IL MISANTROPO – MOLIÈRE

IL MISANTROPO
MOLIÈRE

Titolo originale – Le Misanthrope ou l’Atrabilaire amoureux
Lingua originale – Francese
Genere – Commedia
Ambientazione – Parigi
Prima assoluta – 4 giugno 1666, Palais-Royal

Personaggi

Alceste; misantropo, innamorato perdutamente di Celimene, interpretato da Molière.
Filinte; amico di vecchia data di Alceste.
Oronte; cortigiano anch’esso innamorato di Celimene.
Celimene; donna superficiale ambita da molti cortigiani.
Eliante; cugina ed amica di Celimene.
Basco; servitore di Celimene.
Acaste; marchese, spasimante per Celimene.
Clitandro; marchese, spasimante per Celimene.
Una Guardia; della gendarmeria di Francia.
Arsinoè; amica più anziana di Celimene.
Dubois; servitore di Alceste.

Nel salotto della bella Celimene, una deliziosa e frivola vedova che conosce mille e una astuzia per legare a sé gli uomini, due amici ragionano fra loro, mentre attendono l’arrivo della dama. I due sono Alceste e Filinte, si stimano e sono legati da amicizia, ma non per questo hanno le stesse idee sul modo in cui deve comportarsi in società un gentiluomo. Filinte, indulgente e accomodante per natura, afferma che un briciolo di ipocrisia nei rapporti umani non guasta mai, anzi è proprio quel che ci vuole per stare in buona armonia con il prossimo: molte volte la verità è inopportuna e crudele.
Alceste non la pensa così: è un uomo rigido e intransigente fino agli estremi, non ammette assolutamente che si debba mentire per il quieto vivere nostro e degli altri. Se uno è mediocre, è giusto che sappia della propria mediocrità; se uno è un seccatore, occorre dirglielo ben chiaro anziché lasciarsi rintronare i timpani dalle sue chiacchiere; solo in tal modo molta gente smetterebbe di comportarsi in maniera sciocca e importuna. Invano Filinte tenta di convincerlo che la sua sincerità rischia di procurargli solo guai: la verità nuda e cruda di solito non è ben accetta alla maggioranza degli uomini. Ma Alceste, piuttosto che mancare ai suoi principi, si dichiara pronto a romperla con il genere umano, a trasformarsi in un misantropo.
A questo punto l’amico Filinte non può fare a meno di fargli osservare che l’oggetto dei suoi sogni, Celimene, maldicente e civettuola com’è, è proprio l’opposto del suo ideale di perfezione. Ahimè! Filinte ha colpito nel segno, questa è la grande debolezza di Alceste: egli ama, suo malgrado, una creatura che è il compendio di tutti i difetti che egli biasima, e tuttavia non può sottrarsi al suo fascino. La ragione lo spingerebbe a disprezzarla o almeno a dimenticarla, ma, come tutti sanno, non è la ragione che detta legge in amore.
Mentre i due amici parlano ecco arrivare un certo Oronte, classico esemplare di stolto vanitoso. Costui si rivolge ad Alceste per chiedere il suo parere su alcuni versi che ha composto: è tale la fama di integrità di Alceste che solo il suo giudizio può ritenersi obiettivo e sicuro. Invano Alceste tenta di schermirsi: Oronte è impaziente di declamare il proprio sonetto, sicuro, nella sua presunzione, di ottenere gli elogi del rigido Misantropo.
Terminata la lettura degli orribili versi, Filinte si affretta a proclamarli un capolavoro degno dell’immortalità; Oronte gongola, ma Alceste non riesce a trattenersi, naturalmente, e spiattella la verità: i versi sono pietosi, roba da mettere in fondo a un cassetto e lasciare lì sepolta.
Oronte. si offende, si sente un genio incompreso, ribatte con stizza, ma Alceste rimane duro come una roccia (“andate a cercare incensamenti altrove”) e invano Filinte cerca di rappacificare gli animi; Oronte se ne va, ma la disputa non finirà lì.
Compare Celimene, e Alceste, spaventosamente coerente alle sue idee anche a costo di disgustare la donna che ama, la aggredisce subito in nome della verità: “Signora, mi permettete di parlarvi con franchezza? Non sono affatto contento della vostra condotta; mi spinge alla esasperazione, e sento che dovremo venire a una rottura…”.
Celimene ha troppi corteggiatori e Alceste non 1o può sopportare: una volta per tutte essa deve decidersi e smetterla di volteggiare da uno spasimante all’altro. Mentre i due “battibeccano”, ecco sopraggiungere Basco e Clitandro, due nobilotti profumati, azzimati e desiderosi di conquistare l’amore della bella Celimene. Al gruppo si uniscono anche Filinte ed Eliante, cugina di Celimene.
A questo punto la conversazione diventa generale, si scivola nel frivolo, e Celimene, con la leggerezza crudele della bella donna viziata, fa un ritratto spietatamente vero di alcuni suoi amici assenti. La satira è gustosa e i presenti ridono e applaudono Celimene. Solo Alceste esplode indignato: “Avanti, forza, continuate!… Voi non risparmiate nessuno, e, a uno a uno, tocca a tutti. E tuttavia non c’è nessuno di loro che “si faccia avanti senza che vi si veda corrergli incontro, stringergli la mano e confermare con baci e abbracci il vostro ossequio”.
Gli altri ribattono, prendendo le difese di Celimene, la discussione sta per farsi aspra, quando giunge un messo del tribunale: Alceste è atteso davanti ai magistrati per appianare il suo incidente con Oronte. Alceste va, ben deciso, s’intende, a non cedere minimamente: “A meno che non mi venga un ordine diretto di sua maestà di trovare buoni questi versi, che danno tanto da fare, io sosterrò sempre, perbacco, che sono indegni e che chi li ha fatti merita la forca!”.
