IL MILIONE – Marco Polo

LA MERAVIGLIOSA AVVENTURA DI MESSER MILIONE SPRONÒ AL GRANDE VIAGGIO CRISTOFORO COLOMBO

La famiglia dei Polo, originaria di Sebenico in Dalmazia, era quel che si dice gente in gamba. Mercanti avveduti, i Polo avevano capito quale fonte di guadagni potevano essere i traffici col vicino Oriente, aperti agli Europei, e segnatamente ai Veneziani, dalle Crociate, soprattutto dalla IV, che aveva portato il doge Enrico Dandolo alla conquista di Costantinopoli. E, come altri nobili veneziani – ai soli nobili era riservato il privilegio di tali commerci – i Polo verso il 1250 avevano aperto empori a Costantinopoli e in Crimea. Dapprima parti Andrea Polo, poi i suoi minori fratelli Matteo e Niccolò: quest’ultimo lasciando a Vinegia – com’era chiamata allora Venezia – la giovane moglie.
Probabilmente contavano di ritornare presto in patria, ma le circostanze vollero altrimenti. Allettati, infatti, dalla prospettiva di buoni guadagni. Matteo e Niccolò si spinsero fino a Bolgara, sul Volga, dove allora risiedeva Barca Kan (Kan vuol dire principe). Una guerra che si svolgeva dove avrebbero dovuto passare, impedì loro di tornare indietro; ed essi decisero allora di avanzare verso Oriente: così, toccarono Bukhara, e finalmente, dopo esservi rimasti forzatamente per ben tre anni, accettarono l’offerta di unirsi ad una ambasceria tartara (o tatara, come preferite), diretta nientemeno che a Pekino, all’altro estremo dell’Asia, alla corte del Gran Kan (come dire il “gran principe”).
Qui, mentre i due ardimentosi Veneziani compiono il lungo, e in molti luoghi pericoloso viaggio, bisogna aprire una parentesi. Ricordare, cioè che, agli inizi di quel secolo, l’Asia tutta e l’Europa orientale avevano subìto la più grande invasione che la storia ricordi. I Tartari, popolo mongolo, capeggiati dal famoso Gengis Kan (che vuol dire “principe universale”: il suo vero nome era Temugin), usciti dalle native steppe della Mongolia, erano straripati verso Occidente, travolgendo ogni resistenza, fino a raggiungere la penisola balcanica! Date un’occhiata ad una carta geografica, e vi farete un’idea della immensità di questa mareggiata.
Parve per qualche tempo che l’Europa tutta dovesse essere sommersa da questa invasione, la cui vastità e violenza faceva impallidire il ricordo delle stesse invasioni barbariche subìte dall’impero romano: ma, successivamente, non più guidate dal loro ferreo e geniale e crudelissimo capo, le orde tartare furono contenute.


Alla corte di Cublai Kan

Il Gran Kan che regnava ai tempi dei Polo, pronipote di Gengis Kan, si chiamava Cublai, e risiedeva a Pekino, dopo aver conquistato ed unificato la Cina. Era un sovrano trattabile, di larghe vedute, tollerante delle opinioni altrui, avido di sapere, per nulla ostile agli stranieri. I due Polo, che avevano avuto modo di imparare la lingua tartara, fecero del loro meglio per soddisfare la curiosità del sovrano. il quale voleva soprattutto conoscere ogni cosa riguardo la religione cristiana, la Chiesa e il Papa. Erano diventati i suoi consiglieri preferiti, e col loro buon senso di mercanti accorti, con l’esperienza accumulata in anni di traffici, con la sincerità e la fedeltà, sapevano ricambiare la stima del Gran Kan.
Ma avevano una comprensibile nostalgia di rivedere patria e famiglia; e infine, dopo molte insistenze, Cublai li lasciò partire, con messaggi per il papa, al quale fra l’altro chiedeva cento savi uomini per insegnare e diffondere la religione cristiana nel suo impero.
Il viaggio durò tre anni; e quando finalmente, nel 1269, i Polo toccarono le sponde del Mediterraneo, dopo tanti anni di assenza, Niccolò ebbe il dolore di apprendere che gli era morta la moglie, lasciandogli un figlioletto, Marco, già quindicenne, nato in assenza del padre.

