barba incolta, ma dall’occhio vivido, un giovane che pochi conoscevano, o nessuno, ma che già aveva avuto occasione di sperimentare per ben due volte l’occhiuta sagacia dell’Inquisitore, e per due volte era riuscito a sfuggire dalle maglie della rete.
Era costui un ardente apostolico, un ammiratore di Gherardo Segarelli e della sua dottrina; era un uomo che ormai possedeva un’acuta conoscenza della folla e della sua psicologia, per aver vissuto in mezzo ad essa, peregrinando per il mondo, era il giovane Dolcino.
In che anno fosse nato non risulta: certo tra il 1260 e il 1270, se negli anni della sua lotta più dura, fra il 1304 e il 1307 egli, dopo avere per molti anni viaggiato, era nella pienezza delle sue forze.
Gli storici non sono nemmeno d’accordo sul luogo della sua nascita: Prato Sesia? Romagnano? Tragontano o Trontano nella valle dell’Ossola? O, come pare più probabile – e per escludere altre versioni meno accreditate – Novara? Sappiamo solo da Benvenuto da Imola, commentatore di Dante (l’eresiarca è citato nel XXVIII canto dell’Inferno) che il fanciullo, figlio di genitori ignoti, dopo aver trascorso i primi sette anni della sua vita in quella Valsesia che sarebbe stata, un giorno, teatro della sua lotta fu condotto a Vercelli in casa di un prete, Augusto, che lo amò e lo affidò per Il’educazione al grammatico Syon. Sappiamo solo, oltre a insignificanti particolari, che era un ragazzo sveglio d’ingegno e che, giovanetto, un giorno scomparve da casa e da scuola, dandosi alla vita randagia che, di paese in paese, lo portò fino in Dalmazia.
Non sappiamo quanti anni durò la sua peregrinazione: possiamo solo pensare che egli doveva aver manifestato idee poco conformiste se già due volte, come si è detto, gli sbirri dell’Inquisizione avevano posto le mani su di lui; e che, allorquando nel luglio del 1300 assistette, tra la folla, al supplizio del Segarelli, già da tempo fosse legato all’attività dei Fratelli Apostolici.
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Fermenti di rivolta contadina

Per qualche tempo Dolcino, ora, tace; ma egli ha contatti con i proseliti della setta in cui il supplizio del martire ha rinfocolato la fede nelle verità da lui professate: soprattutto conosce le loro condizioni, i loro bisogni, le ingiustizie sociali di cui essi soffrono; sa anche che il metodo seguito dal Segarelli, di non volersi promuovere capo era errato; sa che quella massa ha bisogno di un capo che la indirizzi e la guidi verso obiettivi concreti di lotta: soprattutto egli guarda ai contadini schiacciati dai pesi feudali, quei contadini per i quali è ancora sostanzialmente viva, per l’avallo della Chiesa, che la conserva nei suoi feudi, la servitù della gleba.
II fermento è diffuso non solo nella campagna d’Italia ma in quella di molti paesi d’Europa e il movimento dolciniano per la libertà e l’emancipazione di quelle masse costituirà il preludio di quelle rivolte contadine che, con maggiore ampiezza e violenza, scoppieranno, dal XIV al XVI secolo, nelle Fiandre, in Francia (jacquerie), in Inghilterra, in Boemia, in Germania, sotto la spinta di estrema miseria e servaggio; elementare sostegno ideologico di questi movimenti che attaccavano la proprietà fondiaria e miravano ad un ideale vagamente comunitario era l’ingenua fede religiosa nella possibilità di una palingenesi che realizzasse il Regno di Dio sulla terra per mezzo di un egalitarismo cristiano, come predicato da mistici e capi di popoli ispirati.
Al principio del secolo XIV, in Italia, la condizione dei contadini non solo era miseranda nei feudi ecclesiastici, dove, come si è detto, si conservava la servitù della gleba ma era particolarmente drammatica anche in quelle campagne in cui penetrava la borghesia arricchitasi nei commerci e fattasi acquirente di proprietà fondiaria; con essa si costituisce una classe neo-feudale che si vale degli istituti comunali solo per affermare il proprio potere, che non tarderà a tramutarsi in Signoria.
Si inizierà il regime dei fitti di breve durata e di elevato insopportabile canone; comincerà la disparità di condizioni fra contadini; e questa viene accelerata dalla possibilità di ampliare la terra arata dal singolo contadino mediante locazione o acquisto della terra dominica offerta dal Signore .
I contadini che sono costretti ad abbandonare la campagna, vengono, nelle città, proletarizzati dalle corporazioni con salari abietti. La città come costituzione di classe si allarga e fortifica a spese del clero e della nobiltà a svantaggio dei contadini.
Queste le cause generali di peggioramento delle condizioni dei contadini, come effetto dello sviluppo delle città e degli scambi mercantili-monetari, alle quali devono essere aggiunte le malattie e le miserie, conseguenze delle ultime guerre, l’acutizzarci di contrasti di classe anche se esso assume un aspetto ideologico religioso.
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Un dominatore di folle

