I FASCI SICILIANI

Gennaio 1894. Il banditore pubblico di Gibellina annuncia la proclamazione dello stato d’assedio

 

I FASCI SICILIANI

Tra le Società operaie e socialiste che avevano partecipato il 14 e 15 agosto 1892, a Genova, al Congresso costitutivo del Partito dei Lavoratori Italiani (divenuto poi Partito Socialista Italiano), anche la Sicilia era presente con i delegati delle Società operaie di Palermo, Catania e Messina. Il ragioniere Rosario Garibaldi Bosco, rappresentante del Fascio dei Lavoratori di Palermo, chiamato alla Presidenza, aveva comunicato l’adesione dell’avvocato Giuseppe De Felice Giuffrida che avrebbe dovuto rappresentare il Fascio dei Lavoratori di Catania e che era espatriato per sfuggire ad un mandato di cattura. Il Bosco era stato poi chiamato alla Presidenza, su proposta di Anna Kuliscioff e, in un intervento, si era reso interprete dell’aspirazione dei lavoratori dell’isola all’unita di tutte le forze operaie e socialiste. Tutte le cinque società operaie siciliane (1) avevano poi aderito al Congresso che, dopo la rottura con gli anarchici, aveva proseguito i propri lavori alla Società dei Carabinieri Genovesi in Via della Pace.

La partecipazione della rappresentanza siciliana al Congresso di Genova aveva posto per la prima volta, dinnanzi al proletariato dell’isola, il problema della costituzione di un Partito autonomo della classe operaia. Essa aveva costituito lo sbocco indispensabile di quell’azione organizzativa iniziatasi negli anni precedenti con la costituzione dei primi fasci dei lavoratori.

Questi organismi di organizzazione e di lotta erano sorti per la prima volta in Italia, come filiazione della Internazionale, rispettivamente nel 1871 e nel 1872 a Bologna ed a Firenze. Essi si erano diffusi negli anni seguenti in Toscana, in Emilia ed in Romagna. Col loro tipo di organizzazione basato sulla riunione di forze operaie (fasci) dei vari mestieri, essi avevano costituito il veicolo per la trasformazione delle società di mutuo soccorso, influenzate dall’idealismo mazziniano, in organismi di resistenza politica ed economica con un contenuto più o meno classista.
Tale contenuto si era accentuato nel 1883, culminando poi nella costituzione del Partito Operaio Italiano.

A Palermo, la prima organizzazione di questo tipo, propugnata fin dal 1873 dal giornale Il Povero redatto da un gruppo di operai della fonderia Oretea, era sorta nel 1879, sotto il nome di Confederazione dei Settantadue Mestieri, con la partecipazione dell’operaio anarchico internazionalista Salvatore Cagliari. Malgrado le affermazioni del Bosco (2) che attribuisce alla Confederazione un carattere socialista non sembra che quest’ultima riuscisse ad avere una particolare influenza. Nel 1882 poi, sempre nella città di Palermo si era formato un Consolato Operaio; in seguito altre società operaie erano sorte, oltre che nel capoluogo, anche in altre località dell’isola, con prevalente carattere elettorale. Solo nel 1890 esse avevano assunto un più accentuato carattere marxista, temperato però da un certo umanitarismo, per influenza precipua, oltre che dei già citati Bosco e De Felice anche del medico Nicola Barbato e del possidente Bernardino Vero.

La visione politica più chiara era quella espressa da Rosario Garibaldi Bosco: fin da giovanissimo egli era entrato a contatto col movimento operaio, divenendo poi direttore del settimanale socialista palermitano Giustizia Sociale. “Nel 1891 – egli raccontò al giornalista Adolfo Rossi – vedendo che le associazioni continuavano ad essere in Sicilia sempre divise, andai a studiare la federazione di quelle di Milano, ma mi persuasi che il sistema adottato in Lombardia non si poteva applicare in Sicilia, dove tante società non erano che strumenti elettorali. Andai allora a Parigi e studiata che ebbi l’organizzazione della Borse du travail trovai quello che cercavo. Sul modello della Camera del Lavoro procurai di foggiare il ”fascio” di Palermo dividendolo per sezioni d’arti e mestieri”.

Nicola Barbato era invece un medico di Piana dei Greci. Dopo un’esperienza fatta per alcuni anni quale medico di un manicomio di Palermo egli aveva pubblicato il libro Appunti psicopatologici sulla paranoia che era stato molto lodato da Cesare Lombroso e da altri illustri psichiatri. Nell’esercizio della sua attività egli aveva abbracciato le idee socialiste, animato da un’entusiasmo che lo aveva spinto ad operare a difesa dei poveri e dei perseguitati. Instancabile organizzatore, egli era riuscito a costituite nel suo paese un Fascio di oltre quattromila contadini e di un migliaio di donne. Questo attivismo non poteva fare a meno di allarmare le autorità tutorie. Nel 1892 egli era stato infatti arrestato e processato per associazione a delinquere e condannato a sei mesi di carcere.
Nel 1893, nelle elezioni amministrative di Piana dei Greci, egli aveva portato il Partito socialista ad una grande Vittoria.

