PASSATO E PRESENTE – Antonio Gramsci

L’UOMO GRAMSCI

L’umanesimo scientifico e militante dell’intellettuale e del politico

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In una piccola nota di “Passato e Presente” che, insieme a “Le lettere dal carcere”, è il libro di Antonio Gramsci più indispensabile per chiunque voglia ricostruirne, soprattutto nei suoi aspetti più interiori, la biografia, troviamo riportato, senza commento, un brano di Eugenio D’Ors (ricavato dalla “Vita di Goya”) la cui trascrizione da parte di Gramsci non può non apparirci estremamente significativa…
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“Il y a deux façons de tuer: l’une, que l’on désigne franchement par le verbe tuer…, l’autre, celle qui reste sans-entendue d’habitude derriére cet euphémisme delicat: rendre la vie impossible. C’est le mode d’assassinat lente et obscure, qui consomme une foule d’invisibles complices “.

.Un terzo della vita di Gramsci, da quella mattina dell’8 novembre 1926 in cui egli fu arrestato a Roma in via G. B. Morgagni 25, nella casa dei signori Passarge dai quali egli aveva preso in affitto, dopo la sua elezione a deputato nel 1924, una camera mobiliata, a quell’alba del 27 aprile 1937, in cui egli muore nella clinica “Quisisana” di Roma all’età di 46 anni, tre giorni dopo lo spirare ‘legale’ della sua pena, è appunto la storia di quello che, nelle intenzioni di Mussolini e dei suoi complici, altro non doveva essere che un “assassinio lento e oscuro”. Un elemento essenziale della grandezza intellettuale e morale di Gramsci, dalla cui vicenda umana esce perciò una lezione d’umanità che forse, per la sua intensità, non ha uguali nella storia d’Italia, che pure, contrariamente a quanto si è soliti, volgarmente, pensare o dire, non è una storia priva di forti caratteri individuali, proprio perché soltanto chi ha un forte carattere può affermarsi come grande personalità anche semplicemente artistica, in un paese come il nostro, afflitto, attraverso i secoli, dalle forme più grette e meschine di tirannide; un elemento essenziale della grandezza intellettuale e morale di Gramsci, dicevo, consiste proprio nel fatto ch’egli non si limitò a subire, senza tentennamenti, il supplizio inflittogli, ma oppose ad esso, fino all’ultimo, una resistenza lucida, concreta, operosa, trasformando quello che avrebbe dovuto essere, appunto, un “assassinio lento e oscuro” in un duello eroico da lui combattuto contro i suoi carnefici, e gli anni nei quali si voleva “impedire a questo cervello di funzionare” negli anni della sua più alta e feconda vita intellettuale. A nessun costo, insomma, e in nessun caso, Gramsci volle “fermarsi e morire”, ma se mai, secondo un motto degli Zulù da lui trascritto da una rivista inglese, in un’altra nota di “Passato e Presente”… “avanzare e morire”.
Il valore di questa resistenza mi appare tanto più alto, quanto più riusciamo a comprendere, attraverso le stesse pagine di Gramsci, quanta forza morale gli ci volle appunto per non ‘fermarsi’, per non fare inaridire quella che è la sorgente vera alla quale Gramsci riesce ad attingere fino in fondo lo stimolo più profondo della sua attività intellettuale: voglio dire, “il gusto della vita”, pieno, intero, sano, che solo i veri rivoluzionari hanno e che è anzi una delle condizioni per essere un vero rivoluzionario.
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Di qui, da questo umanistico “gusto della vita”, da questo suo umanesimo scientifico e militante, deriva infatti in Gramsci quella sua meravigliosa e incredibile capacità di far sì che mentre il suo corpo (afflitto fin dalla infanzia da una deformazione alla spina dorsale e ben presto colpito, nel carcere, dall’uricemia e dalla sclerosi del sistema vascolare) letteralmente si disfaceva nei tormenti, ed egli poteva essere spinto a vivere senza alcuna prospettiva, dato che non era curato e non vedeva una qualsiasi via di uscita dal logorio fisico che lo consumava, invece “tutto gli interessasse ancora”.
Tutto: cioè tutta la vita e tutto della vita. Dai più ardui problemi teorici che scaturiscono dalla vita dell’uomo in generale, dalla sua pratica come essere sociale, ai fenomeni più elementari dell’esistenza d’una piantina, d’un insetto, d’un passerotto – a questi pochi frammenti della vita della natura con i quali egli riesce ancora a mantenere il contatto pur dentro le mura del suo carcere, con il cuore gonfio dei ricordi della infanzia trascorsa in un paese della campagna sarda, con il cuore teso all’infanzia dei suoi figli lontani, e ai quali cerca d’inculcare la sua stessa passione per le bellezze della natura e la curiosità verso “il brulichio di esseri” che popolano il mondo.
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È vero che Gramsci ama parlare poco dell’aspetto negativo della sua vita carceraria, prima di tutto perché non vuole essere compianto (… “ero un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata, e i combattenti non possono e non debbono essere compianti, quando essi hanno lottato non perché costretti, ma perché così essi stessi hanno voluto consapevolmente”…), ma anche dalle sue lettere e note degli anni del carcere, come dai ricordi dei suoi compagni di prigionia e degli amici e dei familiari, e dai documenti ufficiali, quale quadro drammatico alla fine non ne risulta, di questa lotta di Gramsci per restare e sentirsi “vivo”! Né si tratta soltanto, si badi, della lotta necessaria per resistere fisicamente alle malattie che lo logoravano. Il problema principale, per Gramsci, fu quello di impedire che la prigionia lo consumasse, lo distruggesse, intellettualmente.