Fra’ Dolcino, di imponente statura e sguardo vivissimo, coi capelli rossicci che gli cadevano in anelli sulle spalle e la folta barba, aveva tutte le doti per dominare le folle. D’ingegno non comune, dotato di una volontà ferrea, aveva facile e pronta parola, vibrante la voce et suavissima facundia sua ligabat auditores; cosicchè nessuno, dopo averlo ascoltato, era capace di allontanarsene .
Per qualche tempo Dolcino opera nascostamente; ma qualche mese dopo il supplizio del Segarelli scrive una lettera con cui, rivolgendosi ad Universos Christi fideles, rende noto che egli è il nuovo inviato di Dio, per volontà del quale assume la direzione del movimento apostolico; quindi abbandona Parma con un gruppo di suoi fedeli ed emigra nel Trentino, dove inizia la sua predicazione ed incontra largo favore tra la popolazione di campagna e di città.
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Dolcino nel Trentino – Margherita

È nel Trentino, e precisamente nel villaggio di Arco, che egli conosce Margherita, la creatura che gli sarà compagna nella peregrinazione, nella lotta e nel supplizio. Le cronache la descrivono bella “di carni bianchissime, di volto pallido, con nello sguardo un velo sottile di malinconia” e tale (vedi illustrazione) l’hanno raffigurata i pittori.
Dolcino era stato ospitato dalla sua famiglia, fautrice degli apostolici (e molti in Arco lo ospitavano “perchè appariva buon uomo, e diceva tante belle cose e possedeva la bibbia e spiegava il Vangelo e parlava del futuro e molti lo seguivano); e Margherita se ne innamorò e se ne andò con lui. Doveva, certo, essere donna di salda fede e di forte tempra se accettava di andare incontro a patimenti e pericoli, restando, fino alla morte, al fianco del suo uomo nella rivolta e nelle battaglie.

