EDIPO RE – Pier Paolo Pasolini

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EDIPO RE 

Paese – Italia, Marocco
Anno – 1967
Durata – 104 minuti
Colore – Colore
Audio – Sonoro
Genere – Drammatico
Regia – Pier Paolo Pasolini
Soggetto – Pelliccione
Sceneggiatura – Pier Paolo Pasolini
Fotografia – Giuseppe Ruzzolini
Montaggio – Nino Baragli
Musiche – Pier Paolo Pasolini
Scenografia – Luigi Scaccianoce

Interpreti e personaggi

Franco Citti – Edipo
Silvana Mangano – Giocasta
Alida Valli – Merope
Carmelo Bene – Creonte
Julian Beck – Tiresia
Ninetto Davoli – Anghelos
Luciano Bartoli – Laio
Ahmed Belhachmi – Polibo
Francesco Leonetti – servo di Laio
Giandomenico Davoli – pastore
Pier Paolo Pasolini – gran sacerdote

Prima proiezione – XXVII Mostra di Venezia, 3 settembre 1967

Premi

XXVIII Mostra di Venezia, Premio CIDALC
(Confédération Internationale pour la Diffusion des Arts et des Lettres par le Cinema)
Grolla d’oro, Saint Vincent, 6 luglio 1968
Premio Nastro d’Argento 1968 a Bini e Scaccianoce

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Appena terminato di girare “Che cosa sono le nuvole?” (che uscirà solo nel 1968, qualche mese prima di “Teorema”), Pasolini torna in Marocco e dà inizio alle riprese di “Edipo Re”, portando a compimento un progetto che risale ai tempi in cui stava girando “Accattone”.
La stesura del trattamento del film fu compiuta nell’estate del 1966, parallelamente al soggetto di quel “Teorema” che diventerà prima un romanzo “sperimentale”, poi un film, nel quale uno dei temi fondamentali della tragedia sofoclea, quello dell’infrazione del tabù sessuale familiare, diventa lo strumento di dilacerazione della coscienza di ciò che resta dell’uomo borghese.

La figura di Edipo interessa Pasolini non solo per la sua statura tragica, e neppure unicamente per le implicazioni psicoanalitiche che nella nostra cultura il mito tragicizzato da Sofocle ha assunto nell’interpretazione freudiana. Pasolini, con questo film, affronta una volte per tutte la sua ansia autobiografica, il suo personale “complesso di Edipo”; ma l’autobiografismo attraverso il quale il regista riscrive la tragedia è piuttosto il superamento della necessità autobiografica, di quella istanza con cui, tre anni prima, sovrapponeva la figura della Madonna a quella della propria madre nel “Vangelo secondo Matteo”, proiettando il mito del proprio presente sul passato.
Il vero tema del film, che sarà sviluppato ulteriormente l’anno seguente con “La sequenza del fiore di carta”, è la colpevolezza dell’innocenza. Nel contrasto tra l’innocenza di Edipo, perseguitato da un destino oscuro e avverso fin dalla sua nascita, e la colpevolezza che ha origine dal rifiuto della verità, si delinea una sorta di “peccato originale” alla rovescia: Edipo é l’uomo a cui è dato conoscere, fin dall’inizio, il proprio destino, ma che combatte contro ciò che sa perché non accetta la consapevolezza del male che è in lui, chiudendo gli occhi: è per questo che deve vagare nei secoli condannato alla coscienza, ma senza poter più vedere il mondo che ha voluto ignorare. Costruendo intorno al testo di Sofocle un prologo e un epilogo ambientati nella contemporaneità, nei luoghi e nei tempi della propria infanzia e della propria maturità, Pasolini carica la figura di Edipo di un’ansia e di un senso di sbandamento che travalicano lo sgomento dell’eroe tragico, così come superano l’evocazione del caso edipico personale. A partire dall’oscuro senso di morte insito nel testo di Sofocle, la vicenda di Edipo diviene l’emblema della “condizione umana” occidentale: quella dì una vita resa cieca dalla volontà di non sapere ciò che si è, di ignorare la propria “verità”, quella verità forse terribile, che perfino la marionetta di Otello in “Che cosa sono le nuvole”, a suo modo, cercava.