Bernardino Verro di Corleone, era stato invece dapprima impiegato al Comune ed in seguito destituito per le sue idee socialiste. Oltre ad avere costituito il Fascio del suo paese natale forte di circa 7000 aderenti, egli aveva organizzato anche quelli delle località vicine. Doveva finire tragicamente la sua vita il 3 novembre 1915 per opera della mafia assoldata dagli agrari.

Su posizioni più vicine ai democratico-radicali con alcune punte anarcoidi, era il De Felice, che si era acquistata una grande popolarità a Catania, quando, eletto consigliere comunale e poi assessore, aveva promosso numerose attività economiche e fatto tentativi di municipalizzazione di alcuni servizi pubblici. Nel 1893, ancora trentacinquenne, lottando senza esclusione di colpi contro la camorra locale, aveva già subito numerosi processi ed era stato costretto, per un certo periodo di tempo. a rifugiarsi a Malta. Presentandosi in quello stesso anno nelle elezioni politiche candidato a Catania ed a Paternò, era stato eletto trionfalmente in entrambi i collegi. Solo dopo i fatti che narreremo in seguito, egli si legò per un certo periodo di tempo col movimento socialista, dal quale pero si allontanò nel 1897, perché insofferente della disciplina di partito. La guerra libica (1911) e la guerra 1915-1918 lo videro tra gli interventisti.

È ora necessario, per comprendere l’ulteriore sviluppo degli avvenimenti, soffermarsi sulle condizioni dell’isola in quell’anno 1893. Esse erano caratterizzate dall’estrema miseria del proletariato e particolarmente dei contadini che vivevano ai margini di una residua struttura feudale basata sull’egemonia dei ricchi signori i quali fondavano il loro potere sull’appoggio del clero e della mafia e sulla complicità dei cosiddetti galantuomini di solito esponenti del ceto medio (segretari comunali, avvocati di pretura, medici condotti, farmacisti, maestri elementari, ecc.)  sempre pronti a servire i nobili ed il clero ed a sfruttare i lavoratori i quali erano tartassati anche dai comuni e dai loro esattori i quali, mentre lasciavano indisturbati i benestanti, applicavano inesorabilmente il dazio sul pezzo di pane del contadino. Quasi sempre i ricchi latifondisti, desiderosi di vivere in città, affittavano la terra ai “gabellotti” che, a loro volta, la subaffittavano, dividendola, ai “sub-gabellotti” che l’affittavano nuovamente. Quanto maggiore era stata la suddivisione, tanto peggiore era lo sfruttamento dei lavoratori giornalieri (jurnatara) da parte dell’ultimo sub-gabellotto che si serviva per la sorveglianza di una guardia particolare di “Campieri” o “soprastanti”.

Ma quello che superava ogni immaginazione era ii trattamento che veniva fatto ai carusi (ragazzi addetti al trasporto del minerale estratto nelle zolfatare). Costoro che, nonostante la legge prescrivesse dovessero avere almeno raggiunto i dodici anni, cominciavano spesso a lavorare a nove o a dieci anni, erano alla completa mercé dei picconieri (lavoratori addetti all’estrazione del minerale col piccone) ai quali venivano ceduti dai genitori stessi per un compenso di denaro detto “soccorso morto” e più propriamente “affittanza della carne umana”. Si stabiliva così un vero e proprio rapporto di schiavitù in forza al quale il picconiere esigeva dal “caruso” il massimo sforzo ed era sempre pronto ad usare la sferza e le percosse ad ogni minimo segno di stanchezza. Scriveva in proposito il giornalista Adolfo Rossi in un’inchiesta pubblicata sulla Tribuna: “Nella mia vita giornalistica io ho assistito in Italia, in Francia, in Germania, in Inghilterra, in Africa, in America, a scene orribili d’ogni maniera: fucilazioni, impiccagioni, linciaggi, massacri, morti d’ogni specie e nei lazzaretti e altrove. Nessuno spettacolo però mi aveva così profondamente colpito come quello della zolfara Virdilio: questo barbaro lavoro imposto ai ragazzi cosi teneri (che nello stato in cui vivono sono poi anche vittime della pederastia e d’altri orrori), é una cosa che grida vendetta, e la negazione di ogni più elementare principio di umanità. C’è da vergognarsi di essere nati in un paese dove una tale barbarie esiste ancora”.