Un proclama di riscossa

Papa Clemente V
Nel 1303, forse per la lotta scatenatagli contro dal principe vescovo, forse perchè desideroso di portare in altre zone la parola degli Apostoli, e speranzoso di trovare ancora maggiore seguito nelle contrade della sua terra natale, si accinse a lasciare il Trentino; ma prima volle scrivere una seconda lettera ad universos Christi fideles.
In essa proclamava che:
1) – L’autorità della Chiesa data da Cristo è cessata, perchè la Chiesa ha traviato, per malizia dei suoi gerarchi.
2) – La Chiesa Cattolica Romana è quella meretrice di cui parla S. Giovanni nell’Apocalisse.
3) – Tutto il potere spirituale concesso da Cristo in un primo tempo alla Chiesa deve ora considerarsi passato agli Apostolici.
4) – Dio, prima per opera del Segarelli, poi di Dolcino, intende condurre la Chiesa allo stato di povertà in cui era al tempo degli Apostoli.
Afferma che gli Apostolici, essendo nella fede di Dio e nella perfezione degli Apostoli non devono ubbidire a nessuno, contesta al Papa il diritto di scomunicarli, perchè “tutti i persecutori della setta peccano e si dannano”, dichiara che tutti gli Ordini religiosi sono di detrimento alla fede cattolica, e dopo aver dato altre norme di vita e morale apostolica (esclude, peraltro, la castità del laico, che Segarelli proclamava), conclude “che si può adorar Cristo nei boschi come nelle Chiese e meglio” e che ” non si deve giurare a nessun costo”.
Nel settembre del 1303 le milizie francesi, inviate da Filippo il Bello, invasero la sede papale di Anagni e Bonifazio VIII (il papa a cui Dante predirà l’inferno, nel girone – canto XIX – riservato a coloro che si son fatto “Dio d’oro e d’argento”), schiaffeggiato da Sciarra Colonna, non sopravvivrà più di un mese al dolore e allo scorno.
Dolcino aveva predetto la fine del papato simoniaco nel 1303 e la mala morte di Bonifazio parve significasse il verificarsi della profezia, accrescendo il credito di Dolcino.
Fra il 1301 ed il 1306, egli aveva profeticamente aggiunto, si sarebbero verificati avvenimenti importanti, i quali avrebbero realizzato l’antico sogno millenaristico di un’era di pace, di virtù, di fratellanza.
Quando, nel 1304, fra’ Dolcino partì dal Trentino, aveva con sè un migliaio di seguaci.
Questo nerbo andò di tera in terra, ingrossandosi a mano a mano che, attraverso la Lombardia, egli si avvicinava verso il Novarese, la Valsesia ed il Biellese. Il movimento religioso aveva, ormai, uno spiccato carattere sociale e l’antico predicatore si mutò nel condottiero di contadini e di servi fuggiti dalle terre dei Vescovi di Vercelli e di Novara e dei proprietari vercellesi e novaresi. Egli dovette trovar fuoco vivo sotto le ceneri se attorno a lui poterono raccogliersi sino a 4.000 persone, tenute insieme dalla comune volontà e dalla comune passione, senza regole od ordinamenti coattivi. Anche, talvolta, uomini di elevate condizioni, affascinati dalla predicazione di Dolcino, lo seguirono.
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Nel Biellese e nel Novarese, le forze feudali contro i dolciniani

Allorquando (siamo nel 1304) la massa degli Apostolici, con fra’ Dolcino in testa, giunse fra Gattinara e Romagnano Sesia, i mille erano diventati oltre quattromila (e, secondo alcuni, oltre cinquemila). DolcinoMargherita ed un ristretto gruppo scelto presero posto in un disabitato castello in collina, gli altri si accamparono alle falde del monte: e Dolcino iniziò la sua predicazione fra il Biellese ed il Novarese. Nulla era di minaccioso in quegli uomini; ma del loro numero dovettero aver paura il vescovo ed i feudatari della zona, che mandarono parlamentari col tentativo di corrompere fra’ Dolcino, offrendogli, se lasciasse l’apostolato, un ufficio di capitano a Vercelli. Lo sprezzante rifiuto del capo degli Apostolici creò una situazione quanto mai tesa, e intanto da varie parti d’Italia, e specialmente da alcuni signori di Firenze, giungeranno agli Apostolici aiuti in danaro.
Ormai è guerra: le forze coalizzate del feudalesimo laico e di quello vescovile muovono contro gli Apostolici con forze minori – circa duemila – e tentano di chiuderli in una morsa fra Gattinara e Romagnano. Filippone dei Langoschi, conte di Lumello, ha ai suoi ordini truppe novaresi, monferrine e svizzere; Salomone Coccarella comanda le milizie di Vercelli. Si rivela, ora, il genio militare di Fra’ Dolcino e comincia quella guerra, a proposito della quale, non senza fondamento, qualche storico, fatte le debite differenze e proporzioni, richiama la lotta di Spartaco contro Roma.
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Crociata contro Dolcino – La prima battaglia

 La cattura di Margherita e fra Dolcino
Affresco di Antonio Ciancia da Caprile (1867)
Chiesa Matrice SS. Quirico e Giulitta di Trivero

