LIBERTÀ – Giovanni Verga


LIBERTÀ

[da NOVELLE]

Questa novella di Verga generalmente esclusa dal circuito delle letture scolastiche perché ritenuta troppo violenta (come se i mass-media e la realtà non ci mettessero giornalmente sotto gli occhi la Violenza) illustra un aspetto del Risorgimento che la tradizione celebrativa e agiografica ha preferito ignorare.
Durante la spedizione dei Mille, in vari paesi della Sicilia contadini e braccianti tentarono di dare pratica attuazione ad un proclama di Garibaldi che aveva ordinato la divisione delle terre comunali. Ne nacque uno scontro: da un lato ci fu l’opposizione rigida dei galantuomini (cioè i borghesi, i proprietari terrieri), dall’altro la violenza delle masse contadine che pensavano di rifarsi di una vita di miseria e di sopraffazioni. Si giunse a fatti di sangue anche molto gravi. A Bronte (vicino a Catania) dal 2 al 5 agosto 1860 la rivolta contadina si tradusse in saccheggi e uccisioni. Intervenne tempestivamente Nino Bixio con le truppe garibaldine e riportò l’ordine: parecchi rivoluzionari li fece fucilare, altri ne fece arrestare.
Il processo per i fatti di Bronte si trascinò per tre anni e, degli imputati, venticinque ebbero l’ergastolo, uno vent’anni di lavori forzati, due dieci anni, cinque dieci anni di semplice reclusione.
A differenza di tanti altri episodi simili e contemporanei, i fatti di Bronte hanno trovato un Verga che li ha salvati dall’oblio con queste pagine di grande livello artistico certamente ma, per varie ragioni, complesse e problematiche.

La novella è composta di tre giornate e di un epilogo. Si apre con la giornata del sabato, che è quella dell’improvvisa rivolta e del lungo eccidio. Succede la domenica, e i villani, perplessi e sbigottiti, fanno capannello sul sagrato e cominciano a calcolare sospettosamente quanta terra toccherà a ciascuno. Il lunedì arriva Nino Bixio coi garibaldini e si procede all’esecuzione sommaria di alcuni rivoltosi. Dopo incomincia il lunghissimo processo, che dura tre anni e manda in galera un mucchio di gente.
È questo il solo scritto in cui il Verga affronti il motivo risorgimentale dei Mille.
E coerentemente con il mondo etico-artistico dello scrittore, protagonista non è l’epopea garibaldina, ma è invece la vendetta degli oppressi. Ai garibaldini è assegnata solo una parte secondaria, e non hanno nulla di eroico. Arrivano quando il paese è già calmo; e i contadini, già virtualmente vinti, già tornati alla loro naturale passività, si lasciano prendere come pecore. Il Verga, che come patriota italiano ama i garibaldini, costretto dalla realtà oggettiva dei fatti a ritrarli in una circostanza così ingrata, così diversa dalla loro missione, si preoccupa di presentarli nella luce più benevola; e perciò lascia nella loro rappresentazione qualche cosa di convenzionale, una mal dissimulata unzione, e soprattutto non ci fa assistere alla fucilazione degli insorti, che non si vede, ma si sente, e termina con quella frase così strana: “Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa”. Stranissima frase,
densa di significati, i quali non tutti possono tornare a gloria dei garibaldini.
La parte di maggiore impegno, la più ricca di drammatica potenza e una delle pagine più grandi del Verga, è quella della prima giornata. Dal grido iniziale di viva la libertà, fino a quella chiusa col paese tornato silenzioso, e i cani che rosicchiano le ossa degli uccisi, e il chiaro di luna che lava ogni cosa e mostra spalancati i portoni e le finestre delle case deserte, tutto quest’episodio costituisce un’unità in se stessa conchiusa e perfetta. […]