Era logico che, in questa situazione, il malcontento accumulate dall’indomani dell’unità sia sui ceti lavoratori della città e della campagna sia sulle classi medie danneggiate dalla politica protezionistica della borghesia al potere volta ad avvantaggiare l’industria del Nord a scapito dell’agricoltura del Sud, dovesse trovare uno sbocco. Tale malcontento si era poi aggravato in seguito alle ripercussioni che, negli anni 1892-1893, la crisi mondiale aveva avuto nell’Italia Meridionale e nelle isole. Tale crisi, peggiorando le condizioni economiche dei proprietari e degli artigiani, si era automaticamente ripercossa sui lavoratori, i cui salari erano ritornati al livello reale del 1860. Contemporaneamente era aumentata anche la piaga della disoccupazione, per cui mentre si vedevano le vie di Palermo, Messina e Catania percorse da silenziose processioni di lavoratori recanti scritte richiedenti “Pane e lavoro”, si assisteva nei piccoli e grandi centri a scioperi di diverse categorie di lavoratori. Particolarmente caratteristico fu quello di Licata del giugno 1894 nel quale i mietitori, dopo avere sospeso il lavoro, inalberarono cartelli con la scritta L. 2, il prezzo da essi richiesto per la loro prestazione giornaliera.
L’anno 1893 si era aperto con un gravissimo incidente avvenuto a Caltavuturo, poverissimo paese in provincia di Palermo. Il 20 gennaio, alcune centinaia di contadini che si erano recati ad occupare le terre che avrebbero dovuto essere divise tra loro in compenso degli aboliti usi civici, erano stati attaccati al loro ritorno dalla truppa che aveva sparato provocando tredici morti ed alcune centinaia di feriti. Per iniziativa di Bosco, nella sua qualità di Presidente del Fascio di Palermo, si era quindi iniziata una sottoscrizione a favore delle famiglie dei contadini uccisi o feriti, sottoscrizione che, attraverso l’organo del Partito dei Lavoratori Lotta di Classe si era estesa a tutta l’Italia. Nonostante l’Onorevole Giolitti allora Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno avesse promesso, rispondendo ad un’interpellanza dell’onorevole Colajanni e di altri deputati che giustizia sarebbe stata fatta, nessuna punizione fu applicata nei confronti di chi aveva dato ordine di sparare senza alcuna intimazione o squillo di tromba, né contro chi aveva finito con un colpo di rivoltella il contadino Moscarella che, ferito, si era rannicchiato dietro una porta. Al contrario alcuni contadini sfuggiti al massacro furono arrestati e poi fortunatamente assolti dalla magistratura.

Un altro conflitto con morti e feriti era avvenuto il 6 marzo a Serradifalco nel corso di una protesta popolare contro i brogli perpetrati dai funzionari del governo per imporre l’elezione del candidato giolittiano Vincenzo Riolo.

Nell’aprile inoltre, in seguito ad una vera e propria provocazione il Barbato veniva arrestato a Piana dei Greci assieme con alcuni dirigenti del Fascio locale, dopo un discorso tenuto a San Giuseppe Jato. Incidenti simili si verificarono per tutto il 1893 in parecchie località (il Colajanni (3) ne indica 89) fra le quali Palermo, San Giuseppe Jato, Piana dei Greci, Partinico, Corleone, Termini-Imerese, Canicattì, Siracusa, Aragona, Alcamo, Castelvetrano, Caltanissetta, Trapani, Ragusa, Cefalù e Partanna. Dovunque la situazione era caratterizzata dagli abusi delle autorità locali e della forza pubblica e da arresti indiscriminati che però molto spesso non venivano confermati dalla magistratura. Naturalmente i più colpiti erano i dirigenti e gli attivisti dei fasci che spesso venivano anche licenziati dagli impieghi pubblici e privati. In alcuni casi le sedi dei fasci venivano attaccate e perquisite e ne venivano distrutte le insegne.

