Lo sterminio degli indiani d’America

La civiltà del progresso ha schiacciato i pellerossa

Alla metà del secolo XIX buona parte degli indiani d’America era stato allontanato dalla propria terra e confinata in ”riserve” disseminate in ogni parte degli Stati Uniti.

Rimanevano in libertà circa 300.000 indiani che abitavano le grandi praterie tra il fiume Mississippi e le Montagne Rocciose, popolate da sterminate mandrie di bisonti.
Gli indiani cacciavano il bisonte in quanto ricavavano dalla sua carne, dalla pelle, dalle ossa e dai tendini quanto occorreva loro per mangiare, per ripararsi dalle intemperie, per costruire le proprie armi e per appagare il proprio estro creativo attraverso la mirabile lavorazione degli oggetti di cuoio.
Non dedicavano alla caccia più del tempo necessario né uccidevano più animali di quanti servissero a soddisfare le esigenze vitali della tribù.
Questo territorio indiano si trovava sulla linea dell’impetuosa avanzata verso ovest della civiltà americana: valanghe di coloni, cacciatori, speculatori invasero allora le praterie, sospinti dal mito della frontiera e dal desiderio dei grandi spazi, delle risorse inesauribili, dell’oro.
Simbolo e principale veicolo di questa avanzata fu la ferrovia, che nel 1869 unì la costa atlantica e quella del Pacifico, facendo degli Stati Uniti un unico grande paese.
La fragile e frammentaria civiltà indiana cercò di opporsi all’attacco che veniva rivolto alle sue sole ricchezze, la terra e i bisonti. Le tribù più forti e combattive, guidate da capi leggendari (Nuvola Rossa, Toro Seduto) iniziarono una guerriglia che durò oltre trent’anni e si concluse con lo sterminio quasi totale degli indiani.
Tale sterminio fu provocato non solo dalle armi dell’esercito statunitense e dalle scelte operate a questo scopo dal generale Sheridan, ma anche dal progressivo venir meno delle basi economiche e culturali sulle quali si reggeva la società indiana.
Dei 3.700.000 bisonti ammazzati dal 1872 al 1874, solo 150.000 furono uccisi dagli indiani. Quando un gruppo di texani preoccupati chiese al generale Sheridan se non si doveva fare qualcosa per interrompere lo strage che stavano compiendo i cacciatori bianchi, egli rispose:
“Lasciateli uccidere, scuoiare e vendere finché i bisonti saranno sterminati, perché questo è I’unico modo per ottenere uno pace duratura e per permettere alla civiltà di avanzare”.
Quello degli indiani d’America è un esempio luminoso di storia degli sconfitti raccontata dai vincitori. Su di essa gli americani hanno costruito una gigantesca contraffazione ideologica, inventando un genere cinematografico: il western. Nel western la ”guerra alla nazione indiana” è generalmente presentata come un conflitto tra buoni e cattivi, tra i coloni e i soldati portatori della civiltà del progresso e i selvaggi indiani, pigri, feroci, infidi o – nel migliore dei cosi – fieri difensori di una civiltà inferiore e quindi destinata fatalmente a soccombere.
Solo negli ultimi anni la storiografia e l’antropologia hanno lavorato per restituire serietà scientifica e dignità culturale all’interpretazione di questa vicenda. Ne è un esempio il libro Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, di Dee Brown.
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