COMIZI D’AMORE – Pier Paolo Pasolini

COMIZI D’AMORE 

Documentario
Regia – Pier Paolo Pasolini
Soggetto – Pier Paolo Pasolini
Sceneggiatura – Pier Paolo Pasolini
Produttore – Alfredo Bini
Casa di produzione – Arco Film
Distribuzione in italiano – Titanus
Fotografia – Mario Bernardo, Tonino Delli Colli
Montaggio – Nino Baragli
Anno 1964
Durata 89 min
Paese di produzione Italia

Interpreti e personaggi
Camilla Cederna: se stessa
Lello Bersani: speaker (voce)
Alberto Moravia: se stesso
Oriana Fallaci: se stessa
Adele Cambria: se stessa
Cesare Musatti: se stesso
Giuseppe Ungaretti: se stesso
Pier Paolo Pasolini: se stesso (intervistatore)
Peppino di Capri: se stesso
Graziella Chiarcossi: la sposa
Antonella Lualdi: se stessa
Giacomo Bulgarelli: se stesso
Graziella Granata: se stessa

TRAMA – In un prologo, un epilogo e tre atti, da Palermo a Milano, da Firenze a Viareggio, da Roma a Bologna, da Venezia a Crowne e a Napoli passando per le campagne siciliane, emiliane e calabresi, intervistando passanti, studenti, operai, intellettuali, contadini, commercianti, Pasolini percorre un itinerario semiserio alla ricerca di risposte semplici alle domande più dirette e toccanti sull’argomento sessuale. Ad un gruppo di bambini viene chiesto come nascono i bambini, a delle ragazze un parere sulla libertà sessuale, a inferociti giovanotti siciliani come ad impettiti signori borghesi che viaggiano su di un treno pareri sull’omosessualità e sulle altre “inversioni” sessuali. Quel che se ne ricava, in prima istanza, è la sorprendente superficialità e falsità con cui il problema è affrontato, a suon di cliché, da parte della classe borghese (a cui, per converso, non sfugge nemmeno il cliché antiborghese dei borghesi illuminati come Oriana Fallaci: o Camilla Cederna, che discettano, con dottrinaria verve femminista, sdraiate sul lido di Venezia, dell’arretratezza sessuale delle italiane), contrapposte alla gravità e al disincanto che si intrecciano poeticamente nelle classi meno abbienti, negli uomini più semplici e rozzi, che vivono con una sorta di confusa ma reale istintività, nel bene come nel male, tutto ciò che è legato ai loro secolari valori.

COMMENTO – Anche in Comizi d’amare Pasolini prosegue il suo percorso di disvelamento dell’insussistenza dell’equilibrio sociale italiano, cominciato, in maniera più poetica e compiuta, con La rabbia, e lo fa adottando lo stesso metodo delle opposizioni dialettiche: la bellissima bruttezza dei volti contadini corrugati e invecchiati anzitempo, e le faccette scialbe degli adolescenti piccoloborghesi, il piglio neghittoso da intellettuale degli studentelli universitari e le risate ammiccanti dei soldatini in licenza, tutto concorre, nei capitoli a tema escogitati dal regista, alla costituzione di un pittoresco affresco (che Pasolini chiama ironicamente “Fritto misto all’italiana”) il quale resta troppo ancorato alla realtà sociale di quel preciso momento storico per essere qualcosa di più di un film-inchiesta. Solo, a tratti, si hanno alcune impennate poetiche, in immagini rubacchiate di grande suggestione, per lo più raffiguranti quei volti che popoleranno di lì a poco il suo Vangelo, di umili e sporchi contadini dal sorriso stanco; oppure risalta, tra i tanti, piuttosto inutili e chiacchieranti interventi di intellettuali, quello di Giuseppe Ungaretti, una manciata di secondi in cui il vecchio poeta nega la “anormalità” come categoria, dicendo che ogni nascita è un atto contro natura, in quanto ogni uomo è unico, specifico, essendo solo se stesso, e quindi non ha nulla di normale. Per il resto, con lo spirito autoironico di chi vive con estrema coscienza come un dramma permanente le proprie contraddizioni sessuali, Pasolini canta con mestizia l’irrevocabilità della storia sessuale, sulle immagini finali (ricostruite) di uno sposalizio, commentando: “Ogni diritto è crudele, ed essi (gli sposi), esercitando il loro diritto ad essere ciò che furono i loro padri e le loro madri, non fanno altro che confermare, cari come sono alla vita, la lietezza e l’innocenza della vita. Così la conoscenza del male e del bene e la storia, che non è né lieta né innocente, si trova sempre di fronte a questa spietata smemoratezza di chi vive, alla sua sovrana umiltà”. Dunque, un esperimento solo in parte riuscito, che dimostra innanzitutto quanto lo spirito di Pasolini sia lontano da quello dell’inchiesta sociologico-statistica, e quanto invece miri con disincanto, attraverso gli aspetti epigrammaticamente simbolici di una realtà minimale stagnante, a carpire il volto contraddittorio e grottesco di una “realtà” in cui il poeta si rifiuta di credere, e che sente il dovere di cambiare. …

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