GIOVANNI VERGA – Vita e opere

GIOVANNI VERGA

Uno degli scrittori veristi tra i più validi narratori della vita degli emarginati del suo tempo è indubbiamente Giovanni Verga. È il primo che si accosta al mondo degli umili – così distante da lui – con l’intenzione di capirne la cultura e la civiltà, senza avere la pretesa di insegnare loro qualcosa, come aveva fatto Manzoni.
Verga nacque a Catania nel 1840, da famiglia nobile e benestante. Compì i primi studi nella città natale e iniziò molto giovane a redigere le prime opere letterarie di intonazione patriottica: Amore e patria.., I carbonari della montagna e Sulle lagune. In seguito, dal 1865 al 1872, si trasferì a Firenze, allora capitale del Regno d’Italia, e pose mano a due romanzi improntati al Romanticismo passionale: Una peccatrice (1866) e Storia d’una capinera (1871).
Soggiornò quindi a Milano, dove rimase fino al 1893, ed entrò in contatto con gli intellettuali più famosi del tempo. Fra questi conobbe Luigi Capuana, che aveva portato in Italia le nuove idee letterarie elaborate dal Naturalismo francese.
Fra i frequentatori dei salotti letterari milanesi vi erano anche scrittori ed artisti che appartenevano al movimento della Scapigliatura, che si opponeva recisamente ai modelli e alla mentalità borghese e aspirava a un profondo rinnovamento della cultura romantica e post-risorgimentale. Dopo aver scritto altri romanzi di facile successo presso il pubblico dell’epoca (Eva.., Tigre reale.. ed Eros), stimolato da Capuana e influenzato dagli scapigliati, Verga decise di cambiare tematiche e linguaggio. Nacque così, dalla collaborazione tra Verga e Capuana, la teorizzazione del Verismo. Dopo questa conversione lo scrittore si volse a descrivere il mondo della provincia siciliana, con tutti i problemi sociali, economici e culturali che si ponevano all’attenzione della classe dirigente dopo l’Unità. Mutò anche il linguaggio, che non doveva più essere convenzionale ed elegante, ma doveva aderire alla realtà degli emarginati, rappresentandoli con obiettività.
Verga progettò così il ciclo dei Vinti, che nell’arco di cinque romanzi avrebbe dovuto descrivere il fallimento di tutte le ambizioni umane in ogni classe sociale. In realtà solo i primi due romanzi del disegno vennero portati a compimento: I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1889). Tuttavia queste prime opere veriste furono accolte con grande freddezza dal pubblico, cosi come le due raccolte di novelle, che risalgono all’epoca milanese: Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883). Verga fu anche autore teatrale; tra i drammi si ricorda quello più fortunato, Cavalleria rusticana (1884).
Ritornato a Catania nel 1893, Verga vi rimase fino alla morte, avvenuta nel 1922. Nell’ultima fase della sua vita si esaurì la vena letteraria che era stata cosi feconda fino al 1890; lo scrittore non fece altro che ripetere tematiche già trattate in precedenza, chiudendosi in un isolamento pessimistico e assumendo una posizione sempre più reazionaria.
Nel 1874 con la redazione della novella Nedda lo scrittore aveva inaugurato un nuovo genere letterario, su .cui continuò a cimentarsi in seguito. Il racconto era rivoluzionario per diversi motivi: lo stile appariva nudo ed essenziale, finalizzato a rappresentare una vicenda senza lieto fine o riscatto sociale, d’argomento “umile”: la storia di una misera raccoglitrice d’olive siciliana.
La novella diede avvio alla nuova stagione verghiana, che trovò espressione più matura nel romanzo I Malavoglia, primo del ciclo dei Vinti.
Redatto nel 1881, esso è la prima opera in cui la povera gente parla e agisce come nella vita autentica di tutti i giorni, senza che vi sia più il filtro mediatore e paternalistico dell’autore. L’azione si svolge ad Aci Trezza, un borgo di pescatori della Sicilia, negli anni dal 1863 al 1876 e ha per protagonista la famiglia Toscano, detta dei “Malavoglia”. Essa è composta da padron ‘Ntoni, dal figlio Bastianazzo, sposato con la Longa, e dai suoi cinque figli.
La loro vita modesta ma dignitosa sotto la guida patriarcale di padron ‘Ntoni, improvvisamente è scossa da una disgrazia: Bastianazzo perisce con la nave e un carico di lupini durante una tempesta. Dopo questa prima sciagura, la famiglia è travolta da una sventura dopo l’altra: uno dei figli muore in guerra, un altro si perde nel contrabbando e finisce in carcere, una figlia va in città ed è coinvolta in amicizie poco pulite. Rimangono solo Alessi e Mena che, dopo la morte del nonno, seguendo i suoi insegnamenti, riescono a riscattare la casa natia, venduta per debiti.
Dedicata al mondo dei “primitivi” e caratterizzata da una morale pessimistica, è anche la raccolta di novelle Vita dei campi (1880), tra cui spiccano i racconti La lupa…, Jeli il pastore.., Rosso Malpelo. Invece ambientata in un contesto storico-sociale più evoluto è la raccolta successiva, Novelle rusticane (1883), tra cui si ricordano Libertà.., Malaria.., La roba.
Romanzo di costume, di impianto narrativo più vasto de I Malavoglia, è la seconda opera del ciclo dei Vinti, Mastro don Gesualdo (1889). Esso descrive la vicenda di un contadino, Gesualdo che, attraverso il lavoro e il buon senso degli affari riesce ad arricchirsi, tanto da poter sposare una donna di nobili origini, la duchessa di Leyra. Ciò gli permette di fregiarsi del titolo di “don” ma è, al contempo, l’inizio della sua decadenza. Infatti il nobile casato lo condurrà alla rovina morale e materiale e Gesualdo finirà per spegnersi, ormai vecchio e abbandonato, a Palermo, deriso dalla servitù.
Tutto il romanzo ruota intorno a un’umanità condizionata dal denaro e condannata alla solitudine e all’incomprensione, descritta in modo implacabile e lucido, fedele ai principi veristici.
Con Mastro don Gesualdo si esaurisce il ciclo dei Vinti; dopo aver parlato dei miti della famiglia e della “roba”, Verga conclude la sua migliore stagione letteraria, lasciando ai successori le opere migliori del realismo italiano.

 

La visione sociale di Verga nei Malavoglia

Attraverso la vicenda dei Toscano nei Malavoglia, Giovanni Verga tratteggia il mondo sociale di Aci Trezza, con i suoi ritmi, i suoi problemi e le sue speranze. La morale che emerge dal romanzo è estremamente pessimistica: i Malavoglia falliscono nel loro tentativo di riscatto sociale, perché, per Verga, il mondo è regolato da leggi inesorabili che non possono essere violate, per cui gli umili restano ancorati alla loro condizione, senza ambire ad alcun miglioramento. L’autore trae quindi una conclusione di segno negativo poiché, essendo di origine borghese e di idee alquanto conservatrici, egli non riponeva alcuna fiducia nel progresso sociale e nella possibilità di riscatto da parte degli strati più poveri della società.
Questa posizione scettica, tuttavia, ha permesso all’autore di dare una rappresentazione oggettiva e realistica degli emarginati del suo tempo, con mirabili schizzi d’ambiente e ritratti di carattere, cercando di rispettare il principio dell’impersonalità dell’arte. infatti, nel romanzo, tutto è raccontato dal personaggi che parlano in forma diretta o indiretta, utilizzando immagini, vocaboli e modi di dire del dialetto siciliano, che talvolta Verga addolcisce e rende simile all’italiano per far si che il romanzo sia leggibile.

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