GABRIELE D’ANNUNZIO (Prima parte)

GABRIELE D’ANNUNZIO

Una mattina d’aprile del 1883 un giovanotto e una ragazza intorno ai vent’anni s’introdussero con aria circospetta nell’atrio della stazione di Roma, raggiunsero il treno in partenza per Firenze e andarono ad acquattarsi nell’angolo più discreto di uno scompartimento. Li attesero trepidando che il convoglio si muovesse, abbandonando quei binari che “scottavano”. Ma appena le ruote cominciarono a girare col loro stridore di ferraglia, gli strani viaggiatori si gettarono l’una nelle braccia dell’altro, risero, si baciarono e parvero spiccare il volo verso la felicità.
Lui era un tipo mingherlino, piuttosto basso di statura, ma a suo modo forte e aitante. Sotto una selva di capelli, aveva due occhi irrequieti, che riflettevano
una personalità non comune. Vestiva con una eleganza estrema, che rasentava addirittura una punta di compiaciuta civetteria, certo alquanto insolita in un uomo, e da tutto il suo comportamento traspariva il desiderio di mostrarsi “vissuto” e maturo, il che faceva un singolare contrasto con l’espressione del volto, sul quale era rimasta una aria vaga e innocente di “bel fanciullo”.
Il giovanotto si chiamava Gabriele d’Annunzio e l’anno prima aveva pubblicato un libretto di versi, Canto novo, che i maggiori critici italiani avevano salutato come un’autentica rivelazione. Vi si cantava l’amore con una freschezza di sentimenti e un impeto di passione che non potevano passare inosservati in un ambiente letterario dominato dall’austera figura del “professore” Giosuè Carducci, di cui pure il giovane poeta si dichiarava devoto discepolo.
Ma l’autore del Canto novo non ambiva solo al lauro della poesia. A Roma, dove si era trasferito dalla natia Pescara, aveva acquistato una notevole fama come cronista mondano: frequentava i salotti dell’aristocrazia, corteggiava le belle donne, ostentava pose da snob, facendosi spesso vedere in giro tenendo al guinzaglio un cane enorme, da lui chiamato Max. E poi si abbandonava a lunghe, sfrenate corse a cavallo per la campagna paludosa che si stendeva a perdita d’occhio fuori delle mura della città.
La sua fuga alla volta di Firenze, in compagnia della fanciulla che, oltre a essere graziosissima, apparteneva a una famiglia d’alto rango, (poiché di una autentica fuga si trattava) veniva a coronare un sogno ambizioso, anche se in realtà era dettata solo dalla passione. Ma proprio quella felice coincidenza pareva suggerirgli una riflessione e cioè che a lui era permesso osare tutto, che non a caso gli avevano imposto il nome augurale di Gabriele, lo stesso dell’Arcangelo annunziatore.
E come un arcangelo fatale, infatti, lo guardava ora la ragazza che per seguirlo nella romantica fuga aveva abbandonato all’alba il palazzo paterno, col cuore che le batteva in gola per la paura di essere scoperta. Bionda, occhi azzurri venati di pagliuzze d’oro, una gran massa di capelli raccolti al sommo della testa e “gonfiati” in una specie di onda splendente, il naso sottile che dava spicco al profilo aristocratico, la fanciulla aveva mostrato un bel coraggio
nell’affidare il proprio destino alle mani bucate del giovane poeta, ricco soltanto di sogni e di seducenti parole.
Ma il fatto è che D’Annunzio sapeva essere irresistibile quando s’innamorava di una donna.
E Maria Hardouin di Gallese – così si chiamava la ragazza – aveva un gran desiderio di uscire dall’ambiente chiuso della propria famiglia, di vivere una vita diversa. Per questo, e perché aveva vent’anni, aveva accolto con entusiasmo l’idea della fuga, del distacco irreparabile dai genitori, i quali non avrebbero mai dato il loro consenso alle nozze.

