CAMILLO PRAMPOLINI – Il Socialismo evangelico

CAMILLO PRAMPOLINI
In appendice al settimanale La Giustizia, di Reggio Emilia, nei numeri dal 6 marzo al 1° maggio 1887, appaiono sei puntate di un racconto autobiografico di Eros, intitolato Il diritto al lavoro, ossia come diventai socialista.

In esso si legge:
“Ero, o almeno credevo di essere un moderato feroce, e dagli uomini della sinistra storica, allora al potere, venendo giù giù fino ai socialisti – dei quali s’intende, ignoravo completamente le teorie – detestavo con tutta l’anima la radicanaglia d’ogni colore. Quando morì Vittorio Emanuele… non sono ben certo, ma parmi d’aver pianto. Quando il suo successore… salì al trono… io rimasi tre giorni senza voce, l’avevo lasciata in istrada dal gran vociare: Viva il Re…. Quando mi avveniva di incontrare la carrozza reale, sembravami di toccare il cielo col dito nel momento solenne in cui mi era dato di levarmi il cappello ai sovrani… Come si vede, io moderato feroce, ero anche passabilmente imbecille”.
Questo è il giovane Camillo Prampolini (ossia Eros) fino ai vent’anni, quando, come vedremo, frequentando l’Università di Bologna s’imbatté in una proposizione, risolutiva per la sua vita: il diritto di proprietà esclude il diritto al lavoro.
Nato il 27 aprile 1859 a Reggio Emilia (ancora appartenente al Ducato di Modena, dominat dagli Estensi d’Austria) da Luigi Ernesto, capo del Comune, e da Maria Luigia Casali, benestante, termina le scuole secondarie in luogo, avendo già abbandonate totalmente le credenze religiose.
Nel 1877 va a Roma, ospite di parenti, profondamente conservatori e religiosi, per frequentare quell’Università, che lascia, nella primavera del 1878, bocciato in economia politica.
Nel 1879, a Bologna, frequentando l’Alma Mater, nell’enunciazione del professore di filosofia del diritto Francesco Filomusi-Guidi, s’imbatté nello spunto della sua rivolta ideale a cui ha l’animo preparato dalla lunga vita trascorsa tra i poveri contadini di Massenzatico ove è stato ospite per lunghi anni dei nonni materni.
Il docente sostiene che “il diritto di proprietà esclude il diritto al lavoro” e da qui inizia il processo di ricerca e di conquista dei principi economici, politici e morali che portano Prampolini ad abbandonare le precedenti opinioni “accettate… ad occhi chiusi – e per essere più esatto dovrei dire le parole, i suoni sillabici – che si davano per vere nell’ambiente in cui vivevo”.
Eros, narra ancora:
“Quel diritto al lavoro che io conservatore avrei dovuto negare, era proprio lo stesso che mi stava in mente e che in coscienza sentivo invece di ammettere… Negare il diritto al lavoro era per me ammettere il dovere di morire di fame”, sicché, dopo aver considerato le filosofie di tanti uomini illustri e dei “medesimi scrittori borghesi (secondo i quali) il diritto al lavoro porta logicamente seco la comunione dei mezzi di produzione ossia l’abolizione della proprietà privata”, s’avvia decisamente a sostenere la causa delle plebi rurali e dei lavoratori sfruttati, naturalmente, contro il “sacrosanto” diritto di proprietà.
Nel 1882, già laureatosi in giurisprudenza, inizia la vita pubblica (scandalizzando il padre e tutti i benestanti) schierandosi con un gruppo di vecchi internazionalisti, e scrivendo sul settimanale Lo scamiciato, voce del popolo.
Dopo un’altra breve esperienza giornalistica, il 17 gennaio 1886, Prampolini pubblica il primo numero del settimanale La Giustizia, dal sottotitolo Difesa degli sfruttati, del quale è direttore e proprietario e che, per quarant’anni accompagnerà tutta la sua azione politica. Il periodico ha un tipico carattere educativo, propagandistico, di polemica e di volgarizzazione ideologica estremamente piana e comprensibile, traducendo nelle sue righe la parola pacata, il ragionare logico e preciso che Prampolini usa nel corso dell’intensa attività di propaganda fra i contadini. Propaganda alla quale si accompagna un intenso e proficuo lavoro di costruzione di circoli e società cooperative in ogni località della provincia reggiana.
