SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA – Pier Paolo Pasolini

SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA

Genere – Grottesco, drammatico
Regia – Pier Paolo Pasolini
Soggetto – Pier Paolo Pasolini (da Le 120 giornate di Sodoma del Marchese de Sade e dagli scritti di Roland Barthes e Pierre Klossowski)
Sceneggiatura – Pier Paolo Pasolini, Sergio Citti, Pupi Avati
Produttore – Alberto Grimaldi, Alberto De Stefanis, Antonio Girasante
Fotografia – Tonino Delli Colli
Montaggio – Nino Baragli, Tatiana Casini Morigi, Enzo Ocone
Effetti speciali – Alfredo Tiberi
Musiche – Pier Paolo Pasolini, Ennio Morricone
Scenografia – Dante Ferretti
Costumi – Danilo Donati
Paese di produzione – Italia, Francia
Anno 1975
Durata 145 minuti (versione originale)
117 minuti (versione rimontata e distribuita)
111 minuti (versione italiana censurata)

Interpreti e personaggi

Paolo Bonacelli: Duca
Giorgio Cataldi: Monsignore
Uberto Paolo Quintavalle: Eccellenza
Aldo Valletti: Presidente
Caterina Boratto: signora Castelli
Elsa De Giorgi: signora Maggi
Hélène Surgère: signora Vaccari
Sonia Saviange: pianista
Marco Lucantoni: prima vittima (maschio)
Sergio Fascetti: vittima (maschio)
Bruno Musso: vittima (maschio)
Antonio Orlando: vittima (maschio)
Claudio Cicchetti: vittima (maschio)
Franco Merli: vittima (maschio)
Umberto Chessari: vittima (maschio)
Lamberto Book: vittima (maschio)
Gaspare Di Jenno: vittima (maschio)
Giuliana Melis: vittima (femmina)
Faridah Malik: vittima (femmina)
Graziella Aniceto: vittima (femmina)
Renata Moar: vittima (femmina)
Dorit Henke: vittima (femmina)
Antiniska Nemour: vittima (femmina)
Benedetta Gaetani: vittima (femmina)
Olga Andreis: vittima (femmina)
Tatiana Mogilansky: figlia
Susanna Radaelli: figlia
Giuliana Orlandi: figlia
Liana Acquaviva: figlia
Rinaldo Missaglia: collaborazionista (soldato)
Giuseppe Patruno: collaborazionista (soldato)
Guido Galletti: collaborazionista (soldato)
Efisio Etzi: collaborazionista (soldato)
Claudio Troccoli: collaborazionista (repubblichino di leva)
Fabrizio Menichini: collaborazionista (repubblichino di leva)
Maurizio Valaguzza: collaborazionista (repubblichino di leva)
Ezio Manni: collaborazionista (repubblichino di leva)
Paola Pieracci: ruffiana
Carla Terlizzi: ruffiana
Anna Maria Dossena: ruffiana
Anna Recchimuzzi: ruffiana
Ines Pellegrini: serva nera

Doppiatori originali

Giancarlo Vigorelli: Duca
Giorgio Caproni: Monsignore
Aurelio Roncaglia: Eccellenza
Marco Bellocchio: Presidente
Laura Betti: signora Vaccari

Il film segue la falsariga del romanzo del Marchese dc Sade, attraverso la ripetizione infinita del numero magico 4. Quattro “Signori”, rappresentanti di tutti i Poteri, il Duca (Paolo Bonacelli, quello nobiliare), il Monsignore (Giorgio Cataldi, quello ecclesiastico), Sua Eccellenza il Presidente della corte d’Appello (Uberto Paolo Quintavalle, quello giudiziario) e il Presidente Durcet (Aldo Valletti, quello economico), si riuniscono in una villa assieme a quattro Megere, ex meretrici, e a una schiera di giovani ragazzi c ragazze, catturati tra i figli dei partigiani, o partigiani essi stessi, in una sontuosa e cadente villa, isolata dal Mondo dal presidio dei soldati Repubblichini e delle SS. Nella villa, per centoventi -giorni, sarà vigente per tutti un regolamento sottoscritto dai quattro Signori, con il quale essi sono autorizzati a disporre indiscriminatamente e liberamente della vita delle loro giovani vittime, le quali dovranno tenere un comportamento di assoluta obbedienza nei confronti dei Signori e delle loro regole. Ogni insubordinazione o pratica religiosa, verrà punita con la morte.
Le giornate si svolgono attraverso una struttura infernale dantesca, che corrisponde alle quattro parti (un Antinferno e tre Gironi), in cui e diviso il film. Le tre Megere, nella mansione di narratrici, hanno il compito di raccontare le proprie perversioni sessuali nella cosiddetta Sala delle Orge, con lo scopo di eccitare i Signori e contemporaneamente di “educate” i ragazzi alla soddisfazione dei loro appetiti sessuali. Le narratrici sono accompagnate al pianoforte da una quarta donna, che ha il compito di estetizzare ulteriormente il loro racconto crudo, pornografico e compiaciuto.
L’Antinferno mostra la sottoscrizione delle regole da parte dei quattro Signori, il loro patto di sangue (ognuno sposa la figlia dell’altro), e la cattura dei giovani repubblichini di leva da pane delle SS, e infine la caccia delle vittime da parte dei repubblichini. Le vittime vengono tradotte poi nell’enorme villa della Padana, fuori Salò, selezionate e irreggimentate dai Signori e i loro orribili galoppini. I giovani subalterni, maschi e femmine, si dividono così in quattro gruppi: le vittime, i soldati, i collaborazionisti, la servitù.

