FASHEN – RIVOLUZIONE CONTADINA IN CINA

Il 1° ottobre 1949 veniva proclamata a Pechino la fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Ricordo il grande evento rivoluzionario pubblicando una intervista del 1969 di Tiziano Terzani con lo studioso statunitense William Hinton autore del volume “Fanshen. Un villaggio cinese nella rivoluzione” un libro che è un classico degli studi sulla Cina.

TERZANI * Vado a trovare Hinton nella sua fattoria in Pennsylvania. Venendo da New York, ad Allentown si lascia la autostrada e si entra nella campagna. Mi viene in mente che da queste parti c’è uno dei sei campi di concentramento istituiti dal MacCarran Act del 1950. Recentemente i gruppi radicali sia bianchi che neri hanno parlato molto di questi campi temendo di esserci destinati quando l’attuale establishment politico non potrà più permettersi il lusso del loro dissenso.
Secondo il MacCarran Act, il presidente può dichiarare lo stato di emergenza interna ed allora migliaia di cittadini americani verrebbero arrestati e spediti in questi campi sulla base del semplice sospetto che possono cospirare contro la sicurezza dello stato.
È il Memorial Day. Quasi tutte le case dei vari paesini lungo la strada nonché le fattorie sono adorne di grandi bandiere americane. Tutta questa zona è oggi estremamente conservatrice e certi gruppi apertamente reazionari sono particolarmente forti. A Reading. che è la capitale dello stato e che negli anni trenta aveva eletto il primo sindaco socialista d’America, ora è di moda Wallace. Da Reading opera un importante nucleo dei Minutemen, l’organizzazione clandestina di destra che si tiene pronta a sventare un eventuale colpo di mano dei comunisti ed in questa sua determinazione a salvare l’America complotta ora assassini e sabotaggi e fa piani per prendere il potere direttamente per sé.
È qui, fra Allentown e Reading, che Hinton ha i suoi campi, una casa, una pozza d’acqua scavata col bulldozer a mo’ di piscina ed abbastanza granoturco per far campare la famiglia.
“Coltivare granoturco è l’unica maniera di fare il contadino ed aver tempo per studiare”, dice Hinton. Nei quattro o cinque mesi invernali nei campi non c’è niente da fare e Bill Hinton si occupa della Cina.

Hinton vive qui isolato. Il fatto di aver vissuto in Cina, di occuparsi della rivoluzione cinese, di sostenere le attività del Progressive Labor, di aver per moglie Joanna, una ragazza nera del North Carolina, non contribuisce a fargli avere rapporti di buon vicinato con gli altri farmers. Così riceve delle telefonate anonime nel mezzo della notte, nella cassetta della posta trova a volte una cartolina del Ku Klux Klan con l’immagine della sua testa nel mirino di un fucile ed i suoi tre figli incontrano notevoli difficoltà nella scuola locale. Hinton mi racconta questa cose passeggiando nei campi, andando in camion a prendere secchi di calce in una fattoria vicina.
Il granturco è stato seminato da poco e la terra si sta coprendo d’un velo leggero di verde. Bisognerebbe proprio che piovesse. Per il momento però il grosso pericolo non è la siccità, ma i fagiani che, al mattino presto, vanno a sbarbare le piante fresche per beccare i semi.
Su una strada sterrata ci viene incontro un barroccio con una famiglia di contadini che sembrano usciti da un’illustrazione dell’Ottocento. Sono Pennsylvania Dutch, una setta religiosa che rifiuta la modernità e vive senza usare né elettricità né macchine.