Nelle giornate del 21 e del 22 maggio 1893 era stato convocato a Palermo il Congresso dei Fasci dei Lavoratori dell’isola, Congresso che sarebbe poi dovuto sfociare in una manifestazione pubblica per richiedere la giornata di otto ore. Ma il Prefetto aveva chiesto ed ottenuto dal Ministero dell’Interno la facoltà di proibire quest’ultima, allegando quale pretesto l’allarme della locale borghesia derivata dalla preoccupazione della presenza “insieme a numerosi operai” anche di numerosi contadini che avrebbero potuto “venire in citta armati”. Il Congresso poté quindi svolgersi in forma strettamente privata con la partecipazione di 500 rappresentanti di circa 90 fasci e circoli socialisti. In realtà si trattò di due congressi: quello per la costituzione del Partito dei Lavoratori in Sicilia e quello per l’organizzazione dei fasci. Al Congresso per la costituzione del Partito che ebbe luogo il 21 maggio si erano scontrate la tendenza facente capo a Garibaldi Bosco, favorevole ad una incondizionata adesione al Partito e quella facente capo al catanese Ernesto Scuderi, appoggiata anche dal De Felice Giuffrida che subordinava tale adesione ad un’ampia indipendenza politica ed organizzativa. Alla conclusione dei lavori era stato approvato uno Statuto con il quale le organizzazioni socialiste della Sicilia dichiaravano di “aggregarsi al Partito dei Lavoratori come membri della grande famiglia internazionale dei lavoratori”. Veniva inoltre approvata l’adesione al programma del Partito dei Lavoratori Italiani con un’aggiunta di De Felice che specificava quale compito del Comitato Centrale quello di “attuare le proposte del Partito socialista siciliano e quelle che dal Partito dei Lavoratori Italiani venissero emanate”.

Caratterizzato da minori contrasti fu il Congresso dei Fasci che si svolse il giorno dopo e che, come aveva detto il Bosco, aveva lo scopo di imprimere alle organizzazioni operaie della Sicilia “tale indirizzo da potere i Fasci funzionare regolarmente con programma omogeneo e affermarsi nel principio della lotta di classe e della socializzazione della terra e degli strumenti di lavoro”. Lo Statuto approvato prevedeva la costituzione di federazioni provinciali, sul modello delle federazioni socialiste, che, secondo l’opinione del Bosco, avrebbero dovuto avere il compito di coordinare i Fasci dei centri minori con quelli dei capoluoghi.

Un’importante scadenza batteva intanto alle porte. Nell’estate del 1893 infatti dovevano avere luogo nell’isola le elezioni amministrative. Mentre il Fascio di Palermo, di fronte alla difficolta di sostenere una lista di candidati socialisti, aveva preferito rinunciare alla lotta, in altre citta, come per esempio Catania, Messina, Caltanissetta, Alcamo e Partinico e in alcuni centri minori, come Piana dei Greci, furono presentate alcune liste interamente socialiste che conseguirono un notevole successo. Interamente conquistati furono alcuni Comuni tra i quali San Giuseppe Jato, Aragona e Prizzi.

I risultati di queste elezioni, mentre avevano dato nuova fiducia alle masse, avevano aumentato nello stesso tempo le paure delle consorterie locali che temevano, come conseguenza dell’ingresso dei rappresentanti dei Fasci nelle amministrazioni comunali, la perdita di quell’influenza e di quelle fonti di guadagno (appalti delle strade, delle illuminazioni, delle esattorie e tesorerie comunali, del dazio di consumo, ecc.) che per esse costituivano una ragione di vita. Allarmati erano anche i circoli di corte nei quali predominava l’influenza dell’ultra-reazionaria regina Margherita.

L’ultima parte del 1893 fu quindi caratterizzata da nuove e sempre più dure repressioni. Spesso la polizia insinuava nella folla veri e propri provocatori che, creando artificialmente disordini, davano l’occasione alle sparatorie ed alle retate; a Casteltermini, ai primi di ottobre, un pazzo, già ricoverato in manicomio fu introdotto in una riunione indetta in municipio affinché, arringando la folla, provocasse un tumulto. In ogni manifestazione organizzata dai Fasci, si fosse pure trattato di una semplice scampagnata, la polizia vedeva una manifestazione politica non autorizzata e deferiva i presunti colpevoli ai pretori che elargivano migliaia e migliaia di lire di multa.

Nell’assumere la Presidenza effettiva del II Congresso del Partito dei Lavoratori svoltosi a Reggio Emilia dall’8 al 10 settembre 1893, il Bosco, nel portare il saluto dei socialisti siciliani, aveva accennato alla minaccia di scioglimento che pesava sui Fasci dei Lavoratori. “Il Governo – egli disse – getta in faccia ai lavoratori di Sicilia la sfida, e i lavoratori la raccoglieranno. Sarà una lotta, una tragica lotta, un’ecatombe, ma se la Sicilia dovrà cadere, cadrà ravvolta nella bandiera rossa”.

Verso la fine dell’anno, a conclusione di una lunga lotta, i minatori riuscirono ad ottenere una grande vittoria facendo portare il minimo di salario giornaliero da L. 1,50 a L. 3. Qualche miglioramento fu anche apportato alle tristi condizioni dei “carusi”.