A seguito della sua popolarità il 23 novembre 1890 viene eletto deputato al Parlamento in una lista democratico-socialista, e va ad aggiungersi alla minuta schiera dei rappresentanti socialisti.
Alla vigilia della nascita del partito socialista, sotto la sua direzione, il 31 luglio 1892, esce la Lotta di classe. A Genova, dove, nell’agosto si costituisce il Partito socialista dei lavoratori italiani, scindendosi dagli anarchici, Prampolini rappresenta numerose organizzazioni del reggiano ed è confermato direttore dell’organo del partito.
Nelle elezioni politiche del novembre dello stesso anno, è rieletto deputato per il collegio di Guastalla.

La rapida espansione della influenza socialista, nelle organizzazioni contadine e operaie, nelle elezioni politiche, induce il Ministro Costanzo Cauvet ad additare la Valle del Po come “il punto nero” dell’orizzonte politico d’Italia. Sarà proprio prendendo spunto da questa qualificazione che Antonio Vergnanini, pubblicherà a Reggio, agli inizi del 1894, per qualche mese un quotidiano dal titolo omonimo.

L’intensa attività di Prampolini, fra i lavoratori, attraverso La Giustizia, nel Parlamento (al quale viene rieletto sia nel maggio 1895, sia nel marzo 1897), ha un carattere del tutto particolare e suggestivo, “evangelistico“. L’evangelismo di Prampolini è stato detto corrispondere in termini moderni, ad una concezione del socialismo inteso come filosofia delle masse. Lo sforzo suo, infatti, è stato teso a far intendere ed usare gli insegnamenti socialisti coltivando diffusi sentimenti ed aspirazioni del mondo contadino. Così, recuperando storicamente, con uno sforzo intenso e continuo, il contenuto umano e più avanzato del cristianesimo e diffondendo le idee del socialismo che egli ha abbracciato, suscita un movimento che si pone, nei contenuti e nelle forme, storicamente adeguate, i problemi antichi della giustizia sociale.
Uno studioso dell’azione propagandistica prampoliniana nota che in essa, Prampolini: “rivela una rara penetrazione della psicologia contadina, una sorprendente capacità di aderire ai sentimenti elementari, alle aspirazioni profonde delle grandi masse, di tradurre in un linguaggio semplice ed accessibile, profondamente materiato di motivi sentimentali ed umani, idee nuove che portate a contatto del mondo contadino nella loro originaria formulazione dottrinale troppo gravemente avrebbero contrastato con il tradizionale modo di pensare. Attraverso questo lavoro di mediazione, di adattamento delle nuove idee ai termini concreti della tradizionale psicologia contadina, il socialismo prampoliniano assume quel suo particolare colorito umanitario, quella sua tipica intonazione evangelica che tanti equivoci e fraintendimenti ha determinato in coloro che non hanno colto il significato e l’importanza politica, la necessità e la validità storica (entro certi limiti) di quest’opera di “traduzione”.
La predica di Natale” che appare in La Giustizia, organo dei socialisti emiliani, del 24 dicembre 1897, è il documento più significativo del socialismo evangelico (Il testo della predica viene ristampato più volte in opuscolo, a volte anche con varianti. Una delle prime ristampe è la seguente: Camillo Prampolini, la predica di Natale, Firenze, Editore Nerbini, 1902, pp. 20.).