Tre veneziani sul “tetto del mondo”

Qui comincia la seconda parte della grande avventura. All’età di 17 anni, Marco parte con il padre e lo zio per un viaggio che anche oggi, con i nostri mezzi di comunicazione, non si presenta privo di difficoltà.
Papa Gregorio X, a cui i due Polo al loro ritorno avevano reso noto il messaggio del Gran Kan, in luogo dei cento savi, diede loro due frati noti come buoni predicatori. I due frati, però, non avevano tanto coraggio quanta dottrina e, prima ancora di lasciare il Mediterraneo, come sentirono parlar di guerre, fecero dietro front e i tre Polo dovettero partirsene soli. Sta bene che Matteo e Niccolò avevano già affrontato il duro viaggio, ma, la prima volta, con una ambasceria tartara che, in qualche modo, li proteggeva.
Carta geografica alla mano, seguite i tre Veneziani; immaginateli attraversare l’Armenia, la Persia, giungere ad Hormuz, sul golfo Persico… Qui tentarono di imbarcarsi per circumnavigare l’Asia e raggiungere per via d’acqua il mar Giallo e Pekino. Ma, reputando poco sicure le navi. preferirono le vie dell’interno. Forse non immaginavano l’immane fatica che avrebbero dovuto affrontare. Infatti, mentre con l’ambasceria tartara Matteo e Niccolò avevano proceduto tenendosi al nord delle grandi catene montane, in questo secondo viaggio i tre Polo dovettero percorrere gli altipiani, sfidare altezze a cui nessun europeo era mai giunto né giunse più per secoli, salire sul Pamir, il “tetto del mondo”… Di là scesero verso oriente, in valli solcate da grandi fiumi, e, prima di giungere alla méta, dovettero attraversare il terribile deserto di Gobi. Nessuno aveva mai compiuto un’impresa simile. Quale somma di coraggio, di tenacia, di intelligenza, di resistenza fisica, essa avesse richiesto ai tre veneziani, ognuno di voi può immaginare. Pensate alla diffidenza dei nativi, alle difficoltà dell’orientamento, a quell’andare sempre a cavallo o a piedi, essi, uomini di mare, figli di marinai, proverbialmente non avvezzi alle lunghe camminate. E, occhi e orecchie ben aperti.
Cublai Kan rivide con grande gioia i due stranieri, gradi i loro doni e messaggi; Marco, poi, gli piacque moltissimo. In quel giovane intelligente e ardito, che lungo la strada aveva imparato l’arabo, il turco, il tartaro e il cinese, aveva intuito qualità superiori, che ben presto avrebbe messo alla prova.

Marco era nato nel 1254, era partito nel 1271: nel 1278, a ventiquattro anni, Cublai Kan – lui, che aveva 22 figli maschi! – lo nominava governatore di una provincia; dal 1283 al 1285 lo mandava, come si direbbe, in missione di fiducia nella Cina meridionale, in terre che lo stesso Cublai, pur essendone sovrano, conosceva assai poco.
Munito di un passaporto d’oro che lo faceva rispettare come lo stesso Gran Kan, Marco compì le sue missioni in modo esemplare, meritandosi la stima di Cublai, che non aveva mai avuto un ambasciatore così attento e capace di vedere e ricordare. Marco, infatti, era il tipico viaggiatore “moderno” bramoso di scoprir paesi, di rendersi conto personalmente di tutto.

Di scorta alla principessa

Cublai Kan non si sarebbe mai privato di così preziosi consiglieri – lui che teneva alla sua corte i migliori ingegni d’ogni paese del suo smisurato dominio: ma ormai Matteo e Niccolò erano vecchi, e Marco era prossimo alla quarantina. Cosi fu che, quando il re di Persia, Argon, rimasto vedovo, chiese in isposa a Cublai una principessa di sangue mongolo, il Gran Kan pensò di affidarla ai Polo, che l’accompagnassero per via di mare, ritenuta meno disagevole, e così tornassero in patria. Fu apprestata una vera flotta – complessivamente 13 velieri con 600 uomini di equipaggio e scorta e provviste per due anni. Il viaggio fu fortunoso, pieno di peripezie: furono toccate Giava, Sumatra, Ceylon, costeggiata l’India: quando la comitiva imperiale prese finalmente terra a Hormuz, la scorta era ridotta a otto uomini! E, come se questo non bastasse, Argon era morto. Ma i Polo, fedeli alla missione della quale erano stati incaricati, andarono ugualmente alla capitale della Persia, per consegnare la principessa al figlio di Argon, il quale la sposò.
Poi, attraverso l’interno, i Veneziani giunsero a Trebisonda, da dove puntarono su Venezia.
Era il 1295. Da ventiquattro anni essi mancavano dalla patria. Gli anni trascorsi, le traversie, lo strano vestire, li resero irriconoscibili ai loro stessi congiunti. Lo storico Ramusio, al quale dobbiamo la prima biografia di Marco Polo, racconta che, per farsi riconoscere, i tre reduci dovettero ricorrere ad uno strattagemma: invitarono cioè parenti ed amici ad un sontuosissimo banchetto, durante il quale si presentavano successivamente in vesti sempre più ricche, ed infine nei miseri panni del pellegrino, e fra lo stupore dei presenti si misero a scucirne le fodere, facendone uscire gemme di tal pregio e in tale numero da abbagliar tutti e da costringerli ad ammettere che i tre erano proprio i Polo!