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UNA BRUTTA SORPRESA

Maria di Gallese non si pentiva del suo gesto né si preoccupava dello scandalo, che avrebbe fatto il giro di tutti i salotti di Roma. Mentre il treno saliva verso il nord, ascoltava Gabriele che parlava e parlava, descrivendole le delizie cui andavano incontro. A volte egli socchiudeva un poco gli occhi e lei aveva la curiosa impressione che si deliziasse delle proprie parole, che il racconto lo facesse unicamente per il proprio piacere.
I poeti sono sempre un po’ matti e “Gabri”, come a lei piaceva vezzeggiarlo, in questo campo li batteva tutti. Che brividi mettevano nel sangue certi particolari audaci che lui, senza alcun pudore, inseriva nelle sue poesie! Maria era stata perfino sfiorata dal sospetto che spesso egli facesse il galante solo per poter poi scrivere un bel verso.
Ma che importava, infine?
L’avventura era bella, nuova, eccitante… e Firenze, città di sogno, li aspettava!
Quando il treno si arrestò sotto la pensilina, Gabriele baciò la sua compagna e poi le sussurrò all’orecchio una delle sue frasi deliziosamente sconvolgenti.
Tutto era andato bene. Adesso potevano abbandonarsi alla gioia di essere insieme… invece, ahi-mè!, un’amara sorpresa li aspettava.
In fondo al marciapiede della stazione, due austeri signori bloccarono i fuggiaschi con gentile fermezza, badando a non dare nell’occhio e a non attirare gente. Si trattava nientemeno che del Prefetto di Firenze e del deputato Colajanni: un telegramma del duca di Gallese li aveva avvisati dell’arrivo della coppia ed essi avevano deciso di condurre a termine personalmente la delicata missione.
Non c’era scampo. Gabriele e Maria si arresero senza protestare. Delusi, amareggiati, sconfitti, seguirono i due importanti personaggi i quali, dopo aver loro raccomandato di non tentare più sciocchezze del genere, col primo treno in partenza li rispedirono a Roma sotto scorta.
Maria fu rinchiusa nel palazzo paterno, Gabriele riprese la sua vita mondana. Il 16 maggio 1883 apparve sulla “Cronaca Bizantina”, il più importante giornale letterario di Roma, una sua poesia intitolata “Peccato di maggio”, il cui contenuto fece rima-nere allibiti gli amici, che nella donna cantata negli audacissimi versi riconobbero facilmente Maria di Gallese.
E poi, dopo le rivelazioni di un giornalista, lo scandalo dilagò.
Intanto Maria rifiutava una dopo l’altra tre proposte di matrimonio. Allora, convinti che non avrebbe mai ceduto, i suoi genitori diedero il consenso alle nozze. La cerimonia ebbe luogo nella cappella del palazzo del duca di Gallese.
Era il 28 luglio 1883.
Nessun membro dell’aristocrazia romana era presente; tutti i parenti di Maria avevano disertato la cerimonia; lo stesso duca di Gallese era rimasto ostentatamente nelle sue stanze. Per ripicca, anche i genitori di Gabriele non si erano fatti vivi.
Solo uno sparuto gruppo di amici, per lo più giornalisti, cercava di ravvivare la cerimonia.
A un tratto un’esclamazione dolorosa ruppe l’imbarazzato silenzio della cappella: era la mamma di Maria che, non resistendo più, abbandonava piangendo il suo posto. E tuttavia nemmeno questo episodio clamoroso valse a turbare gli sposi.
Essi soli apparivano soddisfatti, sereni. Avevano vinto. Il loro amore trionfava. Che altro potevano desiderare?

Mario D’Annunzio, primo figlio del poeta, in braccio alla madre Donna Maria D’Annunzio (1886)

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TRE ANNI Dl FELICITÀ

Subito dopo le nozze, Gabriele e Maria lasciarono Roma, un po’ per sottrarsi agli inevitabili pettegolezzi, un po’ perché lui aveva bisogno di un ambiente tranquillo per lavorare. Trascorsero la luna di miele a Porto San Giorgio, sull’Adriatico, quindi andarono a Pescara, dove finalmente i genitori del poeta conobbero la sposa. Il 13 gennaio 1884 questa mise al mondo un maschietto, al quale fu dato il nome di Mario.
Ma era una coppia male assortita, nonostante le apparenze. A mano a mano che il fuoco dei sensi si veniva attenuando, saltavano fuori le differenze di carattere e, inevitabilmente, le reciproche incomprensioni. Molti anni più tardi, D’Annunzio confessò a un suo biografo francese: “Ebbi tre anni di inebriante felicità. Eppure… mancava qualcosa. Non sentivo nessun contatto, nessuna comunione tra la sua anima e la mia”. Dal canto suo, Maria di Gallese si dimostrò ancora più amara: “Quando sposai mio marito credetti di aver sposato la poesia in persona. Avrei fatto meglio a comprare, a tre franchi e cinquanta, ogni volume di poesie da lui pubblicate.”.
Intanto un nuovo volume di poesie di D’Annunzio, Intermezzo di rime, veniva concordemente stroncato da tutti i critici.
Il giovane esuberante, forse un po’ selvaggio, di Canto novo aveva ceduto il posto a un uomo che cercava il piacere per il piacere e non voleva – o non riusciva – a sollevarsi al di sopra dei sensi. Quasi fatalmente, la poesia scivolava nella pornografia.
E il peggio è che Gabriele d’Annunzio era conscio di tale cedimento. Per questo, a suo modo, metteva le mani avanti, confessando apertamente:

Non più dentro le grigi iridi smorte
lampo di giovinezza or mi sorride.
La giovinezza mia barbara e forte
in braccia delle femmine s’uccide.