Poco dopo, Celimene riceve la visita della signora Arsinoè, il prototipo della “buona amica”.
L’esordio è al miele: per l’amicizia che porta alla cara Celimene, Arsinoè ha ritenuto suo dovere informarla che presso persone di “grande virtù” la sua condotta, le sue galanterie hanno la disgrazia di non essere lodate. Naturalmente ella si è subito schierata dalla parte dell’amica, ha fatto quel che ha potuto per difenderla, ma… Celimene ascolta con aria compresa e compunta, poi risponde: è profondamente obbligata per l’avvertimento, e vuole subito ricambiare il favore dando a sua volta un consiglio all’amica:
“L’altro giorno ero in visita da persone di grandissimo merito, le quali… fecero “cadere il discorso su di voi. Ebbene, i vostri modi, la vostra austerità ostentata, i vostri sfoggi di zelo non furono precisamente citati come un modello; codesta affettazione di gravità, i vostri eterni discorsi di saggezza e di virtù, le vostre smorfiette, i vostri gridarelli a ciò che può apparire indecente nell’innocenza di una parola un po’ ambigua, l’alta stima in cui vi tenete, le occhiate di compatimento che distribuite in giro, la vostra smania di dar lezioni, le vostre acide censure su cose pure e innocenti, tutto questo, insomma, se devo parlar francamente, fu biasimato all’unanimità, signora…”.
Arsinoè è’ troppo falsamente per bene per indignarsi apertamente: si finge dolorosamente stupita per queste parole, ma già nella sua mente medita furiosamente la vendetta.
La possibilità di vendicarsi le si presenta poco dopo, quando rientra Alceste e Celimene esce, lasciandola sola con 1’uomo. Arsinoè cerca subito di conquistarsi la simpatia di Alceste, incensando abbondantemente le sue virtù e il suo valore; ma presto comprende di aver scelto la strada sbagliata, perché Alceste risponde brusco, mostrando chiaramente che gli elogi lo infastidiscono. Pronta e abile “virata” di Arsinoè:
“Ebbene, lasciamo, se lo desiderate, questo argomento… ma il mio cuore deve compiangervi per il vostro amore; e, per dirvi tutto il mio pensiero, sarei proprio felice se il vostro ardore fosse meglio riposto. Voi meritate una sorte molto più dolce, e colei che vi ha affascinato è indegna di voi”.
Che intende dire? chiede Alceste: si rende conto che sta parlando di una sua amica?
Certo, risponde 1’altra, ma la sua coscienza non le permette di assistere in silenzio al tradimento da parte di Celimene dell’amore di Alceste; se egli la accompagnerà a casa, gli mostrerà una prova dell’infedeltà di Celimene ed eventualmente gli offrirà il modo di consolarsi.
Alceste, dubbioso, va, e Arsinoè gli mette in mano una lettera scritta da Celimene a Oronte, il bellimbusto autore di ignobili versi.  La lettera è solo amichevole, ma per Alceste il colpo è atroce; corre stravolto dalla saggia Eliante per sfogare il proprio dolore, e, nel1’impeto dello sdegno, offre il suo amore alla fanciulla.
Eliante però ha molti buoni motivi per rifiutare: innanzitutto ama Filinte; poi comprende che Alceste le si è dichiarato solo per vendicarsi di Celimene; e infine, saggia e chiaroveggente com’è, prevede che la collera di Alceste sbollirà presto ed egli tornerà ad amare Celimene.
Giusto in questo momento (nelle commedie del ‘600 non si badava molto a qualche incongruenza) arriva Celimene, tranquilla e serena. Alceste l’aggredisce sventolandole davanti al viso la lettera; grida, smania, l’invita a discolparsi.
Celimene, impassibile, non pensa nemmeno a difendersi: sì, ha scritto lei quel biglietto a Oronte, perché Oronte le è simpatico. Non c’è altro, e infatti nel biglietto non si parla d’amore. E d’altra parte, che autorità ha su di lei Alceste per osare di aggredirla, rimproverarla, insultarla? Lei, fino a prova contraria, è liberissima di far quel che vuole e, se il suo cuore avesse qualche altra inclinazione, perché non dovrebbe dirglielo sinceramente? È chiaro che la gelosia rende pazzo Alceste. Egli meriterebbe che veramente lei gli desse motivo di lamentarsi e di indignarsi.
A questo punto, piccolo colpo di scena: irrompe in scena Dubois, il servitore di Alceste, e comunica al padrone che deve andarsene in tutta fretta dalla città; un tizio, con il quale da tempo era in lite, ha vinto con l’imbroglio la causa ed è riuscito a far spiccare contro di lui un mandato di arresto. Alceste è veramente avvilito, disgustato del mondo intero.
Potrebbe ricorrere contro la condanna con buone probabilità di spuntarla, ma decide di non farlo. La nausea e l’amarezza soffocano in lui il desiderio di vincere, di combattere l’ingiustizia. Se ne andrà lontano dal mondo, per vivere in solitudine.
Prima però deve sapere se Celimene è disposta a seguirlo nel suo esilio, senza rimpianti. Celimene si è pentita di averlo fatto soffrire, riconosce di essere stata civetta e crudele e decide di sposarlo. Ma quando Alceste le chiede di seguirlo lontano dal mondo, la giovane donna rifiuta: “Io rinunciare alla società nel fiore degli anni e andarmi a seppellire nella vostra solitudine?… La solitudine sgomenta un’anima di vent’anni: io non sento 1a.mia abbastanza magnanima e forte per risolvermi a una decisione come questa…”.
Alceste è rimasto solo: rinuncia definitivamente alla mano di Celimene e va a cercare nel mondo un angolo appartato dove possa avere piena libertà di essere un uomo di onore.

