LENIN E LA DEMOCRAZIA DI PARTITO

LENIN E LA DEMOCRAZIA DI PARTITO

Dieci anni dopo la rivoluzione, nel clima appassionato e teso di discussioni e di contrasti sulla piattaforma della maggioranza del Comitato Centrale (C.C.) del partito e quella del blocco delle opposizioni – definito poi blocco antipartito – capeggiato da Grigory Zinoviev e Leon Trotsky, prima durante e dopo il XV congresso dell’ottobre 1.927, circolavano nel partito, con particolare insistenza, ragionamenti come questo: chi e in quali occasioni fra i massimi esponenti del partito era stato nel passato recente o lontano in disaccordo con Lenin e chi era sempre stato d’accordo con lui.

Al vaglio, non sempre scrupolosamente obiettivo, nessuno degli esponenti dell’opposizione si salvava. O su posizioni di destra o di sinistra, o prima della rivoluzione, o durante, o dopo tutti gli oppositori si erano sempre schierati in momenti decisivi contro Lenin. In contrapposto, gli appartenenti alla maggioranza erano coloro che meno avevano peccato contro Lenin e, taluni di essi, in primissimo luogo Joseph Stalin, erano sempre stati d’accordo con lui. Si voleva in tal modo presentare Stalin come il più fedele interprete e continuatore del pensiero e dell’opera di Lenin e, coloro che con Stalin divergevano, gli avversari incancreniti e incorreggibili del leninismo, anzi, dei nemici del leninismo, del partito, della rivoluzione e dell’Unione Sovietica.
Era l’inizio della identificazione di Stalin con il leninismo, la rivoluzione e il socialismo.
E l’operazione riuscì abbastanza rapidamente quantunque nulla si possa immaginare di più antitetico al pensiero, allo spirito e al metodo di Lenin, il quale disistimava tra i componenti degli organismi .dirigenti del partito e dello stato massimamente coloro che sapevano dire sempre e soltanto di si, che non sapevano sbagliare perchè non ne avevano il coraggio o perchè non sapevano pensare con la propria testa.
Dal 1924, soprattutto dal XV congresso del partito in poi, tutto quello che nell’Unione Sovietica si fece, in bene e in male, venne fatto nel nome di Lenin e del leninismo, come se gli uomini avessero cessato di avere una propria responsabilità e fossero diventati dei sacerdoti chiamati ad interpretare in modo più o meno fedele e rigoroso il verbo enunciato da Lenin. La dimostrazione della fedeltà a Lenin e al leninismo si trasformò a poco a poco in una esercitazione pedantesca di ricerca unilaterale e faziosa di brani dei suoi scritti, adatti a spiegare tutte le situazioni e a risolvere tutti i problemi.
Il solo sacerdote veramente infallibile nella interpretazione esatta del pensiero di Lenin divenne Stalin, chi si metteva in contrasto con Stalin, si metteva automaticamente in contrasto con Lenin e commetteva non un errore, ma un crimine imperdonabile.
In conseguenza di ciò, l’opera compiuta per decenni da apologeti superficiali e unilaterali e quella dei detrattori, avversari interessati, hanno finito per imporre ad un largo pubblico una immagine falsa del pensiero di Lenin e della sua figura di uomo e di rivoluzionario.
II teorico della natura di classe dello stato, della fase imperialistica, di sviluppo del capitalismo, della trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile, della dittatura del proletariato, del terrore rosso per stroncare il terrore bianco dei nemici della rivoluzione e della costruzione della III internazionale per promuovere e dirigere la rivoluzione socialista nel mondo, non ha mai preteso di dettare la soluzione di tutti i problemi futuri dell’Unione Sovietica e dell’umanità. Egli cercava semplicemente la via migliore per risolvere i problemi immani che la storia tormentata di quegli anni poneva di fronte al partito, al giovane stato sovietico e al movimento comunista internazionale, partendo dalla concezione rivoluzionaria di Karl Marx, consapevole che la rivoluzione bolscevica aveva aperto una nuova fase della storia universale.