II 15 dicembre 1893 intanto, a Giolitti, costretto a dimettersi in seguito allo scandalo della Banca Romana, era successo Crispi il quale, d’accordo con le direttive regie, aveva quale punto essenziale del suo programma, la lotta contro i socialisti. Egli si pose come primo obbiettivo lo scioglimento dei Fasci che Giolitti, nonostante le pressioni della Corona, aveva fino allora rifiutato. Proprio in quei giorni e precisamente il 10 dicembre gravi incidenti erano scoppiati a Partinico, per istigazione di uno dei Fasci spuri diretti da elementi provocatori; a Giardinello dove una dimostrazione contro l’esosità delle tasse si era conclusa con 11 morti e numerosi feriti; il 17 a Monreale dove una manifestazione contro i dazi era stata repressa a fuoco, con numerosi feriti, ed il 25 dicembre a Lercara dove una dimostrazione contro le tasse era stata egualmente repressa con 11 morti e numerosi feriti. L’incendio si propagò, nei primi giorni del gennaio 1894 a numerose altre località dell’isola. Il 1° gennaio si registrarono, sempre in occasione di manifestazioni contro le tasse, 20 morti e numerosi feriti a Gibellina, 8 morti e 15 feriti a Petraperzia; 2 morti si ebbero il giorno seguente a Belmonte, 18 morti il giorno 3 a Marineo e 13 morti e numerosi feriti il giorno 5 a Santa Caterina Villarmosa. Dovunque la folla manifestava al grido di: Viva i Fasci! Viva il socialismo! e talvolta di Viva il re! Viva la regina! devastando uffici pubblici e caselli daziari. Tutte le vittime furono, ad eccezione di un solo caso, contadini.
Era questa l’occasione attesa dal Crispi per mettere in atto il proprio apparato di repressione; fattosi autorizzare il 25 dicembre dal Consiglio dei Ministri, egli proclamò il 3 gennaio lo stato di assedio nell’isola, inviandovi il generale Morra di Lavriano con pieni poteri.

Il processo ai capi dei Fasci:
Barbato. De Felice, Verro, Ciralli, Pétrino, Bosco, Montalto, Pico, Bensi, Cassisa. Gulì

La sera di quello stesso 3 gennaio 1894 si era intanto riunito a Palermo il Comitato Centrale dei Fasci composto da Felice Giuffrida, Garibaldi Bosco, Nicola Barbato, Bernardino Verro, Giuseppe Montalto, Nicolò Petrina, Francesco De Luca e Luigi Leone il quale, dopo avere respinto quasi all’unanimità una proposta di De Felice Giuffrida di passare all’insurrezione generale, basandosi sul programma del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (4) e sull’opinione contraria dei dirigenti del Partito ad un moto insurrezionale in quel momento, aveva deciso di lanciare un manifesto ai lavoratori dell’isola.
“La nostra isola – esso diceva – rosseggia del sangue dei compagni che sfruttati, immiseriti, hanno manifestato il loro malcontento contro un sistema dal quale indarno avete sperato giustizia, benessere, libertà. L’agitazione presente é il portato doloroso, necessario di un ordine di cose inesorabilmente condannato e mette la borghesia nella necessità o di seguire le esigenze dei tempi o di abbandonarsi a repressioni brutali”. Il manifesto proseguiva presentando un elenco di rivendicazioni che dovevano servire a mettere alla prova “le declamazioni umanitarie della borghesia” tra le quali l’abolizione del dazio sulle farine, l’inchiesta sulle pubbliche amministrazioni della Sicilia col concorso dei Fasci, l’espropriazione forzata dei latifondi, mediante il versamento agli espropriati di una rendita annua che non superasse il 3% del valore dei terreni, la concessione di tutti i lavori delle pubbliche amministrazioni e di quelle dipendenti e sussidiate dallo Stato ai Fasci dei Lavoratori senza obbligo di cauzione ed alcune leggi sociali basate su un minimo di salario e su un massimo di ore di lavoro.

Un manifesto Ai socialisti d’Italia veniva emanato lo stesso giorno dal Gruppo Parlamentare Socialista riunito a Modena.
“I moti dolorosi della Sicilia – esso diceva tra l’altro – non sono fenomeni coscienti della nostra propaganda, non sono manifestazioni ed applicazioni del nostro programma, ma sono gli spasimi sintomatici di profonde ed antiche ingiustizie che noi vogliamo soppresse con la completa rigenerazione sociale. Quale il compito del Governo? Proteggere gli oppressi sopprimendo le cause dell’eccezionale disagio. Ch’e ha fatto? Nulla in passato ed ora nutre di piombo gli stomachi affamati, e fraintendendo ad arte l’opera moderatrice de’ Fasci de’ Lavoratori, aderenti al nostro Partito, ne soffoca con l’arresto dei capi la voce generosa. Quale il compito nostro? A controllare l’azione del Governo, a sollecitare misure di giustizia, a portarvi la parola serena e positiva della nostra fede, due di noi partono per la Sicilia; gli altri restano e vi invitano a lanciare ne’ popolari comizi un grido di protesta alta ed energica, perchè cessi la meditata violenza del Governo e la resistenza nell’ora presente ancor vana degli oppressi fratelli, chiamandoli ad ascoltare l’insistente invito delle loro organizzazioni perché non vadano oggi per l’avvenire disperse 1e forze del Partito che si matura rapidamente nella coscienza del Paese. E sia l’opera nostra di aiuto di eccitamento al Governo per lasciar la via delle violenze e correre sollecito ai provvedimenti che umanità reclama e valga a far tacere le calunnie di chi ci designa provocatori di disordini che solo la necessità delle cose produce, riaffermando il nostro programma che non ne’ moti tumultuosi e sanguinosi, ma solo nella cosciente organizzazione dei lavoratori in partito di classe segna la via della vittoria”. Ma a Gregorio Agnini e Camillo Prampolini che si erano recati in Sicilia il Morra di Lavriano impediva, in omaggio allo stato di assedio, lo sbarco. Ai due deputati non restava che inviare al Commissario per la Sicilia una lettera di protesta contro il sopruso.