Vedi qui file originale

Non appena ha sentore delle mosse avversarie, Dolcino getta il grido di allarme, accozza la sua gente, separa gli atti alle armi dagli inetti, rinchiude questi ultimi nella fortezza o li ricovera sulle montagne, e prepara il suo piccolo esercito a sostenere l’urto che lo attende. Sono con lui uomini di non poco conto, anche di nobili origini.
Non pochi di questi uomini hanno grande dimestichezza con le armi e sanno condurre schiere: comunque tutti sono decisi a difendere il capo, fino alla morte, e a vendere cara la pelle.
Naturalmente gli abitanti di Gattinara fan causa comune con i ribelli, accrescendone notevolmente le forze.
Dolcino prende l’iniziativa e, profittando dell’assenza del conte di Lumello, piomba sulle forze del Coccarella e le sbaraglia, dandosi, quindi, a scorrazzare per le campagne.
Ecco, ora, interviene il generale dei Domenicani, Barnaba da Vercelli, che già ha partecipato alla crociata contro gli Albigesi e dà incarico a fra’ Nicola Triveto, che era stato fra gli sterminatori di quegli eretici, di bandire un’eguale crociata contro Dolcino e gli Apostolici.
Egli inizia il suo compito aizzando i vercellesi al massacro di ventidue apostolici rinchiusi da tempo nelle carceri (più tardi Dolcino risponderà con l’impiccagione di prigionieri). Agli ordini del vescovo di Vercelli, del marchese di Monferrato Raineri e del banditore della crociata fra’ Triveto, avanzano ora 7.000 uomini.
Il primo scontro campale avviene nei pressi di Romagnano. Sulle prime le sorti del combattimento sono nettamente favorevoli ai dolciniani; ma in un baleno, la situazione si rovescia. I dolciniani, un momento prima vittoriosi, sono arrestati, respinti, sconfitti, e quelli rimasti in Grignasco sono attaccati da due corpi sopraggiunti: sembrano ormai definitivamente spacciati.
Ma quando sta per verificarsi l’irreparabile, ecco in piena estate verificarsi un fatto che ha quasi del prodigio. Il cielo si oscura, prende a soffiare un vento gelido, un turbine di neve si scatena nella valle, avvolge i combattenti e li costringe a sospendere la battaglia.
Allorchè la bufera è cessata, Dolcino e i suoi compagni sono scomparsi.
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Il duro inverno in Valsesia

Un cippo dolcino sul monte Rubello (Zebello)
Siamo alla fine del 1304 e la situazione non è più propizia al proseguimento delle azioni. La massa dei dolciniani si è dileguata verso Varallo. La Valsesia non fa parte nè del Comune nè della diocesi vercellese e quindi l’esercito dei coalizzati vercellesi si scioglie, lasciando che a combattere Dolcino e gli Apostolici provvedano, se lo credono, i Valsesiani.
Intorno a Dolcino, intanto, si stringe un migliaio di combattenti a cui si aggiungono quattrocento valsesiani, ma anche maggiore è il numero di invalidi alle armi, donne, vecchi, bambini. Si accampano a Campertogno, povero paesetto che non offre risorsa di sorta per sfamare quella gente; e son necessarie frequenti scorrerie che, naturalmente, aizzano i possidenti conto gli attentatori alla loro proprietà.
Alla fine dell’inverno 1304-1305, Dolcino ordina alla sua gente di mettersi in marcia per raggiungere una posizione migliore. Peregrinazioni, predicazioni di fra’ Dolcino e attentati contro la proprietà per sfamare tante bocche continuano fino al luglio 1305, quando il nuovo Papa, Clemente V, emana una bolla per bandire contro gli eserciti apostolici una nuova crociata che promette l’indulgenza plenaria a chi vi partecipi.
Si forma il 24 agosto, nella Chiesa di San Bartolomeo in Scopa, la lega dei signori Valsesiani; e che si tratti di signori non solo è ovvio, ma se pur apparsa ad arte, fra le altre, la parola popolani, è chiaro dallo stesso statuto, in cui i dolciniani sono definiti “devastatori”.
“…uomini ragguardevoli, popolani, e più ancora illustri famiglie che a causa delle disgrazie, delle fazioni, delle guerre, cercarono rifugio e pace fra queste alpi, in una assemblea generale contemporaneamente formarono una lega perpetua e decisero e deliberarono di perseguitare unanimemente, con le armi, codesti abominevoli devastatori”.
leghisti armati si radunarono in Varallo agli ordini del podestà che apparteneva alla nobile famiglia dei Brusato di Novara: ed è questo il primo esempio delle coalizioni che avverranno, in occasione di rivolte contadine, fra proprietari feudali e borghesia contro i rivoltosi: al che si aggiunga, per quanto nel caso specifico riguarda l’Italia, che già si era in fase di decadenza dell’età comunale e che la borghesia mercantile cominciava, in quel tempo, a diventate proprietaria terriera.
Le milizie valsesiane avanzano e prendono posizione, appena al di là di Piode, dove la valle fa gomito: scorgono il nemico appostato sulle alture e lo attaccano vigorosamente di fronte.
Fra’ Dolcino tiene fermi i suoi e si limita a reggere all’urto, poi con abili spostamenti, con finti attacchi di fianco, trascina il grosso dell’avversario nel punto da lui prescelto per un contrattacco generale.
Il luogo è una pianura abbastanza ampia, proprio di fronte a Quare, e pare preparato apposta per favorire un agguato.