* Chiedo a Hinton di raccontarmi la storia del suo libro:
“Andai in Cina per la terza volta nel 1947. Ero stato assunto come tecnico dall’UNRRA (sigla, dalle iniziali della sua denominazione ufficiale inglese (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), della “Amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza e la riabilitazione”, con la quale è nota l’organizzazione internazionale costituita, dal 9 novembre 1943 al 30 giugno 1947 (in Cina 31 dicembre), dalle Nazioni Unite per l’assistenza economica e civile alle popolazioni delle Nazioni Unite, danneggiate dalla guerra, e i cui aiuti furono successivamente estesi anche a paesi ex-nemici) e facevo parte di un gruppo di cinquanta giovani il cui compito consisteva nell’insegnare ai cinesi a usare duemila trattori che l’UNRRA aveva spedito in Cina. I trattori dovevano servire per rimettere a coltura certe terre precedentemente inondate nella valle del Fiume Giallo: ma quando i trattori arrivarono, i vari governatori militari sotto Chiang Kai-shek erano così gelosi l’uno dell’altro che i trattori dovettero essere divisi in lotti di venti e spediti un po’ qua e un po’ là. Alcuni trattori, dopo varie difficoltà, finirono anche nelle zone controllate dai comunisti e io andai con quelli. La decisione di mandare trattori anche ai comunisti fu presa direttamente dal quartier generale dell’UNRRA perchè l’idea era quella di aiutare le vittime dell’aggressione giapponese e molte di queste si trovavano nelle zone comuniste. Il boicottaggio contro tali zone era diventato uno scandalo internazionale e l’UNRRA ordinò che duecentomila tonnellate di materiale fossero spedite entro la fine di maggio in quelle zone, altrimenti tutto il programma sarebbe stato annullato. Successe allora che i nazionalisti caricarono le navi di tutto quello che pesava di più e valeva meno.
Alcune navi partirono con un carico di articoli medicinali che comprendeva solo materiale per fare ingessature e una nave fu caricata solo di polvere per il mal di piedi che l’esercito americano aveva messo a disposizione come residuato della seconda guerra mondiale. In certi casi i nazionalisti tentarono di spedire della sabbia, ma i simpatizzanti comunisti che lavoravano nei magazzini, e fra questi un gruppo di stranieri, fecero sì che nelle zone liberate arrivassero anche delle cose utili. Fra queste c’erano dei trattori: io andai con quelli. Arrivai nella parte meridionale della regione dell`Hopei nel pieno della guerra civile. Dopo pochi mesi il programma UNRRA fu eliminato, ma io chiesi di rimanere per continuare il mio lavoro con i trattori. Il consiglio provinciale del partito comunista approvò la mia richiesta; ma il mio lavoro continuò per poco perchè venne a mancare la benzina. Si misero allora i trattori in alcune caverne ed io fui assegnato in una università di guerriglia a insegnare l’inglese. Dopo poco però l’università si disperse e buona parte del corpo insegnante e studentesco fu aggregata al programma di riforma agraria. L’unica sezione dell’università che continuò a funzionare era quella in cui lavoravo io. L’inglese era diventato sempre più importante; la vittoria era vicina e si sentiva il bisogno urgente di preparare gente per il corpo diplomatico e per le trattative che si sarebbero presto aperte. Io comunque presentai al direttore dell’università un mio progetto di seguire un  gruppo che avrebbe lavorato alla riforma agraria. L’idea era quella di scrivere un rapporto su questa esperienza. Il capo dell’università era allora Fan Wan-lang, che è oggi membro del nuovo Comitato centrale.
Allora era un famoso storico. Lui decise di accettare la mia richiesta. Così mi unii ad un gruppo che veniva mandato nelle campagne dall’organizzazione del partito. È questa la storia che ho raccontato in Fanshen. Non avrei mai immaginato allora che avrei scritto quella storia solo diciotto anni dopo”.

