FRANCISCO GOYA e i ROMANTICI a ROMA

 

Autoritratto di Goya (1815)

Ho tratto lo spunto per questa pagina su Goya da una recensione fatta da Giovanni Battista Angioletti (Milano, 27 novembre 1896 – Santa Maria la Bruna, 3 agosto 1961) è stato un giornalista e scrittore italiano.

L’autore, prendendo lo spunto da un soggiorno a Roma del grande pittore spagnolo, paragonandolo ad un suo amico pittore, morto giovanissimo, vuole dirci che anche ad un pittore del talento dello spagnolo è stato impossibile cogliere il vero volto, sempre sfuggente e mutabile, della città, anche a lui che fu in grado di cogliere la più drammatica realtà del suo Paese; ciò è stato possibile solo ai registi cinematografici neo-realisti del dopoguerra.
Francisco Goya (1746-1828 – pittore ed incisore spagnolo, fu in Italia nel 1770; ritornato in Spagna, trasferitosi a Madrid, fu pittore di corte sotto Carlo IV e Ferdinando VII; di tendenze liberali, dopo i moti del 1820, fuggì in Francia, dove morì) era venuto a Roma nel 1769, per sottrarsi alle conseguenze di una sanguinosa avventura personale; e se ne tornò a Saragozza quattro anni dopo, rimpatriato in gran fretta dal suo ambasciatore in seguito ad un nuovo malanno: il rapimento di una giovane trasteverina.
Nel frattempo, il soggiorno romano era stato un susseguirsi di risse, di serenate sotto i balconi, di scorribande notturne; e dipingere, il meno possibile, più per forza che per amore.
Certo, a Roma il giovane spagnolo ebbe modo di impadronirsi di un mestiere nel quale gli Italiani dettavano ancora legge, ma la città non era fatta per un temperamento come il suo, esuberante, sempre portato a drammatizzare, a indignarsi, a commuoversi.
Qui la sola tragedia visibile era suscitata dalla bellezza che si logorava, si sgretolava senza tuttavia scomparire del tutto, perché sempre le si poneva accanto qualcosa di somigliante e anzi di più imponente.
Dalla Roma dei Cesari a quella dei Papi era stato tutto un ingrandirsi, un gonfiarsi dei medesimi motivi stilistici, passando dal sobrio al solenne, dal grandioso al fastoso; sicché dal Pantheon (tempio romano, fatto costruire da Agrippa, genero di Augusto, in onore di tutti gli dei) a San Pietro non c’era frattura, né si poteva scorgere il segno di una rivoluzione.
L’eternità di Roma era assicurata da quel suo rimaner fedele ad ogni costo, perfino attraverso le allucinazioni barocche (il barocco è uno stile, caratteristico del ‘600, particolarmente pomposo, eccessivo, stravagante: l’architettura romana ne fu molto influenzata, tanto che Roma resta una città prevalentemente barocca), agli antichissimi canoni.
E Goya era invece un romantico, un novatore, convinto che l’uomo doveva essere liberato da ogni tirannia, non esclusa, anzi fra le primissime, la tirannia estetica.
Aveva detto che “il sonno della ragione produce mostri”. Ma non certo a Roma, dove la ragione dormiva sempre con un occhio solo, bene attenta a mantenere intatta la propria gravità; e il giovane pittore non sarebbe mai riuscito a cogliere la città in fallo, neppure in un giorno di carnevale o di sommossa: ché in breve ora tutto tornava placido, tutto riassumeva quell’apparenza magnanima che inebriava di sé perfino i quartieri popolari, tra il salmodiare delle processioni e la studiata dignità dei nobili e dei prelati.
Quando poi non poteva far a meno di sfogarsi e chiamar le cose col proprio nome, Roma usava il dialetto: un modo anche questo di escludere lo straniero da ogni confidenza sincera.
Non rimaneva allo Spagnolo, dunque, se non distruggere in sé ogni ricordo di colonne e di archi; e, tornato in patria, affidarsi tutto al proprio genio per scoprire l’uomo nella sua solitudine e nella sua miseria, nelle sue debolezze e perfidie e torture.

Divenne, sì, pittore di corte, presidente dell’Accademia, ritrattista ricercatissimo; ‘ma era l’inevitabile scotto che doveva pagare affinché lo lasciassero libero nel suo più segreto lavoro, e così passassero quasi di contrabbando i Capricci, i Disastri, e quelle grandi tele narrative che dovevano aprire la strada a tanta pittura moderna.