Non appena i Valsesiani vi hanno posto piede, i dolciniani balzano fuori dal loro nascondiglio; dall’alto bersagliano duramente il nemico con un nugolo di dardi e di pietre, stringono il loro cerchio in una morsa, poi danno addosso all’avversario, lo scompigliano, lo costringono a sbandarsi. Le acque del Sesia sono rosse del sangue degli sconfitti e la piana passa alla storia col nome di Camporosso.

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Sulla Parete Calva

Parete Calva
Fedele alla sua attica di continui spostamenti Dolcino pensa stavolta di affrontare l’ascesa di
un’altra, diritta, isolata montagna che là dove il torrente Sorba entra nel Sesia si erge di fronte a Piode: la cosiddetta Parete Calva.
Per arrivarvi dalla parte della Vasnera (chè di fronte è inaccessibile), occorre scavalcare il ciglio di un profondo burrone dentro il quale sinistramente gorgoglia l’acqua corrodente di un impetuoso torrentaccio.
La tradizione che ama il dramma e lascia sempre spaziare la fantasia, vuole che le schiere dolciniane giunte colà si arrestassero inorridite, non avendo il coraggio di avanzare. Già stavano per decidere il ritorno, quando Margherita di Trento si fa avanti, scruta lo spaventoso ciglione, scopre un dubbio passaggio, vi si inoltra, mentre gli animi dei compagni e dello stesso Dolcino sono sospesi; scende, scompare nel burrato, e dopo un pò di tempo, che pare agli altri un secolo, risale dall’altra parte. Il gesto audace della donna rincuora i dubbiosi, fa rompere gli indugi, fa riprendere l’arrampicata.
Al passo rimane un nome di battesimo; Varga Munga, che nel dialetto locale significa: Passo della Monaca, come era chiamata la compagna di Dolcino.
Con tale ardita manovra, il capo degli Apostolici, va ad issarsi sopra una posizione veramente formidabile e, per quei tempi, assolutamente imprendibile.
Sulla cima è una radura di circa duecento metri di circonferenza, dove la gente di Dolcino si distese.

Tra la fine di settembre e i primi di ottobre dei 1305, la Lega dei signori valsesiani tornò in campo.

I capi della Lega sanno che ormai è prossimo l’inverno e che la neve sta per avvolgere pesantemente non solo le cime, ma tutta la valle; sanno che se l’inverno non sarà una delizia per le truppe confederate raccolte nei trinceroni, non rappresenterà certo un sollievo per quei dannati della parete Calva, sulla quale batte impetuoso il vento, turbina la bufera, attanaglia il gelo, senza offrire un solido riparo.
E non lo sanno solamente i capi e le milizie valsesiane, non lo sa soltanto l’impotente e ingabbiato fra’ Dolcino: lo sa ormai tutta Italia, lungo la quale è corsa la nuova dell’impresa valsesiana e che attende da un giorno all’altro, nel cuore dell’inverno, la notizia della sconfitta di

Dolcino o della sua morte per inedia o assideramento.

Per quattro lunghi mesi la vita degli assediati è tagica fra i tormenti della fame e del freddo: finchè Dolcino decide di spostarsi.