Ma come sollevarsi dal fango, come riconquistare la freschezza perduta? Non bastava che D’Annunzio riconoscesse che il libro era il prodotto di uno “stato di malattia, di una debolezza mentale.” Occorreva che qualcosa gli ridesse vigore, lo facesse uscire fuori dal pantano
in cui si era invischiata la sua ispirazione un tempo così fresca e impetuosa. E questo qualcosa non poteva essere che una donna. La Chimera ch’egli inseguiva fin dai lontani anni della prima adolescenza aveva tutte le malie e le seduzioni di un bel corpo femminile. Ma al di là non c’era che il vuoto, il nulla.
Purtroppo la passione per Maria di Gallese gli si era spenta tra le mani nella monotonia del matrimonio. Gli rimaneva solo, ora, il bisogno estremo di guadagnare per mantenere la famiglia, e il gusto del lusso, del superfluo, che aveva contratto a Roma e dal quale non riusciva a liberarsi. Cosi dovette intensificare la sua attività giornalistica, rischiare il naufragio completo per non apparire un vinto.
Naturalmente, tornò a Roma.
Fece debiti su debiti. Cercò invano di trovare una nuova ragione di vita nella nascita di un secondo figlio, dettò i versi per una canzonetta in dialetto napoletano, A vucchella, tentò insomma in tutti i modi di uscire dalla crisi che lo attanagliava.
Ma ogni strada che imboccava era un vicolo cieco, perché il “male” lo aveva dentro: era il demone di una sensualità che rimaneva allo stato grezzo. E poi un giorno di primavera accadde il miracolo. Passando in via del Babuino, D’Annunzio vide una giovane donna alta e slanciata fermarsi davanti a una libreria, notò lo strano contrasto che producevano in lei le labbra sensuali e gli occhi malinconici. La guardò poi allontanarsi come un’immagine di sogno, sicuro che non l’avrebbe mai più incontrata.
Invece si ritrovarono a un concerto in via Margutta: un comune amico li presentò; la breve scintilla divenne una fiamma altissima. La donna si chiamava Elvira Fraternali Leoni, usciva appena da una lunga malattia, era infelice perché l’avevano .costretta a sposare un uomo che non amava. Bastarono poche parole del poeta e gli cadde fra le braccia. D’Annunzio si senti rivivere. Elvira scopri l’amore dopo l’umiliazione.
Maria di Gallese aspettava allora il terzo figlio del poeta, che quando nacque fu battezzato Veniero (il secondo era stato chiamato Gabríellino). Ma ormai la sua stella era tramontata. A lei, d’ora in avanti, sarebbe spettato il ruolo della moglie discreta, che se ne sta in disparte e tace. Cominciava la serie delle splendide amanti di D’Annunzio, che tanta parte avrebbero avuto nella sua “leggenda” e nella sua opera. E saranno tutte – o quasi – donne di prim’ordine, non semplici “femmine di lusso” quali forse le sognava e vagheggiava l’acerbo cantore del Canto novo.

 

DAL “CANTO NOVO”

O falce di luna calante
che brilli su l’acque deserte;
o falce d’argento, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore quaggiù!
Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori del bosco
esalano al mare: non canto non grido
non suono pe l’ vasto silenzio va.
Oppresso d’amor, di piacere.
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore quaggiù!

Dopo la breve raccolta di versi Primo vere D’Annunzio trovò la via della grande poesia con Canto novo, uscito nel 1882. In questo libro giovanile sono contenuti quasi tutti i temi che il poeta svilupperà in seguito e che troveranno la loro compiuta espressione nell’Alcyone.
Nei versi che ho riprodotto, notate con quanto languore il poeta canti la natura: egli ne è attratto in modo sincero e fortissimo e ne descrive gli aspetti con straordinaria ricercatezza e raffinatezza stilistica. Si osservi la capacità di D’Annunzio di rendere musicalmente la dolcezza immobile del plenilunio, e insieme un estremo abbandono al piacere che addormenta l’anima.

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