E questa è la parte centrale del “Predicatore” (come si firmava il Prampolini):
“Ebbene – diceva Gesù ai suoi compagni – noi dobbiamo far guerra a questo doloroso e brutto regno dell’ingiustizia in cui siamo nati; noi dobbiamo volere, fortemente volere il regno di Dio” – cioè il regno della giustizia, dell’eguaglianza, della fratellanza umana; noi dobbiamo persuadere i nostri fratelli che esso è possibile e non è un sogno…
Questo, o lavoratori, questo era il pensiero e questa fu la predicazione di Cristo. Un odio profondo per tutte le ingiustizie, per tutte le iniquità; un desiderio ardente di uguaglianza, di fratellanza, di pace e di benessere fra gli uomini; un bisogno irresistibile di lottare, di combattere per realizzare questo desiderio – ecco l’anima, l’essenza, la parte vera, santa ed immortale del cristianesimo.
Ed ora ditemi; siete voi cristiani? Lo sentite voi questo benefico odio per il male? Lo sentite voi questo divino desiderio del bene? Voi che cosa fate per combattere il male? Che cosa fate per realizzare il bene? Perché – badate amici miei – voi potete andare in chiesa ogni giorno; voi potete ogni giorno confessarvi e comunicarvi; voi potete recitate quante preghiere volete; ma se assistete indifferenti alle miserie e alle ingiustizie che vi circondano, ma se nulla fate perché debbano scomparire, voi non avete nulla di comune con Cristo e i suoi seguaci, voi non avete capito nulla delle loro dottrine, voi non avete il diritto di chiamarvi cristiani…
Ed ora – voi lo vedete – le disuguaglianze e le miserie che egli (Cristo) ha combattuto sono più vive che mai. Mentre pochi godono nel lusso tutti i comodi e i piaceri della vita, e mentre – se la società fosse meglio ordinata – ci sarebbe il modo di star bene tutti quanti, vi sono milioni di uomini che mancano di. pane, d’istruzione, d’educazione, che sono sfiniti dalle eccessive fatiche o mancano di lavoro, che lottano quotidianamente col bisogno e con la fame…”.
Questa “chiave” propagandistica porterà Prampolini a numerose polemiche con autorità della chiesa e periodici cattolici e, infine, il 1° gennaio 1901, alla scomunica, comminata dal Vescovo Vincenzo Manicardi, al direttore, ai redattori, allo stampatore, ai lettori, ai rivenditori de La Giustizia.
Se la “Predica di Natale” costituisce uno dei momenti più alti della particolare azione di penetrazione fra le masse che è un dato caratterizzante della figura di Prampolini, un momento decisivo della storia d’Italia, registra l’atto più clamoroso del parlamentare reggiano.
Dopo la grave bufera reazionaria, seguita ai tumulti per la fame della primavera del 1898, conclusasi con gli spari dei cannoni di Bava-Beccaris e vaste repressioni, il governo di Pelloux, a partire dal febbraio 1899, vuol varare leggi eccezionali tese ad impedire gli scioperi, le attività politiche e la libertà d’associazione. Mentre nel Paese si leva un’ondata di sdegno i parlamentari dell’estrema sinistra iniziano una puntigliosa azione ostruzionistica che, attuando un’osservanza pedissequa del regolamento, prolunga indefinitamente l’iter legislativo, suscitando, nel suo corso, accese battaglie procedurali.
Nella seduta del 20 giugno 1899, l’opposizione, allargatasi ai democratici liberali, chiede la votazione nominale del processo verbale del giorno precedente, a norma del regolamento.
Il Presidente della Camera insiste, arbitrariamente, per passare alla votazione segreta di altre leggi. Ai tafferugli precedenti, succede un fatto singolare: alcuni deputati socialisti, fra i quali è Prampolini, rovesciano ed asportano le urne per il voto, creando un tumulto generale, che provoca poi la chiusura della sessione parlamentare, durante lo stesso giorno.
Nelle settimane successive, Prampolini, appreso che contro di lui ed i suoi compagni (Leonida Bissolati, Oddino Morgari e, Giuseppe De Felice) è stato emesso un mandato di cattura, si costituisce volontariamente a Regina Coeli, il 18 settembre, e poco dopo faranno altrettanto gli altri.
Tornati in libertà tutti e quattro gli imputati, per non aver voluto il Governo affrontare un processo impopolare, Prampolini pubblica il testo della sua autodifesa che avrebbe detto ai giurati.