Fucilazioni del tre maggio – Francisco Goya
Una strada che porterà dalla Maja desnuda alle Fucilazioni del tre maggio, ma passando sempre lontano da Roma: dove la storia continuava ad assumere in pittura le parvenze del melodramma e in poesia si ammansiva nell’epica popolaresca.
Eppure, qualche decina d’anni fa un pittore italiano (a questo punto l’autore si lascia prendere dal ricordo di un suo amico pittore, il maceratese Gino Bonichi, detto Scipione (1904-1933) morto giovanissimo di tisi) era riuscito a spezzare, con una violenza simile a quella di Goya, l’incantesimo classico, per darci finalmente una Roma viva, vibrante, perfino tragica.
Anche fisicamente assomigliava al grande spagnolo: il volto largo e aperto, lo sguardo dritto, che partiva dagli occhi meravigliati e tuttavia attenti ad ogni mossa, ad ogni apparizione; il collo corto e robusto, e in tutto il corpo una solidità che purtroppo era più apparente che non reale: ché entrambi erano corrosi dal male, e se Goya poté dominarlo, e anzi trarne maggior potenza d’ingegno, Scipione ne fu condotto ancora giovanissimo alla morte.
Anche si somigliavano per il calore vitale, per il prepotere dei sensi e l’ansia tormentosa di domarli, infine per quel bisogno di liberarsi dalle convenzioni e snidare la verità ovunque fosse andata a celarsi.
Non stupisca il raffronto.
Scipione morì a ventinove anni, nell’età in cui Goya non era ancora Goya, ma un ottimo pittore sempre in cerca della propria fisionomia.
Scipione, certo, aveva inteso la lezione dei maestri, non escluso fra questi lo spagnolo, ma già il suo stile particolare si avvicinava alla potenza e lo avrebbe portato molto lontano.
Noi, che lo abbiamo conosciuto, non potevamo dubitarne, noi eravamo sicuri che egli, interprete delle nostre speranze e dei nostri furori; avrebbe messo finalmente a nudo il cuore della nostra generazione, così come Goya aveva denudato il cuore della Spagna.
Qui l’autore ricorda certe notti passate insieme all’amico pittore, in piazza del Popolo (celebre e bellissima piazza di Roma, ancor oggi punto d’incontro di artisti e poeti).
Ognuno di noi faceva volare a proprio modo gli angeli, emblemi della nostra insofferenza per la fallace realtà terrena (i discorsi degli amici erano di condanna e d’irrisione per la grandezza, ormai divenuta fastidiosa, della grande città: l’autore risolve questo loro senso di ribellione e di insofferenza nell’immagine degli angeli, che adornano tanti monumenti e tante chiese di Roma, lanciati in aria), ognuno escogitava inferni sulla propria misura, forzava la città che ci ospitava a svelare un suo disperato lirismo (l’essenza poetica della città, difficile da rappresentare).
Ma gli angeli di Scipione erano i più ‘veri’, erano gli angeli di pietra che abbandonavano i ponti sul Tevere per imporre un brivido di stupore ai placidi cittadini (questi giovani poeti e pittori vogliono scandalizzare e impaurire i gretti borghesi: un celebre quadro ha per tema infatti gli angeli che abbandonano i ponti e si precipitano contro gli abitanti di Roma), le Apocalissi (altro quadro di Scipione, raffigurante la fine della città) più probabili erano le sue, con quegli uomini nudi, color del fuoco, che correvano verso mete oscurissime, terrorizzanti; e la città più trasfigurata era la sua, questa Roma non mai prima dipinta, con le statue divincolantisi tra le spire del vento, i gracili obelischi, i tritoni e le sirene di biacca, le cortigiane obese sdraiate tra corvi, pettini, tartarughe, piovre (altra allusione a terni ed aspetti dei suoi quadri).
Talvolta, mentre stavamo seduti a fantasticare sull’orlo della vasca, nella grande piazza deserta, Roma ci concedeva qualcuno dei suoi spettacoli più rari: come quei meravigliosi temporali dalle scariche secche e strepitose tra cupola e cupola, e il subito diluviare sulle mattonelle fumanti del lastrico; o l’aprirsi di una finestra all’alba, e una donna che si affacciava con i capelli sciolti sulle spalle, quasi a suscitare l’inquieto, avido sorriso di Scipione, già pronto a tramutarla in una baccante infuriata sotto Io scoccare di larghe saette, tutte a pezzi e segmenti, in un cielo di zolfo e d’amaranto (baccanti erano le invasate sacerdotesse del dio Bacco: altro quadro, rappresentante una donna romana dai lineamenti stravolti come quelli di una baccante).
Scipione aveva ben capito che il demoniaco, a Roma, non si poteva esprimere nell’orrido, nel mostruoso, ma in quello scomporsi degli atteggiamenti solenni, in quel decadere e corrompersi della venustà, della magniloquenza. E se il grandissimo Goya giunse all’audacia di raffigurare la famiglia reale di Spagna (una delle più celebri pitture dello spagnolo) senza la minima adulazione per nessuno, anzi accentuando il grottesco dei volti, il nostro perduto amico ebbe da solo il coraggio di ritrarre principi e cardinali al limite estremo della loro dignità, già come mummificati in una grandiosa decrepitezza.

Fu un gesto rivoluzionario, compiuto in una città che ignorava o addomesticava tutte le rivoluzioni.

Poi Scipione scomparve, gli anni passarono, diventò così vasta da perdere, con la solennità, la propria magia.
Non fu più la città di poeti e pittori classici o romantici; fu la città dei registi cinematografici di tendenza neorealistica del dopoguerra spintisi con giovanile baldanza nelle periferie, a cercarvi un’ormai smascherata umanità, una tendenza che mira a rappresentare la realtà nella sua cruda evidenza.
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Maja vestida – Francisco Goya
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