Il primo girone é il Girone delle Manie. In esso, guidati dalla Signora Vaccari (Héléne Surgére), i Signori esercitano una serie di sevizie sui corpi nudi o vestiti degli adolescenti, aiutati c rinforzati dai fedeli repubblichini. Tra le molte sevizie, primeggia quella di farli mangiare a quattro zampe, nudi, latranti come dei cani, degli scampoli di cibo gettati in terra o nelle ciotole, quando alcuni di questi bocconi di cibo sono riempiti, a sorpresa, di chiodi.
Il Girone della Mer…, dalla denominazione fin troppo esplicita, sotto la guida della Signora Maggi (Elsa Dé Giorgi), si svolge tutto all’insegna dell’oroanalità, dal momento in cui alle sempre più fitte chiacchiere erudite dci signori (che citano a memoria Klossowski, Baudelaire, Proust e Nietzsche).
Il Girone dei Sangue mostra l’apice delle efferatezze del film: qui i Signori, dopo aver costretto ognuno dci ragazzi a trasformarsi in delatore nei confronti delle infrazioni altrui, prescelgono le vittime designate allo strazio e accertano i peggiori come collaborazionisti. In seguito, in un’orgia progressiva di torture, amputazioni, e varie uccisioni rituali, i Signori, aiutati dai loro vecchi e nuovi collaboratori, Si prodigano in balletti isterici e atti sessuali necrofili sulle vittime, portando all’apoteosi il loro sentimento di disprezzo reciproco e del mondo.
Il film ha poi, non preannunciato, un Epilogo. Nel mezzo dell’immane carneficina, due giovanissimi collaborazionisti, annoiati e assuefatti, cambiano canale alla radio d’epoca che trasmette i Carmina Burana di Orff, e improvvisano maldestramente, sulla canzonetta degli anni Quaranta Son tanto triste, leitmotiv del film, qualche passo di valzer, pronunciando questo dialogo:
“Sai ballare?” …”No.”…”Dai, proviamo. Proviamo un po’…” “Come si chiama la tua ragazza?”… “Margherita”.