Questi alcuni brani esaltanti:
“Resistere all’arbitrio non è che una forma di rispetto e di ossequio alla legge; una delle forme più alte e più meritorie, perché esige forza di volontà e sovente anche spirito di sacrificio. Anzi, più ancora che ossequio, la resistenza all’arbitrio è difesa della legge. E questa difesa, signori giurati, è una necessità, un dovere del cittadino; appunto perché dove questa virtù manchi e non sia continuamente in atto, la legge è fatalmente destinata ad essere un nome vano, non vi può essere ordine, non libertà, non sicurezza e l’arbitrio è inevitabile, quanto è inevitabile che l’aria penetri dove trova il vuoto… Ora proprio questa virtù della resistenza manca in Italia, ed è questa precisamente la principale causa di tutti gli arbitri che si lamentano. Bisogna quindi risvegliarla, questa virtù civile, bisogna farla sorgere. E poiché i costumi assai più che con le parole si riformano con l’esempio, noi rappresentanti della nazione, di fronte all’arbitrio evidente della maggioranza dovevamo dare ed abbiamo dato appunto l’esempio della resistenza… Bisogna che la legge abbia finalmente tutto il suo impero, che essa sia veramente rispettata da tutti, dai potenti come dai deboli, dai governanti come dai governati. Liberi tutti di criticarla, di proporne le riforme anche più ardite, utopistiche o pazze o sovversive che dir si vogliano; ma finché essa esiste dev’essere osservata scrupolosamente; e i cittadini hanno l’obbligo di resistere a chiunque non l’osservi, qualunque sia il suo ufficio o il suo grado; sia pure la maggioranza della Camera o Io stesso sovrano”.
Infine il monito centrale a difesa della libertà politica:
“Ed io per mio conto vi confesso, signori giurati, che per quanto mite e ripugnante sempre dei mezzi estremi, se la decisione dipendesse da me, non esiterei neppur davanti alle difese più estreme, piuttosto che lasciar togliere al mio partito la libertà di propagare un’idea che credo vera, giusta, buona, destinata al trionfo e capace di redimere l’umanità da mille miserie e dolori”.
E, dopo aver difeso la legittimità dell’ostruzionismo al decretone:
“Ebbene signori giurati, per tutte le ragioni che vi ho dette, noi deputati, noi rappresentanti di una nazione, avremmo tradito il nostro mandato, saremmo stati dei vili o almeno degli incoscienti, in ogni modo dei pessimi italiani se alla forza brutale del numero che voleva sopraffarci in tal guisa, non avessimo dato in faccia al paese, l’esempio di opporre la forza del nostro diritto e della nostra fede. Quelle urne rovesciate, che sollevarono tanto clamore e che ci auguriamo non siano dimenticate, danno questa lezione al popolo italiano. Resistete agli arbitri! Difendete ad oltranza il diritto! Questa è lezione di libertà, di civiltà, e noi siamo orgogliosi di averla data”.
Con la battaglia dell’ostruzionismo si chiude il decennio reazionario e si apre, dopo le elezioni del giugno 1900 (durante le quali Prampolini è rieletto deputato di Reggio), la cosiddetta “era liberale”.
Vi è infine un terzo momento saliente della vita politica di Prampolini, che è eclatante e concorre, definitivamente a conquistargli l’attributo di apostolo.
E’ il 13 marzo 1902. Prampolini pronuncia un discorso alla Camera in appoggio al ministero “meno peggiore” che è in carica (il ministero Zanardelli-Giolitti, che ha inaugurata “l’età giolittiana”). E’un discorso con voce ed accenti che commuovono parlamentari e pubblico.
Sul finire il parlamentare dice:
“Per conto nostro molti anni di propaganda ci danno il diritto di dire che tutto ciò che era possibile fare per mozzare le unghie della bestia umana e frenare gli impulsi violenti, che l’ingiustizia, la miseria e la fame suscitano nella folla dei lavoratori, noi l’abbiamo fatto e lo faremo ancora”…
La Camera applaude fragorosamente. Il Presidente della Camera, Giuseppe Biancheri, esclama:
“Onorevole Prampolini!…”.
