IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE – Pier Paolo Pasolini

IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE

Genere – Fantastico, erotico, epico, grottesco
Regia – Pier Paolo Pasolini
Soggetto – Pier Paolo Pasolini, da Le mille e una notte
Sceneggiatura – Pier Paolo Pasolini, con la collaborazione di Dacia Maraini
Produttore – Alberto Grimaldi
Casa di produzione – PEA Produzioni Europee Associate S.a.s. (Roma), Les Productions Artistes Associés S.A. (Parigi)
Distribuzione in italiano – P.E.A.
Fotografia – Giuseppe Ruzzolini
Montaggio – Nino Baragli, Tatiana Casini Morigi
Effetti speciali – Rank Film Labs
Musiche – Ennio Morricone
Scenografia – Dante Ferretti
Costumi – Danilo Donati
Trucco – Massimo Giustini
Paese di produzione – Italia, Francia
Anno 1974
Durata 125 minuti (versione attuale rimontata da Pasolini)
155 minuti (versione originale presentata al Festival di Cannes)

Interpreti e personaggi
Ninetto Davoli: Aziz
Franco Citti: il demone
Franco Merli: Nur ed-Din
Tessa Bouché: Aziza
Ines Pellegrini: Zumurrud
Margareth Clementi: madre di Aziz
Luigina Rocchi: Budùr
Francesco Paolo Governale: Tagi
Zeudi Biasolo: Zeudi
Elisabetta Genovese: Munis
Alberto Argentino: Shahzamàn
Salvatore Sapienza: Yunàn
Barbara Grandi: donna
Gioacchino Castellini: popolano
Abadit Ghidei: Dúnya
Salvatore Verdetti: Barsum
Luigi Antonio Guerra
Francelise Noel
Christian Alegny
Jocelyne Munchenbach
Jeanne Gauffin Mathieu
Franca Sciutto