“Questo è ciò che di Sofocle mi ha ispirato: il contrasto tra la totale innocenza e l’obbligo del sapere. Non è tanto la crudeltà della vita che determina i crimini, quanto il fatto che la gente non tenta di comprendere la storia, la vita e la realtà”…, ha affermato Pasolini.
È dunque l’atteggiamento del chiudere gli occhi di fronte alla propria condizione e proseguire il cammino personale fino alla catastrofe ciò che accomuna Edipo all’umanità del Dopostoria in cui Pasolini vive: ma identificando se stesso con Edipo, archetipo di questa umanità cieca, Pasolini prende definitivamente le distanze dalla sua innocenza colpevole, e riconosce che l’epoca dell’innocenza si è conclusa, che un intellettuale “che sa” (come scriverà di sè qualche anno più tardi su un celebre articolo “corsaro”) non può più pretendere di alimentare la speranza attraverso la creazione artistica di un “mondo altro”, ma ha il compito di turbare il mondo, di sviscerare in tutta la sua nudità la crudezza delle relazioni sui cui si struttura la società in cui vive.
Edipo, condannato nel finale pasoliniano a vagare ciecamente attraverso i secoli come il vecchio marinaio di Coleridge, giunge nella contemporaneità fino al luogo in cui l’autore ha aperto per la prima volta gli occhi al mondo: Pasolini-Edipo muore dove nasce la coscienza dell’inizio di una nuova vita, dove il mondo si è manifestato all’atto del vedere, non fin dall’inizio, ma in un qui-ora che rendono quel vedere insito nella vita una ricerca del vedere, una palingenesi dello sguardo. Infatti, la rivoluzione “linguistica” che Pasolini compie con il suo Edipo re passa anche e soprattutto attraverso la scelta di abbandonare il piano dialettico, di non presentare più un “messaggio” identificabile e sussumibile attraverso schemi concettuali borghesi. Pasolini lavora alla stesura del film “come uno che ha avuto un’allucinazione”, senza un teorema da dimostrare, cercando di trasmettere, in tutta la loro contraddittorietà, le pure emozioni dei personaggi del dramma-tipo della mentalità occidentale.
Il messaggio è tutto nell’evidenza contestuale, nella costruzione di una realtà mitica in cui ogni evento ha luogo quasi senza parole, attraverso gesta violente, suoni, rumori, entro i quali le emozioni dei personaggi, liberate dal vincolo della logica, esplodono in un’immagine assoluta, ambigua, eppure inevitabilmente chiara. Con Edipo re, dunque, Pasolini intraprende quel cammino verso il disvelamento dell’atrocità che, con la parentesi utopistica della trilogia della vita, lo porterà fino alla descrizione della pura violenza di Salò.

A fare da contrappunto al violento istinto di sopravvivenza di Edipo, è la succube, silenziosa, quieta grazia del Terzo Mondo, espressa attraverso i volti della gente comune del Marocco, dove un’antica Grecia immaginaria, volutamente al di fuori di qualsiasi fedeltà filologica, viene ricostruita in mezzo al deserto: in questo modo Pasolini identifica il mondo della verità, quello delle nostre radici storiche e culturali, con uno dei tanti mondi della verità umana rimasti nel presente, quell’isola fuori del Tempo Borghese che è il Nordafrica.

