CONCILIO VATICANO I – PIO IX

Papa Pio IX 

Il Concilio ecumenico Vaticano I è stato il XX concilio ecumenico, ovvero una riunione di tutti i vescovi cattolici del mondo, per discutere di argomenti riguardanti la vita della Chiesa cattolica.

L’8 dicembre è stato indetto il Concilio Ecumenico Vaticano I che tra l’altro ha proclamato il dogma dell’infallibilità e del primato assoluto del Papa. Dal volume di Libero Pierantozzi, “I cattolici nella storia d’Italia” pubblico le parti principali sul Concilio di Pio IX.

Due giorni prima della pubblicazione della Quanta cura e del Sillabo, era in corso una riunione della Congregazione dei riti, allorché Pio IX fece interrompere i lavori e trattenne i cardinali per trasmettere una comunicazione eccezionale: era sua intenzione di convocare un Concilio per affrontare i problemi più gravi che interessavano la Chiesa.

Era il 6 dicembre 1864. Dopo i cardinali di Curia anche quelli residenziali furono messi a parte del progetto e tutti, meno due, espressero la loro approvazione. L’alta gerarchia ecclesiastica non ignorava certo la situazione nella quale versava la Chiesa, né gli ardui problemi di ordine dottrinale, disciplinare, religioso e politico che si levavano minacciosamente. Vi era in essa la coscienza, che le pur solenni condanne, ripetute in vario modo dal tempo della Restaurazione, non fossero più, ormai, sufficienti. Era però evidente che la controffensiva nei confronti della Riforma, che aveva consentito almeno il parziale recupero del terreno conquistato dai protestanti, si era dispiegata con una certa efficacia solamente dopo il Concilio tridentino e con la ristrutturazione cattolica esso impostata.

L’area del generale consenso dei porporati alla proposta del Papa arrivava fino a questo punto. La strumentazione effettiva di questa nuova battaglia, che l’enciclica Quanta cura e il Sillabo delineavano come scontro frontale e globale, era però ignota ai più, e su di essa la quasi unanimità dei cardinali subirà, come vedremo, incrinature e fratture.

Nel marzo del 1865 venne insediata una Commissione cardinalizia per i lavori preparatori presieduta dal cardinale vicario di Roma e composta dal cardinale Bilio, compilatore del Sillabo, dal cardinale Reisach, dal cardinale Bernabò di Propaganda Fide, dal Panebianco, dal Bizzarri per gli ordini regolari, dal Capalti e dal Caterini. Nel novembre successivo il progetto del Concilio venne trasmesso ai nunzi a Parigi, Monaco di Baviera, Vienna, Madrid e Bruxelles i quali furono incaricati di segnalare possibili periti da impegnare nei lavori preparatori. Intanto la guerra del 1866, benché sfortunata per l’Italia, in forza dell’alleanza con la Prussia vincitrice sull’Austria a Sadowa, consentiva l’annessione di Venezia e del Veneto e riproponeva il problema di Roma. La preparazione conciliare subì una stasi, ma nel giorno di San Pietro del 1868 una polemica bolla del Papa convocò ufficialmente il Vaticano I.

Il 6 febbraio 1869 scoppia fragorosamente la bomba che rivela il primario e vero scopo della ormai imminente suprema assemblea della Chiesa romana. La Civiltà cattolica, redatta dai gesuiti ma divenuta sempre più la voce ufficiosa della Curia romana, in una corrispondenza da Parigi rivela che il Vaticano I sarà brevissimo e avrà il compito di proclamare l’infallìbìlizà del Papa e il dogma dell’assunzio:e della Vergine.

La reazione è violenta soprattutto in Francia, in Germania, in Austria e in Ungheria. La nozione di infallibilità era sempre stata, nel passato, una delle più contrastate nel campo della teologia cattolica. Il Concilio di Costanza (1414-1418) l’aveva negata, quello Tridentino non l’aveva definita. Nei momenti critici era, di volta in volta, ritornata di attualità.

I lavori del Vaticano I, inaugurati solennemente l’8 dicembre 1869, entrarono nel vivo dopo l’elaborazione, prevalentemente di commissione, a partire dal 6 gennaio 1870. I problemi erano raggruppati in quattro voci: questione della fede, della disciplina ecclesiastica (comprendente i rapporti col mondo moderno sulla linea del Sillabo e quelli tra Chiesa e Stato), degli ordini religiosi e degli affari di Oriente.

