FELICE ORSINI

FELICE ORSINI

Felice Orsini (Meldola, 10 dicembre 1819 – Parigi, 13 marzo 1858) è stato un rivoluzionario italiano e leader dei Carbonari che tentò di assassinare l’imperatore francese Napoleone III. Anticlericale e mazziniano convinto, fu un acceso sostenitore dell’indipendenza della sua terra d’origine, la Romagna, dal dominio dello Stato Pontificio.

Il 27 ottobre 1847, i difensori di Venezia che presidiavano il forte di Marghera, decisero di compiere una grande sortita contro le linee austriache. Chi più di tutti si distinse in que- sto sanguinoso fatto d’armi, che terminò con la conquista di Mestre e costò molte perdite agli Austriaci, fu un giovane ed aitante romagnolo, citato, per il suo valore, all’ordine del giorno dal Comando delle truppe veneziane. Il suo nome era Felice Orsini, nato nel 1819 a Meldola, presso Forlì, da un ex-ufficiale napoleonico; sebbene non avesse ancora raggiunto i 30 anni, aveva già avuto una vita avventurosa e agitata. Il padre gli aveva inculcato sentimenti democratici e patriottici che l’Orsini non modificò anche quando fu obbligato a convivere con uno zio ricco, ma conservatore e bigotto. Infatti, nel 1831, a 12 anni tentò di fuggire per arruolarsi nelle truppe francesi sbarcate ad Ancona e che egli, a torto, credeva fossero venute a liberare la Romagna dal papa.
A 17 anni uccise il cuoco di casa, non si sa se per errore o perchè lo spiava. Se la cavò per miracolo per intercessione dello zio ricco e perchè fece finta di volersi dedicare alla vita religiosa. Fu, infatti, inviato in un istituto di gesuiti, ma ben presto se ne allontanò per andare all’Università di Bologna, dove si laureò in legge poco prima di essere arrestato come cospiratore Carbonaro ed esser condannato all’ergastolo. Fortunatamente, nel 1846, l’amnistia di Pio IX gli restituì la libertà. Egli ne approfittò per correre tra le file dell’esercito pontificio e, quando la guerra contro l’Austria scoppiò, dopo aver combattuto a Vicenza, si ritrovò poi, come abbiamo visto, all’assedio di Venezia.

Giuseppe Mazzini

L’evasione dalla fortezza di Mantova

Alla fine del 1848 furono indette in tutto l’ex-Stato pontificio le elezioni per la Costituente ed Orsini fu eletto a Forli. Egli abbandonò allora l’esercito e si recò a Roma, dove gli fu subito affidato un importante incarico: recarsi come Commissario straordinario prima a Terracina, poi ad Ancona, per stroncare la delinquenza politica che imperversava specialmente in quest’ultima città. Fu poi mandato nell’Ascolano a reprimere il brigantaggio, ed egli vi rimase finchè gli Austriaci invasero la regione. Tornò a Roma in tempo per veder crollare la Repubblica Romana ed andarsene, poi, anch’egli in esilio.
Avido di azione e spregiatore del pericolo, Orsini divenne uno dei più audaci esecutori del Mazzini nei colpi di mano che l’agitatore‘ genovese andava organizzando un po’ per tutta l’Italia. Arrestato nel 1854, fu, rinchiuso nella fortezza di Mantova, dalla quale riuscì ad evadere con romanzesca fuga. Segate le sbarre della cella nella notte del 29 marzo 1856 egli si calò da un’altezza di circa 30 metri servendosi di lenzuola e asciugamani allacciati, ma giunto a 6 metri da terra, si lasciò andare, batté un ginocchio contro un sasso e per il dolore acutissimo svenne. Alla mattina, tornato in sè, cercò di uscire dal fossato senza riuscirvi; allora chiese aiuto ai primi passanti mattinieri, finchè due popolani, con grave loro rischio, lo caricarono sulle spalle, e facendolo passare per ubriaco dinanzi alle sentinelle austriache, lo portarono in salvo.
L’cvasione dalla fortezza di Mantova ebbe una grande eco in tutta Europa e fece salire alle stelle la notorietà dell’Orsini, specialmente in Inghilterra, dove l’audace romagnolo si recò nuovamente. Questo fatto ed anche la convinzione, ormai molto diffusa nei patrioti italiani, che le cospirazioni mazziniane non approdassero a nulla, fecero sì che l’Orsini si sottraesse al predominio morale del Mazzini.
In un primo tempo egli volle accostarsi al Cavour e gli scrisse una nobile lettera offrendogli la sua collaborazione. Cavour non rispose nemmeno. Allora l’Orsini decise di agire da solo.
Caduto sotto l’influenza di un coltissimo e intelligente democratico francese, il dottor Simon Bernard, l’Orsini si persuase che il perno della reazione europea era l’imperatore francese e che, togliendolo di mezzo, la Francia, tornata repubblica, avrebbe aiutato la liberazione italiana. Si trattava, insomma, di quella teoria dei gesti terroristici individuali, che di lì a poco sarebbe stata applicata anche dai populisti russi e che non teneva conto del fatto che i despoti non sono soli, ma rappresentano le classi reazionarie al potere. Lenin, come è noto, la condannò recisamente.