L’oratore, equivocando, crede di essere interrotto e replica:
“Ancora poche parole, Signor Presidente, e poi ho finito”.
Il Presidente Biancheri, commosso, esclama:
“No, no, apostolo di pace, continui in questi nobili sentimenti che onorano lei, l’assemblea e il paese”.
Segue un nuovo fragoroso applauso; il Presidente Biancheri si asciuga le lacrime, Prampolini ringrazia e poi prosegue il discorso.
L’appellativo “apostolo di pace“, che gli resterà poi sempre, ha anche il significato di una qualificazione politica del suo anelito umanitario, del suo riformismo gradualista e legalitario. In tutta la sua opera di costruzione dell’organizzazione dei lavoratori (volta alla redenzione economica ed alla espansione della loro libertà individuale e collettiva) è presente questo marcato suo indirizzo che è analogo nei numerosi suoi collaboratori.
Esso si manifesta particolarmente nella propensione e nella cura data alla organizzazione cooperativa, nella catalizzazione in essa dei fini della battaglia emancipatrice dei lavoratori.
In una lettera ad Andrea Costa, del lontano 1885, indirizzatagli appositamente “per farti una dichiarazione che mi preme moltissimo”, Prampolini scrive (La lettera autobiografica è conservata nel  “fondo Costa” della Biblioteca comunale di Imola. Non reca data; l’attribuzione all’agosto 1885 è del dottor Fausto Mancini, studioso del “fondo Costa” e Direttore della Biblioteca imolese.):
“La Cooperativa di Reggio è una Cooperativa sui generis, di cui non credo vi sia in tutto il mondo terrestre la seconda copia. Secondo me essa è tutta il socialismo, per ciò che riguarda la parte economica della questione sociale. Che cosa vuole infatti? Eccolo: vuole abolire il commercio privato in tutto il comune di Reggio e sostituirvi il commercio collettivo, e cioè un forno, una cantina, una macelleria, una drogheria, una farmacia, ecc., di proprietà collettiva, inalienabile dei Reggiani e amministrata dai Reggiani. Quanto al servizio di rivendita delle merci, che cosa vuole il socialismo più radicale di più di ciò che vogliamo noi dalla Cooperativa di Reggio? Nulla io credo. Una volta padroni del consumo, una volta cioè padroni di quella immensa forza economica che è rappresentata da 5 o 6 negozi differenti a cui si alimentano quotidianamente 50.000 consumatori, sarà per noi una difficoltà ben piccola passare alla socializzazione di tutti gli altri servizi, di tutte le altre funzioni sociali nel comune ed anche nella Provincia di Reggio. Ed è per questa che nella nostra Cooperativa c’è tutto il socialismo. Se potremo riuscire – ed è qui il busillis – a fare il primo passo (abolizione del commercio privato quanto ai generi di prima necessità), noi ci sentiamo sicuri di fare in pochi anni tutti gli altri e di dare il primo esempio di un Comune collettivista”.
Questi sono, negli anni che seguono, i concetti sostanziali, della teoria della Cooperazione integrale, elaborata da Antonio Vergnanini (antico compagno e collaboratore di Prampolini) e sostenuta particolarmente quando, nel 1912, succede ad Antonio Maffi, alla direzione della Lega delle Cooperative.
Prampolini, nel Partito Socialista milita sempre nell’ala riformista; è cioè nell’ala capeggiata da Filippo Turati (il quale, peraltro, fin dal 1881, quando Prampolini era agli esordi, ne fu un estimatore e, dopo, ne divenne grande amico). Così, quando nel partito si forma la corrente comunista (che darà poi vita nel gennaio 1921 al Partito Comunista Italiano), Prampolini è schierato con la Concentrazione socialista.