Come uomo di pensiero e di azione, come rivoluzionario moderno, che aveva studiato la realtà russa e il movimento operaio internazionale dell’ultimo mezzo secolo, era la negazione assoluta delle formule e dei dogmi. La sua nota intransigenza nella difesa delle proprie posizioni e delle proprie opinioni sui problemi concreti era pari alla sua tolleranza nell’ascoltare e studiare le ragioni e le opinioni degli altri, per coglierne tutto quanto potevano contenere di giusto e di positivo, anche se giudicato complessivamente errato.
La conoscenza più obiettiva della sua vita di uomo e di rivoluzionario, due aspetti che in lui si integrano in sommo grado e si fondono, ce lo mostra grande per le sue incomparabili doti di combattente e di dirigente e per il coraggio di riconoscere gli errori che lui stesso poteva commettere. Egli lasciò un’impronta profonda sui primi dieci anni della rivoluzione, che costituiscono il periodo più fecondo, più umano e più ricco di fermenti e di idee.
Abbracciata la causa del proletariato e degli sfruttati, di cui conosce le immense sofferenze e le condizioni storiche e sociali che le determinano, Lenin si rende perfettamente conto che la lotta di classe e il trionfo di questa causa, che è in pari tempo la causa del progresso e della liberazione dell’umanità da tutte le schiavitù, non è un idillio. Questa lotta ha le sue leggi inesorabili alle quali è giocoforza assoggettarsi, senza l’inceppo di romantici sentimentalismi, pena la disfatta, per aprire all’uomo la via verso la futura libertà integrale.
Tutte le volte che egli ha propugnato, sul piano teorico e pratico, l’adozione di misure coercitive e repressive, lo ha sempre giustificato con la necessità di difendere la rivoluzione e le sue conquiste, contro i nemici interni ed esterni, per scongiurare alla classe operaia e al popolo catastrofi e lutti maggiori, come è accaduto dopo la Comune di Parigi e la rivoluzione del 1905; con l’esistenza in Russia di rapporti di forza sfavorevoli alla classe operaia, la sola conseguentemente rivoluzionaria, rispetto al rimanente dei cittadini. Egli sapeva che queste due condizioni erano storicamente transitorie e che, con il superamento delle quali, le forme e il grado di coercizione e di violenza contro la minoranza degli avversari e dei nemici dovevano gradualmente perdere la loro intensità. allargando via via i confini alla libera espansione della personalità umana per tutti.
La tesi secondo la quale più progredisce la costruzione socialista, più si inasprisce la lotta delle classi e più pericoloso diventa il nemico di classe, dalla quale è derivata nella pratica la repressione spietata di qualsiasi pur timido dissenso, l’attribuzione della responsabilità di qualsiasi difficoltà e di ogni insuccesso al sabotaggio del nemico e all’opera della controrivoluzione, con tutte le luttuose conseguenze che hanno coperto un lungo periodo storico, non è assolutamente di Lenin. Essa è anzi la negazione delle sue concezioni.
Lenin prevedeva, al contrario, che si dovesse compiere una svolta nell’adozione dei metodi repressivi quando la controrivoluzione e lo intervento armato straniero fossero stati definitivamente sconfitti.
In questo senso egli si esprimeva in una lettera diretta a Felix Dzerzhinsky, ricordata da Palmiro Togliatti nella sua nota intervista a “Nuovi Argomenti” del 1956.
Lenin concepisce il partito come un’associazione volontaria di combattenti consapevoli per il socialismo. Il partito deve essere la parte più cosciente della classe operaia, la sola classe conseguentemente rivoluzionaria, e questa qualità del partito deve riflettersi anche nella composizione delle sue file e dei suoi organi dirigenti, che deve essere prevalentemente operaia. L’ideologia cui si ispira il partito deve essere il marxismo inteso come pensiero rivoluzionario vivo, non corrotto dal revisionismo, che ha compiuto scoperte fondamentali di valore rivoluzionario universale, senza esaurire il campo del conoscibile, e di cui nessuno possiede il monopolio.
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“Nulla sarebbe a noi più gradita di una critica marxista data dal di fuori della nostra analisi, – scriveva egli in polemica con Karl Kautsky, – Invece di scrivere frasi assurde (e in Kautsky ve ne sono molte), secondo le quali si pretende che qualcuno impedisca di criticare il bolscevismo, Kautsky avrebbe dovuto dedicarsi ad una simile critica”.
