CHE GUEVARA – Un volto diverso

Perché la figura del Che ebbe quel fascino speciale? Una interpretazione la trovo in Guevara rivoluzionario inquieto (Rossana Rossanda).
Il poster che tutti ricordiamo e tutti, moderati compresi, ebbero nello studio, non si spiega soltanto con quel volto assai bello, sognanti gli occhi, d’un rivoluzionario. Era un volto “diverso” dallo ieratismo di Ho Chi Minh o di Mao: Ernesto Guevara de la Serna era un uomo come quelli che si potevano incontrare nelle vie di Roma negli anni ruggenti della sinistra. Un intellettuale, un medico col mal di rivoluzione.
E quel suo comunismo senza partito, quella sua soggettività marcata – solitudine, liberta dal nazionalismo, combattente per la “sua” bandiera – affascinava come qualcosa di più vicino a un movimento che in Europa e negli States si presentava già come insofferente di partiti; discipline, teorie troppo secche, e invece gestuale, per il ”tutto e subito”. Furono guevariani in Italia tutti e nessuno: ricordo un’assemblea alla facoltà di sociologia di Trento, nel novembre, credo, del “68 – dove venivo bombardata all’ammonimento di Guevara (uno dei più bizzarri, insostenibile se non nel contesto e nell’ironia dell’uomo): Accion antes, consiencia después. Il soggettivismo parlava al soggettivismo, toccando un punto reale, nuovo, della formazione politica.
Ma questo soggettivismo era anche quello del ”terzo polo”, la Vittoria del Vietnam, Davide contro il Golia Usa, e il fascino della teoria del foco.
Che era teoria politica assai più che militare: impiantare in un paese di alta disuguaglianza sociale e di forte spirito di opposizione, ma senza mezzi, data la natura ormai intercontinentale assunta dagli eserciti, una zona dalla quale “infettare” il popolo, una macchia crescente di libertà in armi, capace di far perdere tempo, uomini e senno agli eserciti, imprendibile com’era stato Castro nella Sierra, riferimento, speranza, poi luogo di aggregazione del popolo e di conseguenza dissidio e disgregazione nella classe dirigente.
E a questo punto l’assalto e la Vittoria. Era uno schema diverse dalla presa del palazzo d’inverno, un processo armato ma non giacobino di formazione allargata, un’affermazione del primato della soggettività rivoluzionaria come innesco di processi sociali decisivi.
E chi non riconosce in questo un tessuto di idee che furono del “68 e degli armi successivi, un emergere di protagonismi meno in quadrati, pin moderni?
Tanto che, quando il Che cadde, il “68 iniziava. Se qualche mano raccolse la sua bandiera, fu quella degli studenti italiani e parigini e poi degli altri paesi che forse non lo sapevano, forse non erano informati affatto del foco, forse erano anarchici – ma avevano in comune con gli uomini della guerriglia questo lineamento, questo, oggi si direbbe, movimentismo estremo e tuttavia ricco, affascinante. Una prospettiva e non soltanto un’inventiva. I tempi della storia non sono lineari e neanche paralleli: il volto del Che avrebbe accompagnato il movimento in Europa per tutti gli anni “70, in senso inverse al suo sanguinoso spegnersi nel continente latinoamericano.

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