* Fanshen è ormai un classico degli studi sulla Cina. Ha avuto favorevolissime recensioni nelle riviste accademiche; vari antropologi e sociologi si sono chiesti come sia stato possibile che una persona senza alcuna preparazione metodologica sia stata capace di raccogliere un materiale così prezioso. Faccio la domanda ad Hinton stesso.
“Non ho usato alcun metodo particolare. Sono stato fortunato. Andai nel villaggio di Lungo Arco con due giovani professori che avrebbero dovuto essere i miei occhi ed i miei orecchi, mi avrebbero cioè dovuto aiutare a capire quello che succedeva; io dovevo solo essere un osservatore. Ma il fatto è che dopo un po’ di tempo i miei due compagni furono direttamente coinvolti nel programma di riforma e poi, quando il resto del gruppo fu ritirato, rimasero i responsabili nel villaggio. Questo mi aiutò molto. Gran parte del lavoro veniva svolto collettivamente. Si trattava di esaminare in gruppo la storia del villaggio. Tutta la comunità raccontava gli avvenimenti degli ultimi anni da vari punti di vista. Io mi limitavo ad assistere e la mia presenza fu ben presto accettata. Non dovetti mai andare in giro a fare domande. Loro si ponevano le domande e si davano le risposte. Era la comunità che si auto esaminava. I contadini erano così occupati a trasformare se stessi e la società che non si occuparono di me e non ci fu un muro fra me e loro. Andavo a tutte le riunioni e trascrivevo più che potevo quanto veniva detto. La sera mi ritrovavo con i miei due compagni e riesaminavamo assieme quello che era successo nella giornata. L’unico grosso errore che commisi fu quello di non tenere un diario; avrei dovuto scrivere, a parte, com’era la gente, descrivere il paesaggio, il tempo, gli odori. Ma la cosa strana era che tutto allora mi pareva così reale che non sentivo il bisogno di scriverlo. Per chi vuole registrare la storia questo è un consiglio da seguire assolutamente.
L’idea di scrivere quest’esperienza mi venne dai coniugi Crook; fu il loro esempio che mi ispirò; ma essi furono meno fortunati perchè il loro interprete rimase sempre separato dal gruppo che attuò la riforma agraria nel loro villaggio; per giunta, nel loro caso il villaggio era stato liberato già da dieci anni e l’esperienza rivoluzionaria si era in un certo senso diluita. Inoltre il gruppo di cui essi facevano parte veniva dalla redazione di un giornale di città e non riuscì mai a stabilire un buon rapporto con i contadini di quella zona.
“Rimasi a Lungo Arco per cinque mesi. Pensavo di scrivere subito il libro, ma fui fortunato di non poterlo fare. I comunisti liberarono la capitale dello Shantung e venne catturata una grande quantità di benzina. L’esercito non aveva molti mezzi meccanizzati e così cento fusti vennero messi a disposizione dei miei trattori. Per cinque anni non ebbi neppure il tempo di rileggere le note che avevo scritto. Quando decisi di tornare in America, nel 1953, presi la Transiberiana. Non avevo un passaporto e allora mi presentai all’ambasciata USA a Praga. Mi diedero un passaporto valido solo per dieci giorni e mi fissarono un itinerario obbligato per rientrare.
Londra era la prima tappa. All’aeroporto c’erano nove agenti del controspionaggio inglese ad aspettarmi.
“M’interrogarono per tutta una notte e perquisirono tutti i miei bagagli. Per evitare di dover ripassare attraverso la stessa procedura in Canada, dove la nave su cui avevo prenotato un posto si sarebbe fermata, spedii direttamente la mia roba in America. Fu un banale errore perchè, quando mi arrivò l’invito di andare a sdoganarla, le mie casse erano vuote. Erano i tempi del maccartismo. Mi dissero che avevo tentato di portare in America propaganda straniera contraria alla legge; non seppi mai di quale legge si trattasse, ma ci vollero cinque anni per riavere i miei appunti. Nel frattempo lavorai come meccanico in un garage di Filadelfia. Se il libro che poi cominciai a scrivere nel 1958 è in qualche modo buono forse è perchè provai direttamente che cosa significa essere sfruttati. Il libro fu finito nel 1963, ma mi ci vollero altri quattro anni per trovare un editore disposto a pubblicarlo. Le grandi case editrici di New York lo trovavano interessante, ma non abbastanza. Ognuno mi suggeriva di scrivere un libro diverso da quello che Fanshen era. Alla fine lo lesse Paul Sweezy che lo fece pubblicare dalla Monthly Review Press.
Erano passati diciotto anni dal mio soggiorno nel villaggio di Lungo Arco. In un certo senso fu un vantaggio. Volevo che il libro fosse capito dal pubblico americano e non avrei mai saputo farlo in questo modo se non mi fossi lentamente reinserito in questa società”.