All’improvviso, come negli occhi del contadino Maracchione di Porcile appariva il lampo di un’umanità umile e sana, a testimoniare che anche di fronte all’orrore resta la possibilità di un’innocenza, i due adolescenti, prestati all’atroce servizio di guardia per gli aguzzini, sono con la testa altrove, liberi, e possono pensare alla propria ragazza, ad un altro mondo, semplice e normale, in cui vivere la propria vita. L’assuefazione al male non li ha disumanizzati del tutto. Un barlume di residua speranza resta, come nella Ginestra leopardiana, anche nel deserto dell’abiezione. Oltre la fine del mondo, c’é questa indocilita capacita dell’uomo di ricominciare daccapo, di vivere la propria vita sopravvivendo alla strage e all’abominio della barbarie. Questo finale, in genere giudicato come portatore di un barlume di speranza, sembra piuttosto sospeso nel suo giudizio etico. È giusto che la vita continui “nonostante tutto”? La tenerezza che ispirano i due adolescenti che preservano la loro vita personale dall’adesione ai principi del potere “pensando ad altro”, non è anche nella stessa supinità dei giovani che non si ribellano allo stato delle cose, legittimando la Nemesi dei loro Padri? Questa ipotesi dubitativa sembra accreditata dal fatto che Pasolini fosse indeciso sul finale dcl film, a tal punto da averne girati tre differenti.
Una delle ipotesi era una bandiera rossa al vento, con su scritto “È amore”. Questo finale sarebbe stato abbandonato dal regista come troppo enfatico e incline all’etica psichedelica giovanile da lui detestata. Un’altra idea era quella di uno scatenato boogie-woogie ballato da tutta la troupe, esclusi i Quattro Signori, in una sala della villa tappezzata di bandiere rosse prese in prestito dalla sezione locale del PCI. La scena fu girata, ma risultava, agli occhi di Pasolini, caotica e insoddisfacente. All’esplicitezza della critica alla violenza, operata dal film, non poteva corrispondere d’altronde un finale cosi esplicitamente ironico e sbilanciato sul versante opposto; con un’adesione immediata e totale al Comunismo. Mantenendo l’idea dcl ballo come azzeramento della carneficina, Pasolini scelse dunque il finale di “Margherita”, del dialogo fra i due soldati adolescenti. Ma l’idea del comunismo come unica via d’uscita dalla barbarie, é testimoniata in più punti del film. Gli unici, veri gesti di insubordinazione (la fuga di un ragazzo “figlio di sovversivi”, e il pugno chiuso manifestato da un collaborazionista che viene sorpreso a fare l’amore, di notte, con una serva di colore), sono gesti radicali compiuti da comunisti, e puniti dai Signori con la morte; sono, inoltre, gesti che si contrappongono a quelli di sottomissione, alle urla e alle scritto invocanti Dio dei succubi disperati che, puniti o meno per i loro “atti religiosi”, restano comunque “all’interno” della folle società degli orrori, legittimandola. Ma in entrambi i casi, dal gesto politico come da quello religioso ciò che è scomparso è la solidarista, la capacità della collettività prigioniera del potere di partecipare al dolore degli altri. Ogni tentativo di ribellione si profila in questo modo come via di fuga individuale, senza speranza, in un clima di perdita della memoria e sospensione della Storia.
Il film è attraversato inoltre da due elementi costanti che ne scandiscono ulteriormente il ritmo: da un lato l’ossessività dci cerimoniali (matrimoni, cene, ispezioni), che riprendono quelli dell’iconologia nazista, e dall’altro l’accompagnamento musicale della pianista. La pianista finirà improvvisamente suicida, di fronte alle esecuzioni capitali dei ragazzi. Così l’arte, disponibile a fare da complemento all’abominio, é, di per se, un suicidio, e non può che negarsi, finire, esaurire il suo compito di fronte a tanta crudele strumentalità. Un senso di volgarità e di banalizzazione umoristica del dramma serpeggia infatti per tutto il film, infarcito com’è di canzonette in voga durante il fascismo, ma anche di storielle e barzellette tanto sciocche quanto crudeli narrate dai Signori, che feriscono il senso della morte incombente con un’allegria posticcia e fuori luogo, che il regista definisce “satanismo granguignolesco della propria autocoscienza”.
Tutte le giovani vittime hanno lo stesso nome degli attori che le interpretano. Il film, in questo senso, rappresenta il viaggio iniziatico della “nuova gioventù” negli orrori della società dei consumi (in cui la prima merce ad essere consumata, é paradossalmente il proprio corpo): e così, coloro che si dimostrano sufficientemente accomodanti con i loro carnefici, in premio, possono essere portati a vivere nella Repubblica Inesistente, a Salò.
Salò é di certo un film estremo, che risponde alla sfida della Tolleranza rappresentando tutto ciò che viene rimosso dall’immagine che la società da di sé: la violenza e la perversione, reintegrate al finto candore televisivo di cui la nuova classe politica si fa scudo per imporre i suoi dettami, non possono che provocare indignazione e scandalo. Il film fu girato con difficoltà, tra le frequenti ribellioni degli attori, che cercavano di rifiutarsi di eseguire i gesti osceni e di pronunciare le battute in maniera così cruda ed esplicita come li aveva immaginati il regista. Ma Pasolini, durante la lavorazione, non ha mai smussato alcuna di queste punte, e ha cercato di rappresentare consapevolmente “il cuore della violenza” con una freddezza e una lucidità espressive quasi maniacali: “Se uno deve cadere a terra morto, glielo faccio ripetere mille volte finché sembra proprio un corpo che cade morto. Insomma, un punto di perfezione formale che mi serve per chiudere in una specie di involucro le cose terribili di de Sade, del fascismo”.
Pasolini non fece in tempo a vedere il suo film sul Potere montato.
Quando Salò o le centoventi giornate di Sodoma fu proiettato in anteprima al Festival di Parigi, il 22 novembre del 1975, il regista era già morto da tre settimane. Molti hanno interpretato la sua morte per assassinio come una sorta di “suicidio per procura”, un gesto volutamente provocato da un uomo stanco di vivere, che cercava il pericolo e l’autoannullamento. Altri, rifacendosi alla violenta escalation della sua polemica politica degli ultimi mesi (era giunto a sostenere che occorreva una nuova Norimberga per la DC), hanno adombrato il sospetto di una morte “non casuale”, senza credere all’autonomia della colpevolezza di Giuseppe Pelosi, il ladruncolo minorenne che lo aveva ucciso. Ciò che è certo, é che Pasolini, pur mettendo in conto la sua morte, non aveva alcuna intenzione di fermarsi. Che Salò potesse essere soggetto a traversie giudiziarie che vanno dall’imputazione per oscenità a quella di corruzione di minori, durate a fasi alterne fino al 1978, era prevedibile; e che le reazioni nell’opinione pubblica non avrebbero potuto essere di tacitante indifferenza, era l’aperta ambizione del regista: “questo film va talmente al di là dei limiti, che ciò che dicono sempre di me dovranno poi esprimerlo in altri termini. È un nuovo scatto. Un nuovo regista. Pronto per un mondo moderno”, aveva detto Pasolini in una delle sue ultime interviste. Come si preparava dunque, Pasolini, a dare battaglia all’indifferenza, a turbare l’inquietante “sdrammatizzazione” operata dal Potere, in quel mondo oltre la fine del mondo dipinto con Salò?

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