(La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautzki).
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Quale strumento insostituibile, e non necessariamente isolato, di lotta per la conquista del potere e la costruzione del socialismo, il partito deve essere unito nell’azione sulla base di una piattaforma politica fissata, corretta e sviluppata dai congressi, che sono la manifestazione suprema della volontà collettiva, democraticamente espressa. I congressi devono essere tenuti regolarmente e con frequenza, perchè possano essere essi e non altri organismi delegati a decidere su tutte le questioni più importanti.
Durante i difficili anni della rivoluzione e della guerra civile, nelle situazioni più drammatiche e pericolose, e fino a quando l’infermità non ha staccato Lenin dal lavoro regolare, i congressi sono stati tenuti tutti gli anni. Inoltre, nell’intervallo tra i congressi venivano tenute delle conferenze.
Allora non si era ancora scoperto che i congressi fanno perdere del tempo. Lo statuto del partito stabiliva che le organizzazioni del partito, rappresentanti un terzo degli iscritti, che erano stati rappresentati al precedente congresso, potevano in qualsiasi momento chiedere la convocazione di un congresso straordinario. E se il C.C. avesse respinto la richiesta, le organizzazioni richiedenti potevano assumere tutti i poteri del C.C. per la convocazione e l’organizzazione del nuovo congresso.
Congressi e conferenze erano occasioni per mettere in discussione tutta la politica del partito. Quando la Aleksandra Michajlovna Kollontaj sostenne al congresso, a nome della “Opposizione operaia”, che essa intendeva modificare la linea politica del partito, Lenin rispose che tutti hanno il diritto di volere modificare la linea politica del partito, e che tale possibilità era stata concessa anche alla “Opposizione operaia”.
La stessa larghezza di vedute si trova in Lenin in tutte le questioni della vita interna del partito.
Il concetto di monolitismo, sviluppato e applicato al partito negli anni successivi al 1927, è estraneo a Lenin. Egli parla della necessità di coesione, di compattezza, di unità, di lavoro unanime e di volontà unica nella direzione dell’azione del partito. Ma come obiettivi da raggiungere in ogni concreta situazione, in ogni fase della lotta. La disciplina del partito non è, secondo lui, semplice costrizione esterna. Essa deve fondarsi sulla coscienza dell’avanguardia proletaria, sulla sua fedeltà alla causa della rivoluzione, sulla capacità di autocontrollo, sul suo spirito di sacrificio e sul suo eroismo; essa deve basarsi sulla attitudine ad avvicinarsi alle masse proletarie in primo luogo, come pure alle masse lavoratrici non proletarie, sulla capacità di legarsi e, in una certa misura, fondersi con queste masse; sulla linea politica sicura dell’avanguardia, sulla giustezza della sua tattica e della sua strategia, con il presupposto, sempre, che le masse si convincano per esperienza propria della loro giustezza.
Senza queste condizioni, dice Lenin, “ogni tentativo di creare una tale disciplina si trasforma inevitabilmente in frasi sconclusionate, in verbalismo e in caricatura”.
Tutte queste condizioni non sono sempre conseguibili nello stesso tempo, nella misura necessaria e una volta per tutte. Bisogna sapere mettere in moto e spingere avanti un processo in tale direzione; nel corso di tale processo si incontrano delle difficoltà, degli ostacoli che bisogna sapere affrontare, superare e vincere, anche con urti, possibilmente senza rotture. L’unità del partito si ottiene con la convinzione, con la consapevolezza di tutti i militanti, sulla base della più ampia libertà di espressione del pensiero e di critica.
La disciplina nel senso di coercizione ha i suoi limiti e non può mai diventare imposizione amministrativa. Unità e disciplina devono essere combinate, ma nel partito rivoluzionario del proletariato l’elemento determinante e decisivo deve sempre essere la convinzione.
