MUSICA ROCK

All’abbattimento di una tradizione e di una cultura artistica basata sull’Individualità, il novecento musicale extracolto ha portato colpi decisivi. Il grande Pittore, il grande Scrittore o Scultore o Musicista per secoli ha vissuto di luce propria, illuminato dalla sua stessa grandezza, contemporaneamente pianeta e satellite orbitante, favorito in questo dal processo (generalmente lento) di creazione e produzione dell’opera di ingegno. Anche la grande orchestra sinfonica o operistica, apparentemente l’organizzazione creativa più vicina alla concezione odierna di “gruppo”, in realtà è ben altra cosa: estensione funzionale alla genialità e all’attività dell’illustre Autore o del grande Solista. Parallelamente all’avvento della catena di montaggio molte cose sono cambiate anche nella musica. A confondere le carte in tavola ci ha pensato prima il jazz con quel suo strutturarsi in bands con nomi fantasiosi e con l’elaborazione di una struttura sonora che, pur vivendo a volte momenti di grande solitudine, è soprattutto scambio continuo tra i suoi interpreti, necessità di pluralità.

Poi è arrivato il rock (filosofia, industria, ideologia) con un progetto e con spinte non molto diverse da quelle che hanno portato in questo secolo all’affermazione di grandi sport di squadra, in contrapposizione alla tradizione più classica dell’atleta in pedana, solo con se stesso. Così, allo stesso modo del calcio, che ha bisogno di 22 piedi a squadra per essere praticato, il rock vive la sua dimensione principale nel gruppo, anche se, naturalmente, continuano a esistere individualità di spicco, in mancanza di un regolamento che preveda, in caso contrario, calci di rigore e sconfitte a tavolino.
Quindi il rock è collettivo.

Ma con cautela.

Elvis Presley
Il fatto che si faccia risalire tutto a Elvis Presley, cioè all’Individuo per eccellenza, non è solo un incidente di percorso, reso ancora più eclatante perché posto all’inizio di una storia che dura ormai da anni (e destinata a durare ancora per molto); è invece la conferma, se ce n’era bisogno, di come i confini tra individuo e gruppo, tra coscienza di sé e conoscenza degli altri, siano fin troppo sottili per essere applicati secondo categorie fisse, senza tener conto delle molte variabili.
Soprattutto nel caso del rock.
Quella che invece con il rock è cambiata profondamente è la concezione dì un’artista rinchiuso nella sua sfera interiore, le notti trascorse legato al tavolo o alla tavolozza per bloccare l’ispirazione. Difficile legarsi a qualcosa invece quando è il Movimento Scomposto della società occidentale l’ispirazione di un riff chitarristico o di un “trattu-trattu” alla batteria bagnata di sudore. E dal movimento, interno ed esterno, nasce l’incontro, si realizza il riconoscersi per odore, idee, vestiti, motociclette, età, voglia di sbattere la porta di casa e perdersi nella notte. Anche il più solitario degli artisti rock ha trascorsi in gruppi e complessini, ha suonato in jam sessions fino a tarda notte, ha diviso con altri l’intimità di camerini arrangiati alla meno peggio. E se non lo ha fatto, è la solita eccezione che conferma una regola diffusa.
Naturalmente non tutto è perfetto.
Nel gruppo sono nascosti i rischi e le possibilità di ricreare tutte quelle tensioni e quei ruoli sclerotizzati, generalmente riscontrabili in tutte le società e in tutte le famiglie (i due “luoghi” verso i quali il rock si pone come alternativa). Nel gruppo quindi c’è sempre il vanitoso, l’esibizionista, il timido, l’intellettuale, il geloso, il mattacchione, il lavoratore, la moglie e il marito – c’è di tutto un po’.
Rolling Stones

Andare oggi ad analizzare il chi? come? perché? all’interno di complessi passati come i Beatles, Rolling Stones e Who, tre gruppi metastorici del rock (chi era la “moglie” tra Jagger e Richard, chi era il “marito” tra Lennon e McCartney?) è una operazione troppo complessa. Tra chi si è diviso alle soglie di un nuovo decennio (Beatles) chi ha superato la morte (Who) o i settant’anni (Rolling Stones), c’è in comune soprattutto l’esperienza fatta giorno dopo giorno, spesso dall’infanzia, quasi sempre dall’adolescenza. È con i brufoli sul viso che ci si incontra e si decide di provare con il rock’n’roll. Un gruppo è un po’ come il primo amore: si litiga, si tradisce, ci si tira piatti e dischi, i conti sui soldi spesso non tornano, ma alla fine è sempre un primo grande amore e staccarsene definitivamente è impossibile: sono sempre i ragazzi con i quali si è iniziato caricando tutti gli strumenti su vecchie auto prestate, si sono divisi i pochi soldi e spesso le donne, ci si è emozionati al primo applauso, si hanno avuti i primi fischi. Poco importa se alla fine il gruppo è gratificato con dischi d’oro e limousine o se viene assorbito nell’anonimato – anche questo fa parte del gioco.

Insieme ci si difende meglio: rischi e difficoltà vengono divisi, anche i guadagni vengono divisi, è vero, ma è tutto il rock nel suo complesso a contemplare necessariamente la cooperazione sul palco e fuori, in studio di registrazione e nei corridoi della casa discografica: forse più che un’arte sociale è un’arte socializzata. E socializzante. Questo vale per tutti i livelli: dalle superstars ormai plastificate, al complessino che incide i propri “demo-tapes” su un piccolo e scassato registratore (ma ora c’è You Tube…).
A volte qualcosa si rompe, il gruppo si divide. Qualcuno sopporta la solitudine e incide buoni dischi, magari anche belli; altri deperiscono e scompaiono; altri ancora fanno tutto da soli e rifiutano ogni contatto esterno. Ma in tutti rimane il rimpianto per il passato e tanta malinconia.

Anche questo è rock.