* Fanshen andava in stampa proprio quando in Cina iniziava apertamente la rivoluzione culturale. Chiedo a Hinton in che misura questi recenti avvenimenti hanno mutato le sue precedenti conclusioni.
“Come sai, ho scritto un saggio pubblicato dalla rivista  Pogressive Labor. Doveva essere una prefazione all’edizione paperback, ma non sono riuscito a finirla in tempo. Scrivendo questo saggio avevo in mente innanzitutto la nuova luce che la rivoluzione culturale ha gettato sul periodo che ho descritto in Fanshen perchè già a quel tempo era in corso la lotta politica fra le due linee; questa non solo riguardava la politica agraria, ma anche i vari indirizzi politici che sarebbero stati adottati nell’immediato dopoguerra. Ciò che a quel tempo pareva solo una serie di errori si è rivelato ora parte di questa lotta. E la linea di “sinistra”, descritta nel libro come “la linea dei contadini poveri e salariati” – e che a quel tempo sembrava solo, col suo ideale di assoluta uguaglianza, una distorsione di base della rivoluzione – si è ora rivelata ben più di questo, cioè una decisa presa di posizione di importanti leader tipo Liu che la ritenevano una politica valida ed importante; in sostanza si è rivelata una linea controrivoluzionaria. Solo ora. dopo la rivoluzione culturale, mi è stato chiaro che là dove Mao parla della correzione di questa linea non allude ad una semplice discussione che c’era stata con la base contadina, ma ad una grossa polemica con i maggiori dirigenti del partito. Di questo allora non mi ero accorto”.

* So che Fanshen è stato criticato in Cina non solo per il fatto che Hinton cita ampiamente Liu Shao-chi, ma anche perchè le sue osservazioni a Lungo Arco indicavano le implicazioni scorrette della linea politica applicata ed Hinton manco di trarne le giuste conclusioni.
“Certo, si è trattato di un mio errore. Ho riguardato le citazioni di Liu Shao-chi che ho usato in Fanshen. Credo che alcune illustrino oggi chiaramente l’opportunismo e il carrierismo che erano impliciti nella sua posizione: non dovrebbero essere nel libro.
Di queste citazioni, certe altre non rappresentano le opinioni personali di Liu, ma sono piuttosto il risultato di una discussione collettiva all’interno del partito; l’averle usate come affermazioni rivoluzionarie ha certo dato prestigio a questo controrivoluzionario, il quale ha mostrato solo una grande abilità nell’alzare la bandiera rossa per attaccare la bandiera rossa di Mao.
Se riscrivessi oggi Fanshen non userei queste citazioni. Che lo abbia fatto in passato certo è ora oggetto di critica. Per quanto riguarda poi la mia accettazione della linea di sinistra c’è il fatto che a quel tempo il Quotidiano del Popolo sosteneva tale linea di sinistra; era il giornale ufficiale del partito comunista cinese e io non potevo immaginare che si trattasse di una posizione sbagliata di qualche giornalista. Ora la rivoluzione culturale ha esaminato nei dettagli che cosa successe in quel tempo e come questa linea si sviluppò. Se rileggi bene Mao vedi come già allora si faceva il nome Liu Shao-chi, non perchè fosse lui responsabile di quella linea, ma perchè lui non era stato capace di correggerla.
È tutto lì nero su bianco. A pp. 231 e 232 del quarto volume delle Opere scelte Mao dice “…andaste a quella conferenza e le istruzioni vi furono date da Liu Shao-chi…a quella conferenza correggeste le tendenze di destra, ma mancaste di correggere la linea che era espressa dallo slogan ‘fai tutto quello che le masse vogliono che
tu faccia“. In altre parole nella conferenza si erano avuti dei fondamentali errori di sinistra. La lotta era già pubblica e molto avanzata, ma le implicazioni non mi furono chiare. Ora la rivoluzione culturale ha accelerato questo scontro. Molte delle alternative che sono rappresentate dalle due linee appaiono alternative tecniche, ma il fatto è che se si sommano l’una all’altra, queste varie prese di posizione, possono essere identificate con due diverse politiche che non sono stabilmente di sinistra o di destra. Liu per esempio era a sinistra sulla questione agraria nel senso che la “linea dei contadini salariati e poveri” era una linea di sinistra. In questo caso una linea di sinistra è la linea che tende ad attaccare sia amici che nemici e che preclude la via ad una più larga alleanza. La linea di destra è la linea che unisce in via di principio più gente possibile. La linea di Liu era a sinistra in quanto diceva di dare tutto a poveri, in quanto diceva che tocca ai “contadini poveri salariati” governare il paese, ma così facendo condusse ad attaccare i piccoli proprietari come fossero contadini ricchi, e a picchiarli quindi a morte. È una linea, questa, che isola i contadini poveri dai loro naturali alleati. Era una linea di sinistra, ma era ultrarivo1uzionaria, e perciò controrivoluzionaria nel senso che indeboliva la lotta. Liu in questo caso era a sinistra, ma dopo la rivoluzione agraria stava a destra; si oppose alla via socialista nelle campagne quando appoggiò un’economia fondata sui contadini ricchi dicendo che i contadini non erano pronti per le cooperative; e sostenne che per mantenere l’unità non bisognava forzare i tempi della rivoluzione socialista. Questa è una posizione di destra, perchè faceva un compromesso con gente che non avrebbe mai potuto essere conquistata al socialismo; ma Liu diceva che questa era l’unica maniera per mantenere un’alleanza fra contadini ed operai.
Mao, viceversa, sostenne fin d’allora che l’alleanza contadini-operai poteva solo esser mantenuta se si fosse accelerato il processo di socializzazione.
“Liu si spostò dunque dalla sinistra alla destra, ma fra queste due posizioni c’è una significativa coerenza. Se uno vuol prendere la via capitalistica per sviluppare un’agricoltura privata e indipendente, è chiaro che il miglior modo per farlo è attuare una riforma agraria che lasci i contadini in una posizione di partenza competitiva: devono essere tutti contadini medi. Questo era esattamente impossibile in Cina perchè non c’era abbastanza ricchezza per fare tutti dei contadini medi.
Ma se i contadini dovevano sostenere una situazione di libera iniziativa, bisognava dar loro l’impressione che avessero una buona occasione. In questo senso le posizioni prese da Liu fanno parte di una posizione globale di destra e sono collegate. È difficile sostenere che Liu non era cosciente di queste sue posizioni antisocialiste.
Quando il movimento per le cooperative cominciò, fu lui a combatterlo e ad un certo punto arrivò persino a scioglierne duecentomila che si erano già create. Se si esamina la storia del 1949, si vede da parte di Liu un costante attacco alle scelte socialiste che si stavano compiendo. Quando tutto questo viene sommato ci si accorge che non è una differenza fra due diverse tattiche, ma piuttosto una differenza fra due posizioni di classe. Non deve ingannare la posizione di Liu per quanto riguarda la riforma agraria.
Questa può essere considerata necessaria anche in una rivoluzione borghese e come tale può essere un necessario punto di partenza per creare il capitalismo”.

