L’ORIGINE DELLA SPECIE – Charles Darwin

L’origine delle specie (titolo completo: Sull’origine delle specie per mezzo della selezione naturale o la preservazione delle razze favorite nella lotta per la vita), del naturalista inglese Charles Darwin, è una tra le opere cardini nella storia scientifica, e indubbiamente una delle più eminenti in biologia.

Siamo nel 1859. . . Apparentemente lontana le mille miglia dal continente europeo, l’Inghilterra vittoriana fiorisce solitaria ed austera nel suo “splendido isolamento”. In piena espansione i suoi domini coloniali, superata la crisi della rivoluzione industriale, costituitasi una ricca borghesia, che si era imposta una sua norma di vita, una sua morale alquanto chiusa e bigotta, su rigidi principi puritani, l’Inghilterra sembrava l’isola felice, destinata a procedere verso un futuro sempre più sereno e glorioso.
Improvvisamente la buona società vittoriana – quella, per intenderci, in cui non era opportuno nominare le gambe, neanche quelle del tavolo, quella in cui non era ammesso il minimo accenno al denaro, agli affari, di fronte alle signore – fu scossa da un fulmine, seguito da un lungo brontolio di tuoni.
Il 24 novembre 1859 l’editore Murray di Londra pubblicava un libro: L’origine delle specie per opera della selezione naturale di Charles Darwin. L’intera edizione di 1250 copie fu venduta in quello stesso giorno.
Non era mai accaduto prima che una teoria scientifica riscuotesse un così immediato successo di pubblico. Le edizioni si susseguirono rapidamente e nel 1885 il libro di Darwin, raggiunte le 28 000 copie in Inghilterra, era stato tradotto nelle lingue di tutti i paesi.
Nei circoli scientifici, nelle università, ma anche nei salotti borghesi e sulle pagine dei giornali, darwinisti entusiasti ed antidarwinisti accaniti si combattevano aspramente, scambiandosi scomuniche e accuse roventi. La teoria di Darwin, evidentemente, colpiva a fondo l’immaginario collettivo, cioè il modo di pensare se stesso e il mondo, tipico dell’uomo di quell’epoca, dando forma a desideri di novità e scuotendo certezze consolidate.
È alla riflessione su questo tema (non certo ad un’analisi dell’evoluzione dal punto di vista scientifico) che sono dedicati i materiali di questa unità.
In primo luogo è però necessario riassumere brevemente i termini del problema.
Una teoria scientifica è un insieme coerente di proposizioni che serve a spiegare dei fenomeni osservabili. Nel caso della teoria dell’evoluzione, una parte di questi fatti era da sempre sotto gli occhi di tutti: l’enorme varietà delle forme degli organismi viventi; l’esistenza di infinite differenze ma anche di grandi affinità tra specie diverse e tra individui della stessa specie; l’ordine e l’equilibrio della natura.
Altri dati erano stati messi a disposizione dai recenti sviluppi dell’osservazione scientifica: l’embriologia aveva evidenziato le grandi somiglianze e le successive differenziazioni nello sviluppo degli embrioni di diversi animali; la paleontologia aveva scoperto l’esistenza, attraverso i fossili, di specie estinte o radicalmente trasformate; la biogeografia aveva catalogato le variazioni tra individui della stessa specie in contesti ambientali diversi. Mancava però una teoria che fornisse un’interpretazione unitaria di questi fatti, collegandoli fra loro in un quadro esplicativo.
Le grandi impostazioni teoriche che Darwin aveva di fronte erano sostanzialmente due: il creazionismo fissista e il trasformismo lamarckiano.
La prima impostazione, dominante da secoli, negava la possibilità di qualsiasi trasformazione ed evoluzione nell’ordine naturale (di qui il termine fissismo): le diverse specie viventi sono in ogni tempo quelle che la mente di Dio ha concepito all’atto della creazione e tali resteranno finché esisterà il mondo.
Compito della scienza è descriverle con la massima precisione possibile, ricostruendo con il pensiero il meraviglioso ordine che Dio ha imposto alla natura. Un ordine gerarchico, in cui gli organismi viventi sono disposti come su una scala che va dal meno perfetto al più perfetto, l’uomo. Nessuna specie può mutare le sue caratteristiche strutturali, né salire o scendere i gradini di questa scala. Le variazioni che si riscontrano fra gli individui sono inessenziali, dovute a fattori occasionali, e dunque non sono tali da menomare l’immutabile perfezione del creato.
Questa teoria si fondava su formidabili “autorità”: la filosofia naturale del grande Aristotele e le parole della Bibbia, ove si trova descritta la creazione del mondo e delle specie ad opera di Dio e l’attribuzione ad esse dei nomi per bocca di Adamo.
Era questo il quadro concettuale all’interno del quale operavano i biologi e i naturalisti all’inizio dell’Ottocento: su questa base il grande Linneo aveva costruito, alla metà del secolo precedente, una descrizione del mondo vivente così completa e precisa da essere largamente utilizzata ancora oggi.