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TRAMA

* Una pietra miliare indica la città di Tebe: ma la scena ha luogo in un paesino del Nord nell’Italia degli anni ’20, dove vediamo una levatrice portare alla luce un bambino. Una donna (Silvana Mangano gioca con delle amiche su di un prato, poi prende con tenerezza il suo bambino in braccio e lo allatta. Sulle note del Dissonanzen Quartet di Mozart, il volto sorridente della madre che allatta è attraversata da un momento di panica, prima di tornare al sorriso. Una soggettiva degli alti alberi del prato ci annuncia che il bambino ha aperto gli occhi per la prima volta al mondo.
Sotto un balcone da cui pende la bandiera italiana con lo stemma sabaudo, un giovane ufficiale guarda con severità il bambino che gioca nella carrozzella. L’uomo é il padre del bambino, ed il suo pensiero è espresso tramite una didascalia: egli teme che sua figlia sia nato per prendere il suo posta sulla terra e ricacciarlo nel nulla, appropriandosi innanzitutto dell’amore della sua donna. Viene la notte. Dopo essersi assicurati che il bambino sta dormendo, i genitori si recano ad una festa da balla in un palazzo attigua al loro, ma poco dopo il bambino si sveglia turbato, esce sul balcone, e vede, attraverso le tende delle finestre, le silouetthes dei genitori che ballano abbracciati.
Esplodono dei fuochi d’artificio, il bambino cade nel panico, piange.
Di notte, il padre e la madre in una stanza, e il figlio nell’altra, sono svegli, pensierosi, inquieti. Sulle note di una musica etnica africana, il padre si reca nella stanza del bambino e ne stringe le caviglie con forza. Il bambino si lamenta.
La scena si sposta nell’antica Grecia, sul monte Citerone.
Un bambino è appeso per le caviglie ad un palo, portato a spalle da un servitore di Laio, re di Tebe. Il compito dell’uomo è uccidere il bambino, per evitare che si avveri una profezia dell’oracolo di Delfi, secondo la quale il figlio di Laio, una volta cresciuto, avrebbe ucciso il propria padre e sarebbe giaciuto con la propria madre.
Il servitore (Francesco Leonetti), però, non ha il coraggio di ucciderlo, e finisce per abbandonarlo nel deserto. Ma un vecchio pastore, che ha assistito alla scena, raccoglie con tenerezza l’innocente, e lo parta in omaggio al suo sovrano Pòlibo, (Ahmed Belhachmi), re della città di Corinto. Pòlibo, trionfante, mostra il bambino alla sua consorte Mèrope (Alida Valli), la quale decide di adottarlo come figlio, con il nome di Edipo, che letteralmente significa “colui che ha i piedi gonfi”.
Edipo (Franco Citti) è cresciuto, ed è di temperamento ambizioso e irascibile. Dopo una lite al gioco del disco, apprende dal suo rivale di essere un “figlio della fortuna”, un trovatello.
La notte Edipo ha degli incubi, e decide di recarsi a Delfi ad interpellare l’oracolo sulla origine dei suoi sogni: così, senza alcuna scorta, armato di una sola spada, il giovane principe di Corinto si incammina verso il tempio d’Apollo. L’oracolo, con una raccapricciante voce femminile, lo scaccia via seccamente, rivelandogli il suo destino incestuoso e parricida. In preda alla costernazione, Edipo si allontana.
Per evitare che la profezia si avveri, decide di non tornare mai più a Corinto, da quelli che crede i suoi genitori. Si mette le mani sugli occhi, fa qualche giro su se stesso, e prende una direzione qualsiasi. Ma la direzione é sempre, fatalmente, quella di Tebe.
Sulla strada assolata giunge il carro del re Laio.
Laio maltratta Edipo, solo e senza scarta, e lo insulta come se fosse un mendicante: Edipo decide di vendicare l’affronto: con una corsa forsennata, urlando ferinamente la propria rabbia, uccide uno ad uno, nel silenzio desertico, sotto gli occhi del sovrano, tutti gli uomini della sua scorta. La stessa sorte infine tocca anche al re Laio.