* È vero che in Fanshen Hinton fa notare le varie motivazioni con cui varia gente partecipa alla rivoluzione ed entra nel partito comunista nello stesso villaggio di Lungo Arco. Ma in termini marxisti, come si fa a spiegare che Liu rappresentava nella rivoluzione cinese. fin dai suoi inizi. interessi diversi da quelli del gruppo di Mao?
“Non mi pare così difficile. Liu era parte di quella alleanza antimperialista e antifeudale il cui principale obiettivo era distruggere l’imperialismo e spezzare la società feudale. Non tutti i comunisti avevano affrontato seriamente nella loro coscienza il problema del socialismo. Uno poteva diventare comunista perchè i comunisti conducevano la lotta per distruggere il feudalesimo, anche se le motivazioni ultime potevano essere diametralmente diverse, potevano essere cioè socialiste o borghesi. Presumibilmente Liu Shao-chi voleva costruire il capitalismo; certo tutte le scelte politiche che egli sostenne miravano a questo; ed è questo che oggi dobbiamo giudicare. Non c’è bisogno di essere un agente o una spia per avere una coscienza borghese. Nel caso di Liu è interessante notare che anche nel periodo della rivoluzione borghese, quello che i cinesi chiamano della “nuova democrazia”, quando le condizioni della lotta si fecero più difficili, Liu non rimase ancorato alla linea rivoluzionaria e sostenne una politica che avrebbe significato la resa alle forze di Chiang Kai-shek; Liu era pronto ad accettare dei compromessi per raggiungere la pace. Persino a quel tempo, quando i problemi della costruzione del socialismo non si erano ancora posti, Liu si dimostrò costantemente controrivoluzionario”.