L’altra impostazione, il trasformismo, venne compiutamente teorizzala dal naturalista francese J. B. Lamarck (1744-1829) agli inizi dell’Ottocento.
Il mondo naturale – sostiene Lamarck – non è statico, ma dinamico: in esso hanno luogo continue mutazioni. Le specie si trasformano per l’influenza esercitata dall’ambiente sugli individui: ogni individuo tende infatti ad adattarsi all’ambiente che lo circonda, sviluppando gli organi più idonei a tale scopo e atrofizzando quelli inutili o nocivi. I caratteri così acquisiti si trasmettono ereditariamente ai discendenti della stessa specie determinando, nel lungo periodo, le grandi trasformazioni che si possono osservare. Ciò avviene perché esiste in ogni individuo una “forza evolutiva” che spinge la specie ad un sempre maggiore perfezionamento.
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Nonostante i limiti che vennero subito rilevati (la puerilità degli esempi, lo scarso rigore dell’osservazione, la presenza di ipotesi filosofiche non dimostrate) la teoria di Lamarck ebbe un’importanza decisiva, riconosciuta dallo stesso Darwin, che pure ne contestava la validità scientifica. Tale importanza risiede nel tentativo di interpretare i fatti, senza limitarsi a descriverli e ordinarli; nel concepire il rapporto fra organismo e ambiente come un rapporto dinamico, in cui hanno luogo cambiamenti; nel dilatare la scala temporale al cui interno valutare i fenomeni naturali (già alla metà del Settecento il geologo francese Buffon aveva ipotizzato in circa 100 000 anni l’età della terra, cifra allora considerata elevatissima rispetto ai 6000 anni indicati dalla Bibbia e generalmente accettati).
Tuttavia la teoria di Lamarck venne sostanzialmente respinta dalla comunità scientifica e l’evoluzionismo – a parte alcuni casi isolati, come lo stesso nonno di Darwin, Erasmus – non trovava credito in campo biologico nella prima metà del secolo. Le ipotesi degli evoluzionisti erano per lo più considerate fantasiose e prive di rigore scientifico, non sorrette da documentazioni precise e verifiche attendibili.
Il primo merito di Charles Darwin (1809-1882) fu proprio quello di raccogliere un’enorme mole di dati e di prove con i quali fondo e avvalorò l’ipotesi evoluzionista.
Nel 1832 Darwin si imbarcò sul brigantino Beagle, incaricato di un viaggio scientifico intorno al mondo: nei cinque anni di navigazione egli compì minuziose osservazioni sulla flora e la fauna dell’emisfero meridionale, annotando ogni cosa nello splendido Viaggio di un naturalista intorno al mondo, pubblicato – senza avanzare alcuna ipotesi interpretativa – nel 1839.
Per altri vent’anni, in patria, lo scienziato lavorò intorno alla sua teoria, parlandone solo agli amici più fidati. Solo nel 1859 si decise a divulgarla, pubblicando l’Origine delle specie.
La teoria, in sostanza, consta di due parti: il principio dell’evoluzione delle specie e la legge della selezione naturale.
Darwin afferma che il mondo naturale conosciuto è il risultato di un’evoluzione durata centinaia di milioni di anni.
L’infinita varietà riscontrabile nel mondo vivente è frutto di un lento processo di differenziazione a partire da poche forme originarie, nel corso del quale alcune specie hanno modificato i propri caratteri, altre sono scomparse, altre ancora sono nate. La natura è così attraversata da un continuo mutamento evolutivo che ne trasforma incessantemente il volto.
Il punto di vista di Darwin è dunque dinamico: quello che interessa nei fenomeni e ciò che cambia, non ciò che permane; le differenze, più che le somiglianze. Questo però pone subito un problema: fornire una legge che spieghi il cambiamento.
Questa legge è la selezione naturale. Gli individui, in ciascun ambiente, sono in competizione fra loro e con quelli delle altre specie. La posta di questa competizione, o lotta per l’esistenza, è la sopravvivenza, perché la popolazione di ogni specie è sempre in eccesso rispetto alle risorse fornite dall’ambiente. In questa lotta, ogni individuo agisce e reagisce in modo diverso dagli altri, perché ogni individuo è diverso dagli altri.
Alcuni individui riescono a dare una risposta migliore al problema posto dall’ambiente, cioè mostrano una maggiore capacità di appropriarsi le scarse risorse e di “reinvestirle” nella produzione di figli. Col trascorrere del tempo la popolazione si arricchirà sempre di più della variante dotata delle maggiori capacità riproduttive e la specie subirà così un progressivo cambiamento; le varianti meno “adatte” si riprodurranno di meno e tenderanno quindi a scomparire.
L’evoluzione è vista così come un processo di interazione fra ciascun individuo, gli altri individui e l’ambiente circostante. Con il variare di questo rapporto variano anche i risultati del processo. Ma se questa è la legge che governa l’evoluzione degli animali e delle piante, perché non dovrebbe valere anche per l’uomo?
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Charles Darwin