La fuga degli eretici si svolge di notte, alla chetichella, ma con rapidità sorprendente, quando le nevi sono ancora sui monti; ed è sostenuta da tutti con il coraggio della disperazione: dagli uomini, dalle donne, dai fanciulli, dai vecchi. Tutta questa gente non intende deflettere un pollice nella fede, e ad essa si attacca con l’anima, con la stessa cocciuta tenacia del mastino che preferisce la morte all’abbandono della preda azzannata. Sulla Parete Calva si sono nutriti
di fieno, di cavalli e di topi, con sommo scandalo di qualche storico posteriore, ricorrendo, nel febbraio del 1306, nientemeno che il tempo della Quaresima.
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L’estrema difesa sul Monte Zebello (Rubello)

Cattura di Fra Dolcino sul Monte Rubello (Zebello) 
Quadro nella parrocchiale di Trivero

Il 10 marzo del 1306, con un migliaio e mezzo circa di uomini atti alle armi, apparve nel Biellese e si installava sul Monte Zebello (metri 1408), detto, più tardi, monte Rubello o dei Ribelli. Lo fortifica e si pone in stato di difesa; fa scavare due grandi fossati circolari e costruire ricoveri: ormai questa dei contadini novaresi, vercellesi, biellesi è una vera e propria guerra partigiana contro le milizie della classe dominante, cioè del feudalesimo laico ed ecclesiastico, sostenuto dalla classe neofeudale, la borghesia che si è fatta, nelle campagne, proprietaria terriera. Queste forze si coalizzano per un attacco definitivo che ponga fine alla rivolta contadina.

Le forze vercellesi, adunate in Mosso, sono più numerose di quelle degli Apostolici. Tuttavia, per avanzare verso la posizione principale dell’avversario, devono superare con furibonde lotte gli ostacoli che fra’ Dolcino via via frappone loro, con gruppi di uomini risoluti, con opere campali costruite con ogni regola d’arte.
Durante uno di questi scontri, sono catturate cinque donne dei dolciniani, di cui una già in stato avanzatissimo di gravidanza. Le disgraziate sono appese ad un albero per i piedi, perchè muoiano di lenta agonia. La donna incinta si sgrava proprio in quel momento e subito invoca che la creatura sua sia battezzata, non tanto perchè essa voglia dimostrare che è ritornata all’antica fede, quanto perchè spera di far salvare la vira al bambino. Ma nell’attimo in cui una donna cattolica si commuove e fa per accorrere a compiere l’atto pietoso, è brutalmente trattenuta e malmenata dai crociati, i quali urlano che anche l’infante deve andare all’inferno con la madre..

Le {orze crociate attaccano, e sembra, un momento, che la vittoria sia loro; ma Dolcino riesce a metterli in fuga.

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Eroismo di Dolcino e Margherita

Fra’ Dolcino e Margherita condotti al supplizio (disegno di Bartolomeo Giuliani)

Il papa Clemente V invia un cardinale, legato pontificio, a rinfocolare l’animo dei crociati; il più stretto assedio è deciso. Gli scontri hanno vicende alterne: ma l’inverno col gelo e con la fame è magico per gli assediati, che eroicamente resistono anche se la morte falcia i più deboli.
Lo scontro decisivo avvenne il 23 marzo del 1307, giovedì santo: e fu feroce da una parte e dall’altra; gli Apostolici ne risultarono sterminati (“vinti e soggiogati dappertutto, scrive lo storico Federico Tonetti, pensavano solo a modo di vender cara la vita al nemico, sì che gli sapesse acerbo; ne fur veduti combattere accosciati e ginocchioni, fino all’ultimo respiro di vita”).

fra’ Dolcino? E Margherita?
Le cronache della battaglia sono concordi nell’affermare la loro presenza là dove più ferveva la mischia, quasi invulnerabili, comunque insensibili ai colpi, che gli assalitori scagliavano loro da ogni parte.
Tuttavia, malgrado si esponessero a tutti i rischi, non fu loro possibile cadere sotto i colpi degli avversari. A sera, quasi al termine della lotta, i due infelici furono rinvenuti fra due macigni, stretti l’uno all’altra, coperti di sangue nemico, con la terribile espressione in volto di non cedere ancora. Alle loro spalle, non meno spaventoso, stava Longino Cattaneo con un’enorme spada sollevata in atto di protezione.
A quella vista i crociati si scagliavano in avanti, decisi di farla finita e di aggiungere ai morti della giornata i cadaveri di quei tre indomabili e maledetti superstiti.
Ma i capitani, riconosciuta la ricca preda, si gettano in mezza e impediscono la strage. Un ordine secco: i tre sono catturati vivi e incatenati. La sera cala e tutto il campo di Monte Zebello è in fiamme.