* Sono d’accordo che sulla base delle informazioni fornite nel corso della rivoluzione culturale questa posizione di Liu Shao-chi risale ben indietro nel passato. Ma come si spiega che lo scontro finale sia avvenuto solo ora?
“Questa è una domanda chiave e non credo di avere una risposta precisa. Una cosa comunque è certa: la rivoluzione cinese fu condotta da una alleanza di varie classi e quest’alleanza si rifletté in vari modi anche all’interno del partito che raccoglieva al proprio interno i vari rappresentati di tale alleanza. Fino a che la rivoluzione rimase nello stadio della ”nuova democrazia”, il confronto fra le varie componenti non fu inevitabile. I problemi divennero acuti solo quando si trattò di costruire il socialismo. Accanto a questo fatto ce n’è un altro, a mio parere di enorme importanza, e che ha certamente avuto un ruolo determinante negli avvenimenti cinesi: si tratta dell’indirizzo revisionista preso dal movimento comunista mondiale negli anni sessanta.

“Se il movimento comunista a livello mondiale non avesse preso questo indirizzo. Liu non avrebbe mai sfidato Mao. In passato, quando questo era successo. Liu era stato costantemente sconfitto, si era arreso, si era criticato, si era riallineato fino a che una nuova crisi lo aveva ritrovato all’opposizione. Comunque la posizione di Liu non era mai stata in Cina di un prestigio tale da permettergli da solo una sfida alla linea-politica di Mao; ma il fatto è che il partito comunista sovietico godeva in Cina del prestigio necessario per aiutare Liu in questa operazione. Così, quando il revisionismo divenne un fenomeno internazionale, per la Cina si trattò di una questione di vita o di morte. Il revisionismo può accettare misure socialiste nel settore economico, può essere d’accordo sul principio dell’industria pubblica, sulla collettivizzazione dell’agricoltura (anche Liu dopo una prima opposizione si arrese a questa misura), ma non può accettare le implicazioni della trasformazione della cultura e dell’intera società in senso proletario. Anche l’Unione Sovietica ha accettato le riforme nel settore economico, ma ciononostante ha ora preso la via a ritroso. Il vero scontro avviene quando il socialismo si consolida attraverso una rivoluzione culturale, quando si trasforma la sovrastruttura stabilendo un controllo effettivo su tutti i settori, da quello educativo a quello militare, ecc. Certo questo scontro avrebbe potuto svolgersi anche prima. Avrebbe potuto cominciare con l’incontro di Lushan o con il Grande Balzo in avanti, ma le forze rivoluzionarie non avevano ancora trovato la chiave giusta. Lin Piao stesso lo dice nel suo rapporto al IX Congresso: non avevano trovato il metodo per lanciare questa rivoluzione dal basso che avrebbe contestato ad ogni livello i valori borghesi, che avrebbe lanciato una rivoluzione nelle condizioni stesse della dittatura del proletariato”.

.

Soldati dell’esercito popolare di liberazione si avviano al fronte

.

* Chiedo a Hinton qual è secondo lui il ruolo del pensiero di Mao nella tradizione del marxismo-leninismo.
“Il pensiero di Mao è il marxismo-leninismo della nostra epoca. Questa è certamente una formulazione nuova. La mia esperienza della rivoluzione cinese risale ormai al periodo della ”nuova democrazia” e delle riforme. A quel tempo si diceva che Mao era colui che applicava il marxismo-leninismo alla Cina; negli ultimi venti anni Mao ha fatto molto più di questo. Negli anni cinquanta la Cina costruì un’economia socialista; era questa una esperienza che i russi avevano già fatta; poi, verso la fine di quel decennio, sorse il problema del revisionismo, i russi si ritirarono dalla Cina e Mao fece una seconda rivoluzione di cui nessuno aveva fatto prima l’esperienza: la rivoluzione culturale.
In questo senso la rivoluzione non è solo cinese, ma ha una grande importanza per il resto del mondo. La Cina è oggi la guida nella costruzione del socialismo e con ciò il pensiero di Mao non è più l’applicazione del marxismo-leninismo alla Cina, ma è il marxismo-leninismo della nostra epoca, che, come dicono i cinesi ”è l’epoca del trionfo del socialismo e della sconfitta finale dell’imperialismo”.