Fonte video: YouTube – Oloferne8181

Il fiore delle Mille e una notte un film prezioso, straordinario, un grande sogno-affresco di un mondo presente e passato, lontano e vicino, in cui ogni uomo, indipendentemente dalla classe a cui appartiene, “sente profondamente la propria dignità”, in cui la rassegnazione e la povertà non sono forme di debolezza, ma di compenetrazione con il delicato, fragile equilibrio di una vita esposta. Un’atmosfera straordinaria di serenità, assolutamente inedita nel cinema di Pasolini, attraversa il suo primo ed unico film compiuto sul Sud del mondo, con il quale viene finalmente realizzato l’antico sogno del Poema sul Terzo Mondo. Per giungere ad un tale risultato, il regista aveva bisogno di liberare il progetto del Poema da quella dichiaratamente velleitaria “istanza ideologica rivoluzionaria” che lo costringeva entro i confini angusti della dialettica del potere occidentale, e di far defluire nelle immagini dei primi due film della Trilogia della vita quella prepotenza della pura libido sulla sensualità da cui ha origine la repressa etica sessuale dell’Occidente. Il sesso delle Mille e una notte è puro, liberato dai rapporti di possesso reciproco ma anche dalla fissazione narcissica e masturbatoria del playboy o della playgirl occidentali: questa libertà sessuale, agli antipodi della teoria della liberazione sessuale (coatta nella sua istanza protestataria), è l’emblema di una purezza interiore, di una cristallinità dei sentimenti che strappa il sesso dall’ambito dell’osceno.
In ognuna di queste storie il sesso non è mai morboso, ma è l’atto in cui si realizza senza inibizioni culturali la dedizione umana: e dunque è più visibile e sconvolgente il “fare l’amore con gli occhi” per cui il demone Citti uccide, decapitandola, la sua diletta, che l’atto di libidine eterosessuale, omosessuale o pedofila vissuto con la orgogliosa naturalezza del mondo arabo, che scorre quasi invisibile tra le pieghe della vicenda. L’atto sessuale in queste storie è dono, mezzo di scambio, valore a se stante, bene prezioso di cui ognuno può disporre senza remore, secondo la propria passione e il proprio gusto. Un sesso talmente delicato ed innocente, da poter essere consumato senza neppure svegliare l’amato: come nella storia di Sitt e Hasan. In essa Pasolini riesce a parlare contemporaneamente di questa visione ideale della bellezza e della purezza del sesso imprimendo un’inversione omosessuale allo schema della novella delle Mille e una notte: laddove nella novella originale la regina vanta al suo re la bellezza del ragazzo che ha visto per strada, considerandolo la più bella creatura del mondo, e la stessa cosa fa il re con la ragazza che ha appena veduto in strada, qui è il re ad accorgersi del ragazzo e la regina della ragazza. Amore per la bellezza libero da schemi e amore omosessuale appena adombrato vengono fatti confluire in una sconfinata tenerezza dei due sovrani nei confronti di quelli che potrebbero essere loro figli. La storia si conclude con il confronto tra i due bellissimi ragazzi: il primo dei due che si innamorerà dell’altro, sarà il meno bello. Ma l’uno consuma l’atto d’amore con l’altro mentre l’altro dorme, senza svegliarlo. Così la scommessa tra il re e la regina (che assistono, non visti, alla scena) su chi sia il più bello dei due, resta senza vincitore. Nessuno dei due ragazzi è il più debole, nessuno dei due può essere punito per la colpa di innamorarsi. Allo stesso modo l’innamoramento istantaneo di Aziz (Ninetto Davoli) per la sconosciuta Budùr non è fatto oggetto di colpa dalla promessa sposa, la cugina Aziza (Tessa Bouché), che con devozione totale al suo uomo lo consiglia su come fare per ottenere ciò che vuole da quell’amore. In questo episodio il “maschio latino” Aziz è quasi ridotto ad essere, con il suo sesso, il messaggero dei versi poetici che si scambiano le due contendenti, e non sa neppure decifrare le complesse simbologie gestuali con cui Budùr, dall’alto della sua finestra, gli comunica gli appuntamenti. È Aziza, rompendo i suoi intensissimi silenzi di succuba, a far comprendere il codice dell’amore di Budùr al disamorato Aziz.
Aziz si salverà dalla morte che Budùr vuole infliggergli appena viene a sapere che ha fatto morire di dolore la promessa sposa, solo recitando i versi di perdono composti da Aziza: “La fedeltà è un bene, ma è un bene anche la leggerezza”. Ma, secondo una sorta di legge del Taglione imposta dal destino, scampato all’agguato di un nugolo di donne che dovevano ucciderlo, Aziz è punito da Butur con l’evirazione, infertagli da un gruppo di bambini: l’innocenza con cui Aziza ha amato il suo uomo, punisce simbolicamente la colpa di Aziz, di non aver saputo amare, di aver confuso la sessualità con il vero amore. Il “leggero” Aziz è costretto a soffrire per tutta la vita, non (come ci si aspetterebbe) per il rimorso della morte di Aziza, ma perché, pur continuando frivolmente ad innamorarsi di chiunque, ora non può più esercitare il suo ingiusto potere fallocratico. Il potere fallocratico esce in definitiva sconfitto dalle storie delle Mille e una notte pasoliniane, dove il rapporto tra maschi e femmine è vissuto sempre da pari a pari, quando addirittura non è l’audacia della femminilità a trionfare sul maschile ossequio al potere: nella storia di Nur-ed-Din (Franco Merli) e Zumurrud (Ines Pellegrini), per esempio, solo quando il debole Nur-ed-Din avrà acconsentito che la mascolina Zumurrud, travestita da re, possa costringerlo ad avere un rapporto omosessuale passivo, i due amanti perduti potranno finalmente ricongiungersi nel loro amore.

“La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni”, dice ad un tratto un servitore alla principessa Dunja, sconvolta da un sogno premonitore. Questa è la dimensione sospesa e magica in cui si consumano gli amori felici e infelici nel Fiore delle Mille e una notte, una dimensione onirica, quieta, in cui anche la morte e la violenza non sono fonte di angoscia, ma fanno corpo con la vita stessa, con la sua inesplicabile aura di mistero. Il viaggio iniziatico (verso il sesso, verso l’eroismo, verso la santità) attraversa e unifica tutte le storie del film, le quali, seguendo lo schema del libro, si schiudono l’una nell’altra, poiché esistono solo nella mente di ogni personaggio che le narra, e che in tal modo dà vita a personaggi la cui mente è a sua volta in grado di vivere e pensare autonomamente la realtà. Come se la realtà creata, utopisticamente, potesse staccarsi e vivere di vita propria, realizzando il sogno di autonomia della materia artistica dalle tare dell’uomo storico che la mette in atto, che è l’impulso basilare che spinge Pasolini ad intraprendere il cammino della Trilogia. E per di più, poiché la storia di Nur-ed-Din alla ricerca dell’amante-schiava Zumurrud è stata scelta come trait-d’union di tutte le altre, molte delle vicende raccontate fanno parte del sogno di Nur-ed-Din, e divengono dunque sogni raccontati in sogno, con un meccanismo aperto all’inifinità che ricorda l’inenarrabilità del contemporaneo Fascino discreto della borghesia di Buñuel.