Il Partito socialista comunque, nonostante qualche incertezza iniziale dovuta alla diffidenza causata dalla quasi assoluta mancanza di un proletariato industriale nell’isola, solidarizzò col movimento (che però non riuscì a dirigere e a controllare), particolarmente per impulso di Filippo Turati che cosi scrisse nell’articolo Sicilia insorta comparso sulla Critica Sociale del 16 gennaio 1894: “La sollevazione dei contadini siciliani ha in sé, se non la forma, l’anima socialista e presenta almeno la possibilità di insuflarvi quest’anima… Quella che si chiama la questione siciliana non è se non la questione italiana, anzi la questione mondiale dei lavoratori conculcati e derubati dal dominio di classe”.

I1 5 gennaio l’Onorevole De Felice veniva arrestato, nonostante l’immunità parlamentare, il 16 gennaio anche il Bosco, il Verro ed il Barbato erano catturati a bordo del piroscafo “Bagnara”.

II 20 febbraio 1894, con un mese di ritardo, si riapriva la Camera. I deputati socialisti presentarono, a norma dell’articolo 47 dello Statuto, un ordine del giorno nel quale si accusava il Governo di avere violato gli articoli 6,27, 28,70 e 71 dello Statuto stesso.
L’ordine del giorno fu illustrato da Nicola Badaloni il quale, dopo essersi soffermato sulla situazione siciliana (“Non avete creduto alla miseria – egli disse – ma la miseria ha dovuto richiamarvi all’ordine”), accuso il Governo di volere colpire ad ogni costo i socialisti.
“Non avete diritto – esclamò – di chiamarci sobillatori. Le vostre conquiste sono diventate un privilegio. Siete voi fuori della legge”. Il 28 febbraio, rispondendo a questa e ad altre interpellanze presentate dagli Onorevoli Bovio, Cavallotti e Colajanni, il Crispi giustificò lo stato d’assedio ed i tribunali militari, accusando i Fasci di avere preparato un’insurrezione e dichiarando di avere le prove dell’esistenza di un trattato di Bisacquino con il quale i socialisti si erano impegnati a cedere un porto della Sicilia alla Russia ed il resto dell’isola alla Francia. Il Crispi rivelò anche l’esistenza di un manifesto (che risultò poi inventato di sana pianta) emesso in un comune e redatto nei seguenti termini:
“Operai, figli del Vespro. Ancora dormite? corriamo al carcere a liberare i fratelli. Morte al re e agli impiegati! Abbasso le tasse! Fuoco al Municipio e al casino de’ civili! Evviva il fascio de’ lavoratori! Quando le campane dell’Amatrice e del Salvatore soneranno insieme, corriamo al Castello, che tutto è pronto per la libertà. Attenti al segnale”. Dopo questa lettura la voce di Prampolini interruppe, chiedendo: “È firmato?”. “Firmatissimo” – rispose il Crispi senza esitare. La discussione si concluse con la votazione di un ordine del giorno di fiducia al Governo con 342 voti favorevoli, 42 contrari e 22 astenuti. Pure a grande maggioranza fu votata poco dopo la relazione governativa presentata dall’Onorevole Palberti che chiedeva l’autorizzazione a procedere ed il mantenimento della cattura per l’Onorevole De Felice Giuffrida.