Felice Orsini intento alla preparazione delle bombe per l’attentato a Napoleone III (stampa dell’epoca)

L’attentato contro Napoleone

In una natura passionale e ardente come quella dell’Orsini il passo dal pensiero all’azione era breve. Perciò, fin dall’ottobre 1857, egli si dedicò alla preparazione dell’attentato. Il dottor Bernard, conoscitore di chimica, procurò l’esplosivo e fece eseguire le famose bombe all’Orsini, smontabili, che esplodevano a percussione con straordinaria potenza e la cui prima idea, a quanto sembra, fu di un canonico di Sarzana, che voleva usarle contro Pio IX.
Per l’esecuzione dell’attentato, l’Orsini si associò tre altri italiani, Andrea Pieri di Lucca, Carlo Rudio, di Belluno e Antonio Gomez, napoletano, i quali tutti avevano partecipato al movimento patriottico italiano e vivevano in miseria a Londra. Nei primi giorni del gennaio 1858 i congiurati partirono per la Francia e l’11 si ritrovarono a Parigi.
Girando per la città l’Orsini venne a sapere che il prossimo mercoledì, 14 gennaio, l’imperatore si sarebbe recato al Teatro dell’Opera e decise di approfittare dell’occasione per compiere l’attentato. Ma proprio quel giorno, Pieri fu riconosciuto da un poliziotto, che già in altra occasione lo aveva fatto espellere dalla Francia; fermato, perquisito e trovato in possesso di una bomba, fu condotto a un posto di polizia. Ma già il corteo imperiale giungeva all’Opera, dove i tre congiurati lo aspettavano.
Gomez fu il primo a lanciare la sua bomba, seguito subito dal Rudio. Orsini, che aveva due bombe, lanciò la. prima, ma ferito da una scheggia e accecato dal sangue, tenne in tasca la seconda. La violenza delle esplosioni, la fuga dei cavalli, gli urli dei colpiti, che furono 156 e dei quali ne morirono otto, provocarono un tal panico e una tal confusione che i tre italiani poterono allontanarsi non visti. Orsini, dopo esser stato in una farmacia a curarsi, corse a riposarsi nella sua stanza. Egli non sapeva ancora che il suo gesto sanguinoso era stato vano, perchè, nella strage compiuta, Napoleone III e sua moglie Eugenia erano rimasti incolumi.
La notizia dell’attentato si ripercosse con enorme fragore in Francia e in tutta l’Europa e servì alle classi reazionarie e particolarmente all’alto clero per imporre una nuova legge di pubblica sicurezza rabbiosamente repressiva e persecutorie.

Felice Orsini, Andrea Pieri, Carlo Rudio, Antonio Gomez davanti ai giudici, dopo l’attentato contro Napoleone

L’arresto e l’esecuzione 

La polizia parigina, intanto, aveva fatto parlare il Pieri e, attraverso le sue ammissioni, aveva potuto arrestare il Gomez, il Rudio e l’Orsini.

Durante i tre giorni che durò il processo, vi fu un colpo di scena che destò grande impressione in tutta l’Europa. Il difensore di Orsini, il grande oratore repubblicano Jules Favre, presentò al tribunale col permesso dell’imperatore, una lettera, nella quale Orsini si rivolgeva a Napoleone III, incitandolo a liberare l’Italia.
Questo gesto napoleonico era evidentemente dettato dal desiderio di rendersi amici i rivoluzionari italiani e averli alleati nella spedizione in Italia che l’imperatore meditava, la quale, nel suo pensiero, avrebbe dovuto terminare col dominio francese sulla penisola divisa in quattro Stati. Ecco perchè Napoleone III agì in modo da esaltare la figura dell’Orsini, che egli voleva contrapporre a quella del Mazzini, suo acerrimo avversario. Dall’altra parte, anche il Cavour, che voleva avere il monopolio del favore imperiale, fu molto seccato di questo modo d’agire di Napoleone III. Già qualcuno pensava che l’Orsini, divenuto adesso di moda nell’alta società francese, sarebbe riuscito a salvarsi, ma il clero e specialmente il potentissimo arcivescovo di Parigi intervennero decisamente, imponendo una spietata punizione. Perciò l’Orsini, il Pieri e il Rudio furono condannati a morte e il Gomez alla galera a vita. Il Rudio fu graziato e furono solamente l’Orsini e il Pieri che il 13 marzo 1858, vestiti col costume dei parricidi, in camicia e a piedi nudi, salirono sulla ghigliottina.

Felice Orsini fu indubbiamente, come lo definisce Gramsci, “uno dei più gagliardi uomini d’azione del Risorgimento”. Egli fu anche una delle figure più rappresentative del Partito d’Azione, il quale ebbe il torto -citiamo ancora Gramsci – di “non avete un programma di governo, limitandosi, in sostanza, ad essere, più che altro, un organismo di agitazione e propaganda al servizio dei moderati”, nel senso che questi si giovarono degli errori e dei conflitti interni del Partito d’Azione. Sotto questa prospettiva va guardato anche l’operato di Orsini, che, pur animato da generosi intenti, finì col giovare di più alla causa dei moderati che non a quella delle correnti progressive.

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