È impossibile descrivere la grandezza delle ambientazioni, della scenografia, della fotografia dell’Etiopia, lo Yemen, la Persia, il Nepal, l’India: è quasi tutto il Terzo Mondo, nella sua antica bellezza, a fare da incredibile scenario a questo mondo di sogno, fatto di deserti, isole, città, palazzi, muraglie, botole, cunicoli segreti e tende dove convivono, indistinguibili tra loro, principi e poveri, adulti e bambini, uomini e divinità. Le bande di bambini che rincorrono costantemente i protagonisti delle vicende esprimono appieno lo spirito quasi infantile della vitalità del Terzo Mondo, e svolgono una funzione a metà tra il coro del teatro greco e gli angeli del destino: se un personaggio si rende troppo debole, i bambini lo prendono a sassate (come accade a Nur-ed-Din), se il personaggio fa qualcosa di ingiusto (come fa Aziz), i bambini si dileguano perchè preavvertono un evento a cui non vogliono assistere. I rumori, le luci e le penombre della realtà locale, i gesti muti, ambigui ed evocativi degli uomini della strada non scritturati, rubati dalla macchina a mano del regista, si fondono spesso con la finzione scenica, secondo l’idea portante del Poema sul Terzo Mando. Perfino nelle sequenze originate dal fotomontaggio per nulla dissimulato (il volo di Shazaman con il dèmone, Nur-ed-Din e il leone nel deserto), la verità del film non si perde, ma acquista l’indefinibile profondità di una dimensione allucinatoria. I marcati dialetti del Sud Italia (tutti, eccettuato il decameroniano, “occidentale” dialetto di Napoli) con cui Pasolini fa doppiare i suoi personaggi, suonano perfetti su questi volti straordinari di gente di colore che esplodono nei loro sorrisi improvvisi, nelle loro movenze leggere, nella nudità senza impaccio dei loro corpi, in pieno contrasto con la pudica sfacciataggine dei bianchi corpi nudi del Decameròn e del Canterbury.

Quanto ai simboli ricorrenti della Trilogia, non è un fatto casuale che la canzone Fenesta ca lucive e mo’ nun luce, subdolo leitmotiv tragico dei due film precedenti, non sia presente nel Fiore delle Mille e una notte. Nel film della massima maturità stilistica di Pasolini, l’espressione dell’esistenza “senza decifrarla”, lasciandone intatta la compenetrazione contraddittoria tra emozione e pensiero, tra sogno e realtà, tra vita e morte, tra amore e sesso, riesce ad allontanare per una volta dall’orizzonte degli eventi l’ossessiva idea della morte in agguato. Per questo Il fiore dille Mille e una notte resta l’unico film completamente riuscito dell’intera Trilogia della vita, una sorta di canto del cigno del vitalistico “sogno di una cosa” pasoliniano.
Mai come in questo film Pasolini riesce ad esprimere un cinema di pura poesia delle immagini, a trovare un equilibrio sereno tra la bellezza della vita ingenua del Terzo Mondo, l’ossessione ricorrente della sessualità e la grandiosità delle immagini paesaggistiche, componenti essenziali del suo cinema fin dai tempi di Edipo re. E di pura poesia è fatta la straordinaria sequenza del sogno della principessa Dunja (che quasi chiude un circolo immaginario con quella del “sogno” di Accattone): in un paesaggio di bellezza primordiale, un colombo rimasto intrappolato con le ali in una rete, viene liberato da una colomba, e così può librarsi insieme a lei in un volo nel cielo aperto. Al di là del valore di verità che il sogno ha per la principessa della novella, esso ha, nei confronti del regista, una sorta di (inconsapevole o meno) valore metaforico premonitore del passaggio obbligato dall’armonia della vita all’ossessione violenta della morte in vita, all’abiura dall’ingenuità della Trilogia. Se la vita, l’elemento creatore femminino e puro della colomba bianca, può liberare dall’angoscia il grigio colombo della vita razionalizzata, intrappolata nella rete della Storia borghese, non è vero l’inverso. Il sogno ha seguito con la colomba intrappolata nella rete, e con il colombo che prosegue indifferente il suo volo nelle sommità aeree, finché la colomba muore sgozzata dal suo strenuo tentativo di liberazione.
Allo stesso modo, la bianca colomba della “vita”, del sogno, dell’emozione, dunque degli elementi del cinema di poesia, raggiunta da questo film straordinario, non viene salvata dal colombo del pensiero razionale che lei stessa ha liberato dalla rete dell’angoscia razionalizzata, e che la ignora, preso com’è nel suo volo: dunque, muore per aver “liberato la ragione”. Lo “sdoppiamento” della vita tra l’anima politica e razionale e quella ingenua e anelante la serenità, si esaurisce con questa morte rituale, in sogno, del “sogno di una cosa”, dell’utopia concreta della Trilogia. La vita diverrà ora negazione della vita, il presente della barbarie illuminista totalitaria, tacciato via a forza dalle immagini degli ultimi film, riemergerà in tutta la sua cieca violenza di dominio, a pianificare anche il dolore e la morte: da questo “ritorno al presente”, per Pasolini drammatico e senza scampo, nascerà l’inferno di Salò.