Il 21 gennaio, dopo che l’arcivescovo di Westminster e i gesuiti avevano sensibilizzato l’ambiente diffondendo una lettera aperta ai padri conciliari per esortarli a proclamare l’infallibilità personale del Papa, venne distribuito lo schema De Ecclesia, incentrato sulla definizione dogmatica del primato sotto il titolo De Romano Pontefice. Il problema dell’infallibilità venne presentato e proposto, sulla scia della campagna già in atto, mediante un emendamento allo schema.

Il grande interrogativo conciliare era posto, ma il dibattito si trascinò per quasi due mesi, fino alla fine di febbraio, investendo – con l’intervento di 150 oratori – le varie materie senza che quasi mai vi fosse un riferimento diretto all’infallibilità. Era il nodo centrale, gli schieramenti nella discussione si componevano in relazione ad esso, ma, formalmente, non era ancora sul tappeto. Per il momento si parlava De moribus clericorum, De episcopis, De catechismo, ecc.

La sera del 7 marzo venne resa nota la proposta di aggiungere al De Ecclesia un codicillo che proponeva la dichiarazione di infallibilità del Papa in materia di fede e di costumi, giustificandolo come richiesto dalla stragrande maggioranza dei padri conciliari.
Benché tutt’altro che inatteso e, del resto, anticipato dalla “operazione Manning” e dalla violenta campagna “papista” della Civiltà cattolica, l’annuncio provocò profonda emozione, entusiasmi e recriminazioni sui due versanti del Concilio. La opposizione tornò alla carica aggrappandosi alle proposte, già respinte, di modificazione del regolamento, invocando la restaurazione della libertà assoluta di discussione e l’instaurazione del principio dell’unanimità per le questioni dogmatiche. Bollinger scrisse in appoggio dei vescovi tedeschi, evocando lo spettro dello scisma sulle colonne della Gazzetta di Augusta.

Pio IX temendo una manifestazione anti fallibilista proibì addirittura il funerale solenne indetto all’Aracoeli dagli amici del conte di  Montalembert al sopraggiungere della notizia della sua morte.

Una fiacca nota in relazione alle modifiche del regolamento veniva intanto presentata dal governo francese cui replicava, più tortuoso che mai, l’Antonelli. Rispondendo a un’interpellanza, il ministro degli esteri italiano, Visconti Venosta, sottolineò in quei giorni la posizione di assoluto riserbo del governo di Firenze in merito agli sviluppi del Concilio, ciò che raffreddò ulteriormente le già tiepide intenzioni di alcuni governi di Paesi prevalentemente cattolici di intervenire a sostegno della “minoranza”.

La riunione plenaria del 13 maggio s’interessò del “piccolo catechismo”. La discussione procedeva innanzi pigramente, sonnacchiosa. Le lame del sole romano arzigogolavano tra i panneggi barocchi. Vi era quasi un senso di solitudine in molti padri conciliari o sopiti o distratti. La navicella di Pietro era in bonaccia. La seduta si stava concludendo quando, repentinamente, la presidenza pose in discussione lo schema rielaborato De Ecclesia Christi articolato in quattro capitoli: De apostolici primatus in beato Petro institutione, De perpetuitate primatus Petri in romanis pontificibus, De vi et ratione primatus romani Pontificis, e –
infine – De romani Pontificis infallibilitate.

Relatore è monsignor Pie vescovo di Poitiers, una delle bandiere dell’ultramontanismo francese. Da quel 13 maggio il Vaticano I si occuperà soltanto dell’infallibilità. L’indomani gli infallibilisti passano all’attacco sulle orme di monsignor Pie.

Già 70 padri risultano iscritti a parlare. Cinque giorni dopo tocca all’antinfallibilista arcivescovo di Vienna che tenne un discorso veemente conclusosi con un minaccioso pronostico: “Si afferma che voi crediate veramente in questo dogma. Ma quando anche ciò fosse, non vorrete pretendere che io e i miei amici riconosciamo quel che ci sembra assurdo. E se voi lo farete, si può star certi che scoppieranno scismi e vi saranno abiure nella Chiesa romana”. Due giorni dopo parlò contro l’infallibilità anche il vescovo di Parigi e, quindi, fu la volta del barone von Ketteler che tentò di far leva sulle gravi conseguenze che il nuovo dogma avrebbe avuto per tutto l’episcopato. .