COMMENTO

La commedia mira a far ridere criticando i personaggi e deridendoli in argomenti sociali e morali e le ipocrisie della società aristocratica francese, ma assume anche un tono più serio quando sottolinea i difetti che affliggono tutti gli esseri umani. Sin dal loro primo apparire sulle scene, le commedie di Molière piacquero al pubblico per la novità che rappresentavano. Eppure raramente egli inventava trame e soggetti originali: il più delle volte preferiva sfruttare il patrimonio di autori vissuti prima di lui, scartando solo le situazioni troppo macchinose. Nessuno però poteva accusarlo di “copiare”, perché egli dava alle commedie l’impronta del suo stile particolare, del suo genio.
In un’epoca abituata a dare grande importanza alle apparenze, Molière ebbe il coraggio di iniziare un nuovo genere di teatro, che descriveva senza veli i costumi del suo tempo. Spesso da giovane egli bighellonava tra la gente del popolo, per le strade, sempre pronto ad attaccare discorso e perfino a litigare: e questa esperienza di vita vissuta costituì poi l’immensa riserva della sua fantasia. I personaggi, presi di peso dalla vita di tutti i giorni, erano avari, sciocchi, ipocriti, scaltri, misantropi, ma tutti avevano in comune un pregio: erano vivi, erano veri e, per di più, erano comici.
Il pubblico accettava la critica proprio perché si divertiva a essa e a poco a poco Molière educava i suoi spettatori al gusto del comico. Egli voleva che la gente ridesse non tanto di un pover’uomo e dei suoi difetti, quanto delle disavventure, delle situazioni in cui un uomo può cacciarsi spontaneamente, fino a diventare tanto assurdo da suscitare il riso. Per questo l’opera di Molière è ancor oggi bella le valida: le sue commedie divertono, ma sanno anche far riflettere, per l’acuta indagine psicologica che le anima.

Molière ritratto da Nicolas Mignard (1658)

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