In questo presente, il rapporto conflittuale di Pasolini con l’“uomo medio” resta intatto: tanto da far ricevere all’autore del Fiore delle Mille e una notte, nel giugno del 1974, una denuncia per oscenità conseguente, paradossalmente, alla proiezione unica di beneficienza del film, che il regista ha organizzato in anteprima a Milano, con lo scopo di raccogliere fondi per realizzare un documentario a favore della “riumanizzazione” della vita in quella città. Quello che muta è il rapporto di Pasolini con il Potere: è infatti quantomeno singolare che il sostituto procuratore di Milano competente per il caso, Caizzi, riconosca lo statuto di “opera d’arte” al film senza promuovere nessuna azione penale nei confronti del Fiore delle Mille e una notte. Che cosa può essere così radicalmente mutato nella società italiana per spingerla, nel giro di qualche anno, a considerare prodotto artistico ciò che prima era oggetto di scandalo e di censura? Di certo non una palingenesi morale, né una crescita culturale e intellettuale della nazione: con la scomparsa della Repressione, l’avvento dell’epoca della Tolleranza. Pasolini si accorge di questa generale tolleranza nei suoi confronti, la quale, lungi dall’essere il frutto del riconoscimento di una validità intellettuale, e ancor meno atto di revoca della patente di “diversità” che lo accompagna, è solo “una forma di condanna più raffinata”. La strategia del Potere è cambiata, si è fatta più insinuante, diabolica.
Somiglia al principio della arti marziali giapponesi, per cui se l’avversario spinge, occorre non opporvisi, ma assecondarne il movimento e tirarlo fino a fargli perdere l’equilibrio. La falsa permissività tranquillizza tutti, neoconservatori (che possono fregiarsi di una illuminata “modernità”) e progressisti (che possono andare fieri dei loro sfoghi, ammessi, pubblicati e proiettati da coloro contro i quali sono indirizzati), e distrugge, in un solo colpo, qualsiasi dialettica sociale, riducendo l’intervento politico a fatto di costume (quando non di folklore), considerabile con gli stessi parametri di una partita di calcio o della concorrenza tra due marche di prosciutto. A questo meccanismo di omologazione delle élites, che completa quello di assorbimento delle classi subalterne, non sfugge neppure Pasolini, e lo sa bene. Infatti, il Pasolini “politico” è tormentato da questa falsa dialettica dell’omologazione, che ha anche il potere di rendere a torto ottimistiche le ipotesi riformiste dei “progressisti” e degli intellettuali illuminati; ma, a differenza di questi, riesce ancora a vivere con semplicità la sfera della sua “diversità”, di quell’”abiezione” sessuale che non può che dispensarlo dall’omologazione. Così, quella di Pasolini diventa la voce di un uomo solo che, nel deserto della “sdrammatizzazione” generale, vive nella paura di “adattarsi alla degradazione”, di “accettare l’inaccettabile”.

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