L’opposizione tentava di guadagnar tempo, suscitar dubbi, conquistare gli incerti, muovere l’opinione pubblica. Le difficoltà però erano enormi: la Curia aveva il dominio dei mezzi più rapidi di comunicazione. Le rappresentanze diplomatiche erano, in genere, incerte e divise. I governi titubanti dinanzi a una battaglia che pareva già risolta. L’Antonelli manteneva il controllo della situazione, fiancheggiato dal potente apparato dei gesuiti. All’inizio di giugno, tuttavia, si compì l’atto di forza della maggioranza. La discussione aveva raggiunto una temperatura altissima: dai banchi della minoranza si era definita perfino sacrilega l’idea
dell’infallibilità del Papa.

Il 3 giugno, monsignor Maret, autore del libro Il Concilio generale che in Francia aveva segnato, l’anno prima, l’inizio della battaglia antifallibilista, ironizzò sul nuovo, dogma che, introducendo accanto alla infallibilità della Chiesa quella del Papa, avrebbe creato un nuovo mistero simile a quello della Trinità. A questo punto i legati pontifici della presidenza forti della clausola del regolamento ”revisionato” che dava facoltà di chiudere il dibattito in base alla sollecitazione presentata da almeno dieci vescovi, sbandierarono una richiesta tempestata di firme. La reazione degli antifallibilisti anche questa volta fu clamorosa ma disordinata. Ma la maggioranza non riposava. Il trionfalismo infallibilista aveva un suo traguardo: votare il dogma entro il 29 giugno, giornata commemorativa di San Pietro.

Sui primi capitoli dello schema si scivolò, abbastanza rapidamente, con un simulacro di dibattito. Solo a metà giugno si giunse alla parte dedicata all’argomento rovente.

Le tesi degli infallibilisti discendevano direttamente dalla particolare definizione del ”primato” sintetizzato dal ”tu es Petrus” evangelico e generalizzato a tutti i successori dell’apostolo. Esse venivano controbattute con larghezza di esemplificazione dagli avversari che ricordavano come pontefici, pure impegnati nell’esaltazione del pontificato, le avessero ignorate o eluse, o addirittura negate: da san Gregorio Magno a Innocenzo III. L’asprezza della contesa, la fragilità delle tesi di fondo della maggioranza, i reali rischi di nuove fratture, il pericolo delle intuibili conseguenze di una estremizzazione delle posizioni contrapposte e, infine, l’ostinata resistenza della opposizione, avevano peraltro seminato turbamento nel gregge ecumenico.

Sabato 18 giugno si ebbe un altro colpo di scena. Si levò a parlare Guidi, cardinale arcivescovo di Bologna. Fu un discorso appassionato. Il porporato tralasciò le argomentazioni dottrinali, ormai consunte dalla lunga sagra oratoria che aveva visto avvicendarsi alla tribuna una parte considerevole dei 108 iscritti, per collegarsi all’esigenza di unità che la Chiesa in tempi difficili aveva. La soluzione che avanzava era chiaramente ”conciliatrice” ma il tono adottato la trasformò in una presa di posizione antifallibilista. In sostanza Guidi proponeva che il Papa fosse proclamato infallibile ma non senza il consenso della Chiesa. Lo scandalo fu enorme: un cardinale si levava contro quella che appariva la manifesta volontà del Papa, ed era, per di più, un cardinale italiano! La Curia ebbe un attimo di panico. Temette per qualche ora la frana.

Papa Mastai convocò immediatamente il cardinale bolognese e rovesciò sul suo capo i più aspri rimproveri, affermando, ad un certo punto, alla maniera del re Sole che la tradizione della Chiesa era lui, e lui soltanto. Il Guidi si comportò con notevole dignità ma ammise che, forse, le sue parole erano andate oltre il suo pensiero. Del resto, e i fatti lo diranno, non era disposto ad andare troppo innanzi nella sua pericolosa avventura.