Per il Verga quei rivoltosi erano sì ciechi e sanguinari; ma rimanevano pur sempre strumento della libertà. E c’era qui internamente postulato il pensiero che solo agendo sul terreno economico, e rendendo giustizia ai contadini defraudati, si potevano concretamente gettare le basi della libertà in Sicilia. Tutto il resto che i Mille erano venuti a portarvi, l’unità nazionale, la grandezza della patria e così via, apparteneva a quel sopramondo umano che al Verga artista del verismo, al Verga che lo guardava dalla sottostruttura economica, appariva come vita fattizia, come lussuosa efflorescenza, alla stessa guisa della società salottiera e degli amori romantici. Invece tutta la realtà della vita umana era quaggiù, nelle esigenze primordiali, in questo fondo di ingiustizia e di dolore; e solo operando qui la libertà poteva avere la sua concreta verità c realtà.
Tuttavia una così precisa e circostanziata illazione, e anche così sostanzialmente conforme al carattere specifico del verismo verghiano, siamo noi a tirarla, e non lo scrittore. Se il Verga avesse potuto trarre tutte le conseguenze logiche delle sue premesse, non questa sola novella, ma tutto il suo verismo sarebbe riuscito diverso. Qui, nella Libertà, per lo scrittore gli insorti sono certo dalla parte del giusto. E questo appare chiaro anche nella descrizione del processo, dove l’ironia, oltre a derivare dal sentimento generale del Verga per la macchina della giustizia, ha un preciso riferimento al fatto che i giurati, dai quali dipende la sorte dei villani, non potevano essere imparziali perché erano dodici galantuomini, ed essi “certo si dicevano che l’avevano scampata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù”. Tuttavia lo scrittore non prende partito. E questo non avviene già per quella superiore catarsi artistica che deve necessariamente trascendere l’angustia delle competizioni terrene; e non avviene neanche, non ci dovrebbe essere bisogno di dirlo, per una eventuale parzialità, per essere anch’egli un “galantuomo”, come quei giurati.

Riaffiora in questa novella quella perplessità morale che serpeggia in tutto il verismo verghiano e che in certo senso lo paralizza. Gli insorti hanno per lui ragione, ed hanno anche torto. E il loro torto non è nell’ingenua ignoranza loro, per cui essi avrebbero creduto che la libertà fosse una cosa diversa da quella che essa è. Il torto non consiste neanche nell’avere ecceduto dandosi a una carneficina così folle e indiscriminata. Anche a queste cose tanto enormi c’è rimedio e compenso a questo mondo; passato il trambusto tutti tornano in pace nel paesetto, e l’orfano dello speziale si piglia la moglie di Neli Pirru, uno che gli aveva trucidato il padre ed era andato in galera. Il torto dei villani è proprio nell’aver creduto che a questo mondo esistesse la possibilità di farsi giustizia. Ed è un torto che si potrebbe dire metafisico, giacché questo criterio di giudizio non vive effettivamente nella reale sostanza della novella; ma vi si può coglierlo solo come il riflesso vago e indiretto di un sentimento che sta solo nella coscienza dello scrittore. Il quale sa che la vendetta dei rivoltosi risponde a un’esigenza di giustizia; ma sa anche che codesta è un’esigenza astratta e irrealizzabile. Sa che l’ignoranza dei contadini è l’ignoranza di tutti gli uomini, i quali non sanno quanto sia inutile ogni atto inteso a mutare il corso delle cose; giacché le leggi fondamentali dell’umanità sono le leggi stesse della natura, che si possono anche violare, ma non si possono riformare.
Qui il problema si allarga a tutta l’arte veristica del Verga, che è arte di transizione dal romanticismo al decadentismo. C’era in lui, anche nel suo pessimismo, quell’interiore rivolta, quella spinta eroica e magnanima che era stata dei primi grandi romantici, di un Vigny o di un Leopardi. Ma questo sentimento, che meglio si manifestò nella prima parte della vita di Gesualdo, era però combattuto e sopraffatto da un invincibile senso di sfiducia nell’azione umana. Anche come scrittore egli finì con una sfiduciata rinuncia a continuare nel suo cammino. Che tutti gli uomini dovessero essere dei vinti non era solo una proposizione teorica del suo manifesto poetico.
Era invece un articolo di fede profondamente radicato nella sua coscienza, dove, col fascino dell’ineluttabile e del fatale, viveva la persuasione dell’assoluta vanità di ogni tentativo inteso a mutare sostanzialmente la condizione umana. E questo pessimismo decadente delle coscienze smarrite, angosciate, passive, il senso fondo della solitudine morale e dell’inutilità della vita, il narcisismo della sconfitta, impedirono al Verga di scandire il suo mondo poetico sul ritmo ascendente dell’epopea, e lo indussero a rattristarlo nei modi perplessi di una gratuita e amara ironia, o di un umiliato e soffocato lirismo.
Parlando del decadentismo del Verga, naturalmente non si intende fare nessuna accusa; ma si vogliono solo riconoscere i limiti storici della sua poesia. E la poesia, entro qualsivoglia limite, non può mai essere negativa. Fermato infatti quello che fu il suo carattere dominante, ecco che ci appare con chiarezza come il narcisismo della sconfitta fosse, in quella situazione storica, l’unica via per la quale il Verga potesse giungere alla rivelazione artistica degli sfruttati e degli oppressi. E appunto in tale rivelazione sta il valore positivo della Libertà e di tutto il verismo verghiano.

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