In un articolo “L’arte di Carlo Bini” di Mario Bonfaritini – egli scrive, sempre in “Passato e Presente” – sono citati questi due versi (o quasi)…”
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La prigione è una lima sì sottile, che temprando il pensier ne fa uno stile”.
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Chi ha scritto così? Lo stesso Bini? Ma il Bini è stato davvero in prigione (forse non molto)? “La prigione è una lima così sottile – commenta Granisci con un’amara e lucida ironia di stampo davvero leopardiano – che distrugge completamente il pensiero, oppure fa come quel mastro artigiano, al quale era stato consegnato un bel tronco di olivo stagionato per fare una statua di San Pietro, e taglia di qua e taglia di là, correggi, abbozza, finì col ricavarne un manico di lesina”.
È appunto contro questo “lavoro di lesina” compiuto dalla prigione sullo spirito che Granisci lotta in primo luogo per sfuggire. Ha visto altri prigionieri (si ricordi che Gramsci per qualche tempo visse anche insieme ai carcerati ‘comuni’, non politici) abbrutirsi in modo incredibile, e ciò gli ha servito “come ai ragazzi spartani serviva il vedere la degradazione degli iloti”. Così ad un certo momento (20 maggio 1929, dopo tre anni di carcere) egli riesce a sentirsi “assolutamente calmo”, e in grado di sviluppare un programma organico di studio e di lavoro. Di questa intenzione egli aveva già scritto due anni prima alla cognata Tatiana Schucht…”
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Sono assillato… da questa idea: che bisognerebbe fare qualcosa “fur ewig”… Insomma, vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore”…
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Si tratta, certo, d’un materiale frammentario, ma dal quale, alla fine, balza fuori evidente una visione coerente della storia dell’Italia moderna, dall’epoca dei Comuni alla crisi della prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, fondata su un’analisi suggestiva e stimolante della struttura e dello sviluppo della società italiana studiata anche nelle più sottili e complesse manifestazioni della sua vita culturale e morale. A questa visione e a quest’analisi si collegano in modo organico un’indagine originalissima sui problemi della conquista e dell’organizzazione del potere politico da parte della classe operaia e un metodo d’analisi marxista che rappresenta uno sviluppo della stessa metodologia marxista, nel quadro di quella interpretazione rinnovatrice del marxismo della quale Lenin è stato, e rimane, nell’epoca nostra, l’alfiere e il principale protagonista.Non c’è dubbio che è in questi scritti degli anni del carcere che Gramsci spinge al più alto livello le sue capacità di elaborazione teorica, in un clima di tensione intellettuale e morale che non può non riempire il nostro animo di commossa meraviglia. E’ evidente però che sarebbe impossibile comprendere l’opera teorica di Gramsci negli anni del carcere, se la si considerasse separata dalla sua attività pratica e dalle lotte reali nelle quali egli, con la classe operaia italiana, fu impegnato. Questa attività pratica e queste lotte reali rappresentano infatti la condizione perché, nella sua mente, il marxismo riviva con un nuovo slancio e si sviluppi in modo creativo, affrontando i problemi che stavano in quel momento di fronte al movimento operaio in Italia e in tutto il mondo. In riferimento a questi problemi il pensiero di Gramsci sempre si sviluppò, sempre, anche negli anni della segregazione carceraria, anche quando, negli scritti di quegli anni, egli sembra affrontare i problemi più astratti e più staccati da un riferimento pratico immediato.
In verità, la stessa vastità e complessità delle indagini svolte da Gramsci negli anni del carcere non si spiegherebbe se non si comprende come Gramsci avesse piena coscienza del fatto che una fase nuova si era ormai aperta nella storia del mondo con il passaggio del capitalismo alla fase imperialistica, il conseguente scoppio della prima guerra mondiale, e la vittoria della rivoluzione d’Ottobre. Questa fase (scientificamente prevista da Lenin) è la fase della fine delle società borghesi e della vittoria delle rivoluzioni proletarie. In questa fase, si pongono alla classe operaia i compiti più ardui: quelli di dar vita a Stati di tipo nuovo, di riorganizzare, attraverso questi Stati, la società umana in forme nuove, e quindi, come a Gramsci non sfuggiva, di operare una grande riforma anche di carattere morale e intellettuale, trasformando il modo di pensare e di operare, la coscienza, di milioni e milioni di uomini.

La grandezza di Gramsci, come rivoluzionario e come pensatore marxista, consiste essenzialmente, da un lato, nell’aver compreso il carattere complesso, gigantesco, impossibile a rinchiudersi in schermi mentali e in comodo formulario di ricette pratiche, di tali compiti…, dall’altro, di aver compiuto uno sforzo geniale per dare alla classe operaia italiana piena coscienza della natura di questi suoi compiti, e dei mezzi per attuarli, nel momento in cui essa, “partita da rivendicazioni economiche e politiche attuabili e possibili nell’ambito dell’ordinamento borghese, non può porsi ormai che come antagonista della borghesia industriale e agraria nella direzione di tutta la società nazionale”. (Quest’ultimo virgolettato è di Palmiro Togliatti).

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