Gli increduli compatrioti

Vollero allora ascoltare dalla viva voce di Marco – il più giovane e il più eloquente – la descrizione dei paesi veduti e la narrazione delle avventure attraverso le quali erano passati. Ma quando sentirono degli splendori della corte del Gran Kan, e che egli aveva un organizzatissimo servizio di posta, e che aveva ritirato oro e argento e stampato carta-moneta… e che la loro Vinegia era un villaggio se paragonata a Quinsai (l’attuale Hang-Ceu o Hang-Ciou, capoluogo del Ce-Kiang), essa pure sorgente da una laguna, con un milione di case, dodicimila ponti, tremila bagni… quando sentirono queste e altrettanti meraviglie, i buoni Veneziani dissero chiaro e tondo che non volevano essere presi in giro: milioni di qui, milioni di là… per chi li aveva presi, quel Marco Polo, quel… messer milione.
Ma non erano tempi da consentire ai Polo un meritato riposo e un tranquillo racconto delle loro vicende dopo tanto vagabondare. Genova, che, alla Meloria, nel 1284, aveva schiacciato definitivamente i Pisani, ora si apprestava a dare un colpo mortale all’odiata rivale, la potente Serenissima. A Curzola, presso le coste della Dalmazia, avvenne la battaglia, l’8 settembre 1298, e fu una durissima sconfitta per i Veneziani. Lo stesso doge, fatto prigioniero, non resiste alla vergogna e si diede la morte. E prigioniero fu fatto anche Marco Polo, il quale aveva armato a sue spese una galea.

Marco dettava, Rustichello scriveva

Rinchiuso in un palazzo di Genova, otto mesi durò in prigionia. Suo compagno di sventura era uno scrittore, un pisano. Rustico, o Rustichello, che si trovava lì da ben 14 anni! L’incontro di questi due uomini diede un singolare frutto al nostro Marco, infatti, venne l’idea di narrare compiutamente e ordinatamente le proprie vicende, prima che la memoria, pur tenacissima, lo tradisse. Forse, anche, per riaffermare ancora una volta che non aveva contato frottole.
Uno detta, l’altro scrive, e il “libro delle meraviglie” (o, come poi tutti lo chiamarono, Il Milione) è fatto. Ma non in volgare toscano scrive Rustichello, bensì in lingua d’oil, o francese, lingua allora assai usata dai nostri letterati.
Tornato a Venezia, Marco poté godersi in pace gli anni che seguirono; si sposò, ebbe tre figlie. Prossimo a morte, nel dettare il testamento non dimentico un servo tartaro, che l’aveva seguito trent’anni prima. Morì a 70 anni, nel 1324: era vissuto, perciò, circa negli anni di Dante.

Le annotazioni del “Genovese”

La modestia naturale dell’uomo, la sua indole pacifica (nel suo libro non manca mai di accennare agli uccelli dei vari paesi… e gli fa specie quando mancano), il suo star lontano dalle vanità del mondo, non contribuirono certo a dargli gran fama, lui in vita. È ben vero che il “Libro delle meraviglie”, che poi tutti chiamarono Il Milione, ebbe subito diffusione e fortuna; ma vi si parla così poco dell`autore!; e poi, i più lo credettero un romanzo d’avventura e niente più. (E pensare che, in punto di morte, esortato a confessare d’aver esagerato, il buon Marco aveva esclamato: “O amici, vi accerto che non ho scritto neppure la metà di quel che ho potuto vedere”.
Ma fra quelli che lessero e credettero, vi furono due della stessa stoffa di Marco Polo, vogliamo dire Cristoforo Colombo e Vasco de Gama. Nella biblioteca colombiana di Siviglia si conserva una copia del Milione, tutta annotata di pugno del Genovese. Il fascino della narrazione del Veneziano. non meno che la famosa lettera dell’astronomo Paolo del Pozzo Toscanelli, sulla rotondità della terra, lo convinsero al “folle volo”.
Ancor oggi, Marco Polo è considerato “il più grande fra i viaggiatori di tutti i tempi”.

 

“Credo che fosse piacere di Dio nostra tornata, acciochè si potessero sapere lo cose che sono per lo, mondo; che non fu mai uomo né cristiano né Saracino né tartaro né pagano, che mai cercasse tanto del mondo quanto fece messer Marco, figliuolo di messer Niccolò Polo, nobile e grande cittadino della città di Vinegia”.
(dal “Milione”)

La carta del viaggio di Marco Polo. Giunto a Lajazzo, egli seguì, durante il viaggio d’andata, un itinerario che lo condusse attraverso il Tibet a Canbalig, sede del Kan. Il viaggio di ritorno fu invece compiuto in gran parte per mare, lungo le coste dell’estremo Oriente. L’ultima tappa lo portò da Trebisonda a Venezia.