La coercizione è una esigenza esterna, imposta dalla necessità di presentarsi uniti e compatti di fronte all’avversario, si seguire nella pratica una e non due o tre politiche contrastanti, pena la sconfitta. La necessità di ricorrere alla disciplina è sempre indice di debolezza. Perché la libertà di critica non risponde a considerazioni di democrazia pura, astratta, per la quale Lenin ha sempre manifestato il più altro disprezzo, ma alla necessità che ogni comunista sia un cervello pensante, per raccogliere in una sintesi generale il contributo dell’esperienza, delle riflessioni critiche e dei ragionamenti di tutti i militanti. Quando non è possibile, a queste condizioni, ottenere l’unità nell’azione, unità nell’azione si badi bene e non accettazione di posizioni della cui giustezza non si è convinti, – non si risolve il problema impedendo a chi dissente di esprimersi.
Quando il dissenso non si può comporre, o contenere nei limiti della critica e del dibattito, e l’unità nell’azione viene irrimediabilmente compromessa, Lenin non esita ad affermare che è preferibile “una onesta e aperta scissione” del partito, anche nelle condizioni più difficili e pericolose (16 novembre 1917).
Quante cose ingiuste sono state dette e fatte dal 1924 al 1953 per tutelare il carattere monolitico del partito, avvalendosi dello schermo del centralismo democratico! La norma del centralismo democratico è diventata lo strumento per omogeneizzare gli organismi dirigenti e i cervelli, per impedire la manifestazione del dissenso, soffocare la critica e lo stimolo del pensiero, fino alla pratica sbrigativa di impedire a chi dissente di parlare e di scrivere, per fare credere che chi detiene le leve del comando del partito e dello stato, qualunque cosa faccia o dica non sbaglia mai e ha sempre ragione .
L’essenza del pensiero e dell’azione pratica di Lenin in questo campo sono chiari: la maggioranza decide in ultima istanza, dopo la libera e ampia discussione, ma non basta essere maggioranza per avere necessariamente ragione. Anche la maggioranza può sbagliare. La critica di chi è rimasto minoranza è perciò legittima e necessaria€ al partito.
Quando David Riazanov propose al X congresso del partito un’aggiunta alla famosa risoluzione detta dell’Unità del partito, – usata poi in seguito per liquidare ogni opposizione e ogni divergenza, – nel senso di vietare che fossero portate a conoscenza del patito eventuali divergenze, Lenin si oppose decisamente, perchè:
“Non possiamo privare il partito e i membri del C.C. del diritto di rivolgersi al partito nel caso in cui sorga un dissenso su una questione fondamentale. Non riesco a figurarmi, – esclama egli, – come potremmo fare questo!”
Così egli respinse la proposta ancora di Riazanov di impedire che nei congressi si potesse votare sulla base di distinte mozioni.
“Se le circostanze faranno sorgere dissensi fondamentali, – argomenta Lenin – possiamo noi proibire che vengano sottoposti al giudizio del partito? No! Questa è una pretesa soverchia, non attuabile e propongo di respingerla”.
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Lenin riconosce persino una specie di diritto alla immunità per il membro del C.C. dissenziente, perchè quando un oppositore sostenne, sempre al X congresso, che il 7° paragrafo della risoluzione sull’unità del partito relativo alle misure disciplinari contro i membri del C.C., era inutile perchè lo Statuto dava ugualmente al C.C. il diritto di procedere, Lenin rispose che il proponente non conosceva nè lo Statuto, nè i principi del centralismo democratico, nè quelli del centralismo, e proseguiva:
“Nessuna democrazia, nessun centralismo consentirà mai al C.C., eletto dal congresso, di destituire qualcuno dei suoi membri. Il C.C, viene eletto dal congresso e con ciò il congresso gli trasmette la direzione. E il nostro partito in nessun luogo ha mai concesso al C.C. un tale diritto nei confronti di un proprio membro”.
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Vivente Lenin si è tentato una sola volta di applicare i rigori del paragrafo 7° della risoluzione sull’unità del partito. Istruttivo è l’esito.
Dopo il X congresso la “Opposizione operaia” non disarmò. Mantenne una propria organizzazione semiclandestina, ramificata nel partito e nel Paese, si concertava sul comportamento da assumere nelle varie istanze, tentò di conquistare con uomini di propria fiducia la direzione di alcuni sindacati tra i quali quello dei metallurgici, dei Soviet della provincia, e così via. Tante ne fece l’opposizione che la maggioranza del C.C. propose di espellere il proprio membro Aleksandr G. Scliapnikov.