Volantino elettorale per la candidatura di De Felice Giuffrida nella campagna elettorale del 1895

Il 7 aprile dello stesso anno si apriva dinnanzi al Tribunale di Palermo il processo contro De Felice Giuffrida, Garibaldi Bosco, Verro, Barbato ed altri dirigenti dei Fasci, accusati di insurrezione armata contro i poteri dello Stato e di incitamento alla guerra civile. Nonostante fossero stati negati agli imputati i difensori civili, essi stessi seppero perorare la loro causa fermamente anche se serenamente e senza iattanza. Il De Felice con parole serene dimostro l’invalidità giuridica del processo; l’avvocato Montalto, anche lui imputato dimostrò come egli, nel suo giornale Il Mare avesse sempre sostenuto che gli assonnati dovevano svegliarsi con la luce e non con il tuono e che, per abolire i dazi, fosse necessario riformare le leggi piuttosto che bruciare i caselli. Il Verro terminò così il suo interrogatorio: “Ad ogni modo sono condannato: datemi dunque pure una condanna maggiore, tanto non sopravvivrò lungamente a tale ignominia. Piuttosto mi si condanni ad una pena unica più decorosa, alla fucilazione… Affronterò sorridendo la morte, unica dea consolatrice, ma almeno si liberino i miei compagni. E voi, amici miei, se un giorno troverete le mie ceneri in qualche bagno penale, ponetevi sopra una pietra con la semplice scritta: Qui giace un innocente”. Il Bosco a sua volta, dopo avere dimostrato in modo inconfutabile la falsità dell’accusa di cospirazione, anche a nome dei compagni: “Se voi vorrete punire non i cospiratori non gli eccitatori, ma i socialisti allora io ed i miei compagni orgogliosi e convertiti delle idee che professiamo, a fronte alta abbiamo il coraggio di gridarvi, colpite!”.

Particolarmente efficace fu l’autodifesa di Barbato che prese la parola per ultimo: “Incomincio col dire – egli iniziò – che è impossibile al povero predicate l’amore pel ricco; il povero non vi ascolterebbe. Se il ricco è contro il povero, e naturale che il povero debba essere contro il ricco. Io non potevo predicate l’amore, perché non sarei stato ascoltato ed avrei quindi lasciato affrettare quello scoppio che io volevo allontanato. Allontanato e non scongiurato; perché io ritengo che sia fatale l’esplosione. Non predicavo amore, dunque; ma non predicavo l’odio. Educavo. Persuadevo dolcemente i lavoratori morenti di fame che la colpa non è di alcuno; è del sistema. Il lavoratore se salisse in alto, sarebbe anch’egli un oppressore, dato l’attuale sistema. Di questo ho voluto persuadere il lavoratore. Perciò non ho predicato l’odio agli uomini ma la guerra al sistema… Il socialismo procede appunto perché non è sentimentalismo: è forza, è pratica. Esso si fonda sulle leggi economiche. E qualunque cosa si faccia da noi, la borghesia dovrebbe esserci grata. Noi rendiamo le forze sociali meno temibili, meno disastrose. Ma tutto questo oggi dalla classe dominante si ignora: ed essa, crescendoci nemici, vuole schiacciarci. Cosi la borghesia fece ammannire dai suoi magistrati incoscienti questo processo. Davanti a voi abbiamo forniti i documenti e le prove della nostra innocenza: i miei compagni hanno creduto di dover sostenere la loro difesa giuridica: questo io non credo di fare. Non perché non abbia fiducia in voi: ma e il codice che non mi riguarda. Perciò non mi difendo. Voi dovete condannare: noi siamo gli elementi distruttori di istituzioni per voi sacre. Voi dovete condannare: e logico, umano. E io renderò sempre omaggio alla vostra lealtà. Ma diremo agli amici che son fuori: Non domandate grazia, non domandate amnistia. La civiltà socialista non deve cominciare con un atto di viltà. Noi chiediamo le condanne, non chiediamo pietà. Le vittime sono più utili alla causa santa di qualunque propaganda. Condannate!”.

Il processo si concluse con la condanna di De Felice Giuffrida a 22 anni di reclusione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed alla decadenza da deputato, di Bernardino Verro e Nicola Barbato a 14 anni, di Rosario Garibaldi Bosco a 12 anni, di Giacomo Montalto a 10 anni, dello studente universitario Antonio Pico a 5 anni, del pubblicista Nicolo Petrina a 3 anni e del commesso viaggiatore Gaetano Benzi a 2 anni. Assolti furono invece Francesco Cassisa, Francesco Paolo Ciralli ed Emanuele Gulì.
Grandi precauzioni furono prese il giorno della sentenza. I condannati, per impedire una manifestazione di simpatia della popolazione che si sapeva preparata, furono fatti uscire da una porticina segreta e riportati al carcere Ucciardone in carrozze da nolo che percorsero strade diverse da quelle solite. Quando la folla ebbe sentore di quanto era accaduto, parecchie centinaia di giovani con garofani rossi si riversarono nella piazza prospiciente il carcere nel quale gli imputati erano pero stati già rinchiusi. Lo studente socialista Aurelio Drago, venuto a diverbio con un ufficiale, fu arrestato. Altre dimostrazioni ebbero luogo all’Università e per le vie della citta dove il Presidente del Tribunale Militare Giussani e gli altri giudici furono sonoramente fischiati.