Questa è un’importante questione di principio perchè, a ben guardare, anche un revisionista è disposto ad ammettere che il pensiero di Mao ha importanza per la Cina; ciò che fermamente contesta è che esso sia importante per tutto il mondo che Mao e il suo pensiero siano oggi il centro teorico della rivoluzione mondiale. È questo un punto su cui occorre riflettere. Dove sarebbe oggi il mondo se anche la Cina avesse preso la via della Russia e del socialimperialismo?”

* Faccio notare come questa idea non venga fuori dal suo ultimo saggio di Progressive Labor e gli chiedo il perchè.
“Hai ragione. Tutto questo non l’ho scritto, ma ‘è stato un mio errore. Non sono riuscito a capire questo aspetto e ‘ora penso che dovrei scrivere una nuova prefazione a quel saggio che già di per sé era una prefazione alla ristampa di Fanshen. In quel saggio, ci sono deficienze che dovrei correggere e per le quali sono stato criticato. Ad un certo punto, ad esempio, parlo di Stalin e dico che egli aveva consigliato a Mao di fare concessioni pur di ottenere la pace in Cina. Il lettore può pensare che io attacchi Stalin, ma non è affatto così; intendevo invece dire che persino un rivoluzionario come Stalin, che certo aveva una linea corretta nell’analizzare i fatti del mondo, poteva commettere l’errore di chiedere a Mao di accordarsi col Kuo Min Tang. Quello che Stalin sosteneva era che la Cina si sarebbe trovata sola se l’America avesse deciso d’intervenire e che per questo occorreva anche prendere in considerazione un’alternativa diversa da quella della guerra civile. Mao non accettò il consiglio e basandosi su una giusta valutazione del popolo cinese continuò la lotta. Questo episodio non significa affatto che Stalin fosse disposto a tradire la rivoluzione; avrei dovuto chiarire meglio questo punto. Io ho un grosso rispetto per Stalin.
Stalin contribuì molto alla rivoluzione nel mondo. Certo commise anche molti errori e non capì certe cose, ma non si può dire che tradì la rivoluzione. Tutta la discussione fra i gruppetti, specie quelli trotskisti qui in America – come, immagino, anche in Italia – sul quando e come la rivoluzione venne tradita, è vana. La rivoluzione non fu tradita nel 1925, o nel 1927 o nel 1934; io credo che la rivoluzione sia stata tradita al XX Congresso. Naturalmente il fenomeno non si verificò improvvisamente; ma il 1956 segnò la svolta definitiva. Stalin era un leader rivoluzionario che cercava di cambiare il mondo; furono i suoi successori che invertirono il corso di questo mutamento. In questo senso non vedrei nessuna separazione fra Mao e Stalin. Mao imparò molte cose dai russi. Mia sorella mi scrive, che agli inizi degli anni ’60, prima di lanciare la rivoluzione culturale, Mao fece uno studio speciale della rivoluzione russa e di come il revisionismo avesse potuto in seguito prendere piede. Due cose gli risultarono chiare: che il socialismo può essere distrutto anche dopo 30-40anni di costruzione e che è necessaria una rivoluzione dal basso per vincere la battaglia contro il revisionismo. In questo senso la Russia fu per Mao un esempio positivo e negativo. Qualcuno dovrebbe studiare in maniera comparativa le questioni che furono sollevate in Russia negli anni trenta e in Cina negli anni sessanta; a mio parere esiste una interessante analogia.
La mia sensazione è che Stalin combatteva allora in Russia la stessa tendenza revisionista che Mao ha combattuto in Cina. I mezzi erano radicalmente diversi; e questo è molto importante. Stalin combatte il revisionismo con metodi amministrativi, affidandosi al potere dell’esercito e della polizia, con ciò sottovalutando il popolo che egli non pensò di mobilitare. Il fatto è che non basta eliminare i revisionisti per sconfiggere il revisionismo. È la società stessa che genera revisionisti finché i valori borghesi rimangono presenti; infatti rimane un sistema contradditorio finché esiste l’ineguaglianza. Una società che eredita la divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra città e campagna, ecc. non può scongiurare la possibilità del revisionismo finché non elimina questi squilibri che di per sé generano valori borghesi, generano privilegi, ecc. In Cina Mao affrontò il problema dal basso, mobilitando il popolo in ogni villaggio, in ogni scuola, in ogni fabbrica. Se Stalin avesse fatto questo negli anni trenta, avrebbe forse vinto la battaglia e non ci sarebbero stati i Chruscev ed i Breznev”.