Nel novembre 1919, quando sale la grande ondata “rossa”è eletto ancora deputato, come lo era stato nelle elezioni del marzo 1909 e in quelle a suffragio allargato dell’ottobre 1913 (solo per un breve periodo precedente, infatti, era decaduto da un mandato che si ripeteva, ormai da 15 anni: nelle elezioni politiche del novembre 1904 – dopo lo sciopero generale nazionale del settembre – fu vittorioso, ma il risultato venne contestato e, nel ballottaggio effettuato il 15 gennaio 1905, fu sconfitto dall’avversario clerico-moderato della “grande armata” per appena 84 voti in meno).
Il 31 dicembre 1920, con un eccidio provocato dai fascisti a Correggio, si scatena la violenza nel reggiano, che segue un tragico crescendo nei primi mesi successivi.
Il 14 marzo 1921 Prampolini e l’amico On. Giovanni Zibordi, sono inseguiti da fascisti e fati segno a colpi di rivoltella fin sulla soglia di casa; e l’8 aprile successivo i fascisti invadono la Camera del Lavoro di Reggio e la Cooperativa Stampa Socialista, distruggendo gli uffici e incendiando le suppellettili gettate sulle strade, quindi, sotto gli occhi di Prampolini, devastano ed incendiano la sede de La Giustizia. Per protesta contro il dilagante terrore fascista, Prampolini e i suoi compagni decidono l’astensione dal voto, per le elezioni del 15 maggio 1921.
Il Partito Socialista (da cui si sono scissi i comunisti) quando l’1 e il 2 ottobre 1922, si riunisce a Roma nel suo XIX Congresso, si divide ancora fra massimalisti e riformisti.
Ad opera di questi ultimi si costituisce il Partito Socialista Unitario, del quale diviene segretario Giacomo Matteotti.
Prampolini aderisce al nuovo partito (che, dando vita ad un quotidiano prende lo stesso titolo del vecchio suo settimanale La Giustizia) ed in esso, svolge attività propugnando la necessità di lavorare ad intese tra le forze politiche affini per la difesa della libertà e della democrazia.
Nelle elezioni politiche dell’aprile 1924, nonostante il clima di terrore instaurato dai fascisti (che proprio in Reggio Emilia vede, il 28 febbraio, l’assassinio del candidato Antonio Piccinini), viene rieletto deputato.
Dopo il rapimento e l’uccisione da parte dei fascisti dell’ On. Giacomo Matteotti, Prampolini diviene uno dei membri più attivi dell’opposizione antifascista dell’Aventino, opposizione che viene spezzata col colpo di Stato fascista del 3 gennaio 1925.
Quando il 5 novembre 1925 il deputato del P.S.U. Tito Zaniboni compie un attentato contro Benito Mussolini, capo del governo, ed i fascisti scatenano una nuova ondata di violenze e di persecuzioni contro gli antifascisti, Prampolini deve sospendere la pubblicazione della sua Giustizia, e poi, esule volontario, deve lasciare Reggio Emilia.
Si rifugia a Milano, ospitato dai compagno di partito, Nino Mazzoni. Per guadagnarsi da vivere lavora nella bottega antiquaria dell’amico, La casa bella, facendo il contabile e finanche il commesso.
Nel 1929 è colpito da un grave male che lo porta a|la morte il 30 luglio del 1930.
Il 1° maggio del 1929, avuta la grave diagnosi della malattia – un cancro al viso – scrisse le sue ultime volontà. In esse tra l’altro, si legge:
“La mia salma, non vestita, ma soltanto avvolta in un lenzuolo, sia trasportata al cimitero, in forma civile, sopra un carro di ultima classe, senza fiori, non seguita dai miei familiari e venga cremata, non sepolta. Né al cimitero, né altrove, nessuna lapide, nessun segno che mi ricordi”.
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Opere consultate: 

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Saggio sulla storia del movimento operaio in Italia, Camillo Prampolini e i lavoratori reggiani (Giovanni Zibordi).
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I vecchi socialisti prampoliniani (Bartolo Bottazzi)
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Camillo Prampolini (Renato Marmiroli)
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I pionieri nelle campagne (Alessandro Schiavi)
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Camillo Prampolini. Rievocazione storica (Renzo Barazzoni)