Quel giorno caddero mille eretici; i pochi superstiti, in mezzo ad una folla, ubriaca di odio e cupida di vendetta, furono trascinati a Vercelli, dove giunsero il sabato santo.

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Dalle torture al rogo

Fra’ Dolcino e Margherita arsi al rogo 
Clemente V, immediatamente informato coi mezzi più celeri che il tempo consentisse, dava ordine che i tre fossero trattati col massimo rigore; che non occorresse far intervenire l’Inquisizione ma che bastasse il braccio secolare, essendosi essi comportati come autentici ribelli ad ogni autorità politica e come pericolosi perturbatori dell’ordine sociale.

Nel monastero di S. Andrea di Vercelli, mentre Dolcino e Margherita giacciono in catene in un sotterraneo del castello, “si raduna un gran consiglio a cui partecipano tutti i monaci e i prelati della regione, ed i più nobili cittadini del Comune” sotto la presidenza del Vescovo Ranieri e i due incarcerati sono affidati alla giustizia secolare.

“Era in quel tempo giudice della città Guglielmo Tornielli. Costui spiegò tutto il suo zelo e impiegò tutti gli strumenti di tortura per far confessare a Dolcino, a Margherita, al Cattaneo le loro eretiche colpe. Malgrado gli. aculei e le tenaglie che loro laceravano lentamente le carni, Dolcino, superbo e minaccioso, la donna, ostinata e tranquilla, il Cattaneo taciturno e rassegnato, non piegarono alla volontà del giudice.
Perciò inconfessi furono condannati i primi ad essere arsi vivi a Vercelli, il Cattaneo a Biella.

La sentenza fu eseguita il primo giugno dell’anno 1307″.

Dolcino e Margherita posti sopra un carro, coi carnefici al fianco, fra una turba sterminata di spettatori, preceduti dai vescovi e dal capitolo, dagli Inquisitori e dagli alti membri del Sant’Uffizio, dal capitano del popolo alla testa di tutti gli uomini d’arme, furono condotti al luogo del supplizio.
I due sciagurati durante il tragitto dovettero sopportare le più atroci torture, sentire di nuovo le carni lacerate sotto i morsi delle tenaglie roventi, ma non si lasciarono sfuggire un lamento, non ebbero un attimo di debolezza.
Cupi, insensibili alla tortura ed agli insulti della plebaglia, essi non mostrarono che una sola volontà: quella di reggere sino alla fine.
Il triste corteo si arrestò fuori della città, sulla riva del fiume Cervo. Quivi erano preparati due roghi.

Sul primo fu condotta e legata Margherita, e sotto gli occhi di Dolcino arsa e bruciata “affinchè più angoscioso fosse il tormento dell’uomo che a tanta miseria aveva condotta quella disgraziata creatura”. Poi fu la sua volta.

Non appena i due roghi cessarono di ardere, le ceneri ancora calde furono raccolte e disperse al vento, affinchè di quei maledetti non rimanesse segno alcuno.

Nella stessa ora, a Biella, Longino Cattaneo subiva l’identica sorte in un luogo presso il Ponte della Maddalena, che la tradizione popolare indica ancor oggi come quello delle esecuzioni.

Con la scomparsa di Dolcino e dei suoi autorevoli seguaci, gli Apostolici ricevevano il colpo di grazia, e la setta non si riaveva più.
Dopo l’esperienza tragica del Segarelli, e quella ancor più terribile di Fra’ Dolcino e di Margherita, nessuno avrebbe avuto il coraggio di raccoglierne l’eredità e di continuate la lotta.
( * ) Questo e gli altri brani apparsi fra virgolette appartengono al citato studio di VIOLINI e MAZZONE, che, a loro volta, hanno ricavato le notizie dall’Historia fratus Dolcino heresiarca.
Molto materiale su Fra’ Dolcino si trova nella Biblioteca di Biella.
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