Il 9 agosto 1921 si tenne la riunione congiunta del C.C. e della C.C.C. prevista in questi casi dalla risoluzione sull’unità del partito. L’espulsione non potè effettuarsi perchè mancò un voto al raggiungimento dei due terzi prescritti.
La questione ebbe una coda all’XI congresso del partito del marzo-aprile 1922. L’opposizione non si era sciolta dopo la mancata sanzione disciplinare. Il congresso nominò una commissione composta da 19 delegati per fare una richiesta e riferire. La commissione potè accertare:
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1 – Che gli oppositori avevano mantenuto una posizione equivoca verso approcci indiretti di elementi che in Occidente volevano dare vita ad una IV internazionale.
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2 – Che la Kollontai aveva tenuto un discorso contro la politica del partito al congresso dell’Internazionale.
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3 – Che l’opposizione teneva riunioni di frazione, e la Kallontai non lo negò, ma si rammaricò soltanto perchè erano state poche.
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4 – Scliapnikov e Miedviediev non avevano fatto conoscere al partito lettere contro il partito medesimo a loro dirette.
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5 – Gli oppositori avevano compilato in una riunione clandestina e alla presenza di un espulso dal Partito, e inoltrato al Comintern, un appello contenente accuse gratuite infondate contro il partito, la sua politica ed i suoi dirigenti, ed altri atti della medesima natura.
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A proposito dell’ultimo punto Lenin non contestò agli oppositori il diritto di rivolgersi direttamente al Comintern, ma condannò il modo e la sede dove l’appello era stato compilato, e il suo contenuto calunnioso.
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Dopo tutto questo, dopo il X congresso e la risoluzione sull’unità del partito, l’XI congresso concluse dando mandato al nuovo C.C. di espellere la Kollontai, Scliapnikov e Miedviediev, con la procedura prevista dal famoso 7° paragrafo… “nel caso in cui essi non desistessero dall’azione frazionistica!”
Venne invece espulso un tale Mitin, per la sua azione disgregatrice nel Donbass, e un tale Kuznietzov, per avere celato al partito il suo passato di borghese e di avversario.
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Questo era Lenin e questo era il partito bolscevico all’epoca sua. Già allora il suo metodo, che era l’indice della sua forza ed espressione delle sue concezioni, a tutti non garbava.
Al X congresso Ossinski e Riazanov lo accusarono di fare del politicantismo per le sue insistenze di includere gli oppositori negli organismi dirigenti del partito e dello stato, talvolta contro la volontà dei medesimi.
Ma lui, Lenin, rispondeva serenamente che non era politicantismo, che si trattava della politica “che il C.C. conduceva e avrebbe condotto”. Perchè, “quando esistono gruppi e tendenze malsane, dobbiamo rivolgere ad essi un’attenzione triplicata. Se esiste anche soltanto un qualche cosa di sano in questa opposizione, bisogna compiere ogni sforzo per separare il sano dal guasto”.
Egli sapeva perfettamente che le divergenze sono sempre anche il riflesso di condizioni che esistono nella realtà politica e sociale.
Per cui, non con le misure amministrative bisogna reagire, – alle quali misure si deve ricorrere con moltissima prudenza e soltanto nei casi estremi, – ma con l’azione intelligente e paziente, per modificare gli elementi soggettivi e obiettivi della realtà.
Uno schema dei suoi appunti, sulla base dei quali egli trattò il problema dell’unità del partito, indicano nelle misure per contrastare il frazionismo, in primo luogo, la pubblicazione permanente della “Tribuna di discussioni”, e la più ampia libertà di critica.
Tra le cause del frazionismo metteva il distacco dalle masse da parte del partito e citava tra i meriti dell’opposizione l’avere segnalato la necessità di migliorare le condizioni degli operai, di lottare contro il burocratismo, di sviluppare la democrazia e l’iniziativa autonoma.
Quando Lenin venne a mancare, e quando questi suoi insegnamenti vennero abbandonati o distorti, le conseguenze negative furono incalcolabili.
Soltanto le energie incommensurabili che la rivoluzione aveva sprigionato nel partito, nella classe operaia e nel popolo, permisero, malgrado tutti gli errori e immensi sacrifici, al socialismo di affermarsi e di avanzare.
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