Più clementi furono le pene inflitte dal Tribunale militare di Messina che per gli stessi motivi, condanno l’avvocato Giuseppe De Stefano Paterno di Ragusa a 2 anni e 7 mesi e Luigi Macchi, direttore de L’Unione di Catania ed il calzolaio Domenico Matisi rispettivamente a sei e cinque mesi mentre assolse Nunzio Caruso, Presidente del Fascio di Regalbuto.

I dibattiti dei processi, diffusi attraverso la stampa, fecero conoscere all’Italia ed all’Estero le condizioni di vita della popolazione siciliana ed i problemi più urgenti da risolvere, per cui come ebbe a dichiarare il Bosco alcuni anni dopo “la questione siciliana come aspetto della questione italiana” era stata posta per la prima volta all’attenzione dell’Europa. Lo stesso Kautsky, in una lettera inviata ai socialisti siciliani scrisse: “La Sicilia è oggi al centro della simpatia e dei pensieri del proletariato internazionale”.

La pressione dell’opinione pubblica a favore dei condannati di quello che il Colajanni giustamente definì “il processo mostruoso” (5), spinse il Governo Di Rudinì succeduto l’11 marzo 1896 al Governo Crispi, travolto dalla disfatta di Adua, a concedere un’amnistia generale a tutti i condannati dai tribunali militari, istituiti in Sicilia nel gennaio 1894. L’anno precedente, nelle elezioni politiche svoltesi il 26 maggio ed il 2 giugno, il Barbato era stato eletto nel V collegio di Milano ed a Cesena, il De Felice Giuffrida a Catania e il Garibaldi Bosco a Palermo.
Avendo la Camera annullato l’elezione dei reclusi, essi erano stati trionfalmente riconfermati il 1° settembre con un trionfale suffragio.

Con la liberazione di De Felice, Bosco, Barbato e Verro si iniziava una nuova fase nella storia del movimento operaio siciliano caratterizzata da un maggiore coordinamento di quest’ultimo con la politica del Partito Socialista Italiano (6). Sarà dai giovani educati dalla gloriosa lotta dei Fasci che usciranno per molti anni i dirigenti del Partito e dei sindacati dell’isola. Cosi come l’azione di propaganda e di educazione politica che i dirigenti dei Fasci avevano compiuto lasciò negli anni seguenti semi duraturi. Per cui si può senz’altro concordare col Romano (7) quando egli afferma che “con i Fasci ha inizio in Sicilia non solo la storia del movimento autonomo di classe dei lavoratori, ma anche la storia del Partito Socialista“.

Bibliografia generale

Rosario Garibaldi Bosco: I fasci dei lavoratori. Loro programmi e loro fini. Palermo, Uffici della Giustizia Sociale, 1893

Salvatore Francesco Romano: Storia dei Fasci Siciliani. Bari, Laterza, 1959

Napoleone Colajanni: Gli avvenimenti in Sicilia e le loro cause. 2a edizione. Palermo, R. Sandron, 1896

Renato Marsillo (pseudonimo di Salvatore Francesco Romano): I Fasci Siciliani. Milano Ed. Avanti!, 1954

Alfredo Angiolini – Eugenio Giacchi: Socialismo e socialisti in Italia, Firenze Nerbini, 1919

Giulio Trevisani: Lineamenti di storia del movimento operaio italiano, vol. II, Milano Ed. Avanti! 1960.

(1) Fascio dei Lavoratori di Palermo, Società di Mutuo Soccorso V. Florio tra gli operai della Fonderia Oretea di Palermo, Società Oretea fra i meccanici della ferrovia di Palermo, Fascio dei Lavoratori di Catania, Fascio dei Lavoratori di Messina.

(2) Rosario Garibaldi Bosco: I fasci dei lavoratori. I loro programmi e i loro fini, Palermo, Uffici della Giustizia Sociale, 1893

(3) Napoleone Colajanni: Gli avvenimenti in Sicilia e le loro cause, 1° edizione, Palermo, R. Sandron, 1896.

(4) Nuovo nome assunto al Congresso di Reggio Emilia dal Partito dei Lavoratori Italiani.

(5) Napoleone Colajanni, Op. Citata.

(6) Tale denominazione era stata assunta al III Congresso del Partito svoltosi a Parma il 13 gennaio 1895.

(7) Renato Marsilio (pseudonimo di Salvatore Francesco Romano): I Fasci Siciliani, Milano Ed. Avanti!, 1954.

Immagine di copertina:
Occupazione delle terre incolte in Sicilia (1949)
Renato Guttuso (1911-1987)
Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda

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