* Chiedo a Hinton come risponde alla osservazione comune al mondo occidentale ed anche a quello revisionista che il maoismo non è funzionale alle aree sviluppate del mondo.
“Questo è il punto. Molti, anche in Occidente, sono disposti ad ammettere che il pensiero di Mao ha una grossa importanza per una società agricola, ma rifiutano di riconoscere che abbia senso per una società sviluppata e industrializzata come la nostra. Questa è pura stupidità reazionaria, ed è ovviamente legata a tutto il concetto della modernizzazione. La grande moda anche nel mondo accademico americano è di considerare i problemi di paesi come la Cina, l’India, l’Indonesia ecc. come problemi di modernizzazione, il cui stadio è giudicato in base al numero di aerei, di strade, di trattori. L’idea è insomma che questi paesi, una volta modernizzati tecnicamente, non avranno più problemi. Secondo loro, proprio perchè Mao non è un uomo della tecnica non può avere nessuna funzione nelle moderne società occidentali. È chiaro come questa visione sia puramente oscurantistica, dato che i problemi non sono di modernizzazione, ma di potere di classe. Il problema non è quello di organizzare la società, ma piuttosto come e per l’interesse di chi essa è organizzata. Finché la borghesia si servirà della tecnica per far funzionare la società secondo i suoi interessi e ci costruirà un impero, si passerà da una crisi all’altra fino alla distruzione finale. Per questo è oggi estremamente importante che giovani, studenti e neri, influenzati dalla rivoluzione culturale e dai valori che essa afferma, comincino in questo stesso paese a rifiutare il potere della classe borghese e a contestare l’assetto capitalistico.
“Generalmente, qui nell’Occidente, si pensa che i cinesi siano irrazionalisti. La gente si chiede che cosa vogliono, ora che stanno creando una industria, che hanno avviato il loro sviluppo economico. È difficile in Occidente accettare l’idea che i cinesi vogliano un’altra cosa, vogliano un’ideologia proletaria, una nuova cultura. È questa forma di mutamento che anche noi alla lunga saremo obbligati ad affrontare, perchè la nostra società è marcia, marcia fino al midollo; ma è proprio questo mutamento che il mondo occidentale non può e non vuole accettare. Come vedi, non è più una questione di tecnica, di aeroplani o di strade. È ormai una questione di cultura. In questo i cinesi sono ormai molto più avanti degli Stati Uniti. Gli USA, al paragone, si trovano in una condizione primitiva; pensa al livello di coscienza politica, al livello di comprensione dei problemi che ci circondano, agli stessi problemi che ci poniamo o meglio a quelli che qui non ci poniamo e che ormai l’umanità dovrebbe affrontare!
In Occidente viviamo ormai nella stagnazione e nella decadenza politica.
Gli unici gruppi che si pongono queste domande sono gli studenti, i neri, certi gruppi di giovani operai. Per questo vengono perseguitati ed accusati di essere irrazionalisti, violenti, distruttivi. La rivoluzione cinese terrorizza sul serio la borghesia occidentale perchè essa può accettare tutto, ma non può accettare che si attacchi la sua ideologia, che si attacchi la sua egemonia culturale, perchè ciò significa la sua fine”.

Rientrando in casa, Hinton mi mostra il lavoro degli ultimi cinque mesi d’inverno: centocinquanta cartelle dattiloscritte, una storia di Mao Tse-tung per i bambini. “La finirò l’inverno prossimo, ora ho il problema del granturco e dei fagiani che se lo mangiano. Bisognerebbe proprio che piovesse”.