Dopo quel giorno la presidenza adottò misure sempre più rigide per contenere il dibattito: il campanello risuonava continuamente non appena l’oratore varcava il tempo massimo di venti minuti. L’atmosfera conciliare si era fatta pesante e l’insofferenza andava aumentando. L’opposizione aveva ormai chiaro che lo scontro non era con la maggioranza soltanto, ma con lo stesso Pontefice. Il colloquio tra Pio IX e il cardinale Guidi aveva dissipato ogni dubbio residuo. Le prospettive non potevano essere che quelle volute ”in alto”, altrimenti rimaneva lo scisma. Ma ciò, ovviamente, ripugnava a vescovi e cardinali anche dell’oppo-sizione. Domenica 3 luglio la minoranza tenne una riunione di ”corrente”.
Si decise di abbandonare la lotta dalla tribuna. Parecchi vescovi, nonostante i divieti e i richiami, presero la via del ritorno.

Mercoledì 13 luglio si ebbe la votazione parziale: votanti 601, placet (favorevoli) 450, non placet (contrari) 88, (senza tener conto di coloro che avevano lasciato Roma), placet fuxia modum (favorevoli con riserva) 62, tra i quali tre cardinali. Gli assenti erano complessivamente 91.
E si giunse, così, alla drammatica quarta sessione pubblica del Concilio Vaticano I di lunedì 18 luglio 1870. I vescovi presenti erano 535. Assenti 157 di quelli che avevano partecipato al Concilio. I placet furono 533, i non placet 2: i vescovi di Caiazzo in Campania e di Little Rock in America. Il Papa, immobile ma segnato dalla fatica che a taluni parve frammista ad amarezza, fu acclamato prima e dopo il breve discorso. Pio IX aveva vinto sicché ora il canone IV del De Ecclesia era legge suprema per tutti i cattolici così recitando: “E così Noi allacciandoci fedelmente alla tradizione mantenuta dall’inizio della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, l’esaltazione della religione cattolica e la salvezza dei popoli cristiani, insegniamo, con la approvazione del sacro Concilio, e definiamo quale dogma rivelato divinamente: che il Pontefice romano, quando parla ex cathedra, vale a dire, quando, nelle sue funzioni di maestro e pastore universale di tutti i cristiani, in virtù della suprema autorità apostolica definisce che una dottrina sulla fede o sulla morale deve essere osservata da tutta la Chiesa, sulla base dell’assistenza divina a lui stesso promessa attraverso il Beato Pietro, gode di quell’infallibilità, di cui il Divino Redentore volle fosse dotata la sua Chiesa nel definire una dottrina sulla fede o la morale; perciò le definizioni di tal genere del Pontefice romano sono irreformabili per sé e non per il consenso della Chiesa. E se taluno presumesse contraddire, che Dio non voglia, questa nostra definizione sia anatemizzato”.

La vittoria era assoluta: nessuna concessione, nessuna attenuazione. La pienezza del dogma nell’assunto dottrinale, il consenso della Chiesa escluso, la minaccia dell’anatema che taluni vescovi avevano implorato di eliminare.

Pio IX concentrava nelle mani di Roma un potere disciplinare e dottrinale inaudito, ma nonostante le polemiche, le rotture, le opposizioni la Chiesa cattolica non perdette un solo vescovo. Le sottomissioni piovvero immediatamente: solo in qualche parte della Baviera e della Svizzera gruppetti di formazione teologica seguirono il Döllinger e il; suo scisma dei ”vecchi cattolici” (Döllinger sarà scomunicato nel 1871).

Molti anni dopo, Ernesto Buonaiuti osserverà: ”L’accentramento, teologico, culturale e disciplinare, iniziatosi con Concilio di Trento nel seno del cattolicesimo romano, ha toccato ormai la sua efficienza massima. La proclamazione del dogma dell’infallihilità pontificia, recidendo definitivamente in teoria dalla correttezza ortodossa qualsiasi sopravvivenza di autonomia clericale e depauperando seriamente le mansioni gerarchiche dell’episcopato locale, ha cristallizzato rigidamente il quadro dei rapporti di sudditanza cieca e di devozione senza confini. Il regime assolutista ed infallibile del governo ecclesiastico romano ha chiuso per sempre l’età delle eresie collettive e degli scismi ”in massa”.

Indubbiamente Sedan e Porta Pia – sopravvenute poche settimane dopo – attutirono o ”mascherarono”, per il momento, le vaste reazioni .all’infallibiismo dogmatizzato. Tanto più che il sopraggiungere di tali eventi consentì di aggiornare il Concilio – che non sarà mai più ripreso – senza definire lo status dei vescovi in relazione alla nuova situazione.


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