Edipo, stremato dalla carneficina, riprende il suo casuale cammina, che lo conduce finalmente a Tebe. Alle porte della città incontra una interminabile fila di persone piangenti, che si allontanano da Tebe con il loro poveri averi. Tocca al messaggero (Ninetto Davoli) spiegare al nuovo arrivata Edipo le ragioni di quell’esodo: la Sfinge, creatura oscura, è giunta all’improvviso sulla montagna alle porte della città dall’abisso, seminando sciagura. Il messaggero aggiunge che esiste una “taglia” sull’uccisione della Sfinge: colui che ricaccerà la Sfinge nell’abisso, diventerà marito della regina di Tebe, la vedova Giocasta (Silvana Mangano). Edipo, non ascoltando le parole della Sfinge che ancora una volta lo mette di fronte al suo destino oscuro, riesce con una cieca violenza nell’impresa di sconfiggere l’inattaccabile creatura dell’abisso.
Così il messaggero annuncia alla propria città festante che è giunta il nuova re, Edipo.
Alla fine dei cortei di ringraziamento, Edipo e Giocasta giacciono insieme nel talamo nuziale. L’oscuro destino del “bimbo dai piedi gonfi” si è armai compiuta.
La peste infuria su Tebe. Il gran sacerdote (Pasolini) parla con Edipo a nome del popolo, e gli chiede ragione di quanto sta accadendo. Edipo gli risponde di essere in attesa del ritorno del cognato Creonte (Carmelo Bene), che si è recato a Delfi per avere un responso sugli eventi luttuosi dall’oracolo.
Creonte torna, e rivela che la causa della peste è la vendetta degli dei, irati per la presenza a Tebe di un uomo impuro, la cui colpa è l’uccisione del re Laio. Edipo decide di vendicare l’uccisione di Laio come se egli fosse stato “suo padre”. Ma nonostante i provvedimenti del re siano sempre più severi, la situazione non muta. I morti vengono ormai bruciati a decine nei roghi comuni.
Edipo decide di consultare Tiresia (Julian Beck), il veggente cieco, per capire quale sarà il futura della città di Tebe. Il cieco Tiresia, suonatore di flauto, portato davanti ad Edipo, ha paura, e si rifiuta di parlare. Minacciato e accusato prima, poi perfino malmenato dal re, Tiresia rivela che Edipo prima o poi saprà di essere fratello e padre dei suoi figli, figlio e marito di sua madre, e che vagherà per il mondo senza più poterlo vedere, come ora accade a quel Tiresia che lui ha dileggiato e aggredito.
Edipo prosegue la sua vita regate, e accusa Creonte e Tiresia di aver ordito una congiura alle sue spalle. Ma durante una conversazione con Giocasta, che gli sta spiegando i particolari dell’assassinio di Laio, Edipo apprende che il fato avverso lo ha ormai ghermito, che lui è il vero assassino, il responsabile della catastrofe di Tebe. Giocasta non vuole perdere Edipo, cerca di tranquillizzarlo, ma Edipo urla con dolore la verità ormai compresa.
Edipo raggiunge l’unico testimone dell’assassinio di Laio rimasto in vita, il vecchio servitore, per averne conferma.
Una volta raggiunto sulle montagne quell’uomo, Edipo lo costringe a dire “quello che non si può dire”: che il re di Tebe che ha ora innanzi a se è il figlioletto di Giocasta e di Laio che egli aveva abbandonato sul monte Citerone molti anni addietro. Edipo ritorna al palazzo, ormai cosciente dell’avverata profezia. Lì trova Giocasta che si è uccisa, impiccandosi nella stanza da letto. Allora, con un gesto fulmineo e ferino, simile a quelli con cui ha fatto strage di Laio e della scorta, Edipo si acceca entrambi gli occhi con la spilla delle vesti di Giocasta. Poi, accecato, esce dal palazzo, e incomincia a brancolare nel suo buio definitivo, pietosamente accompagnato dal messaggero.
Edipo e il messaggero si trovano ora, vestiti in panni moderni, sotto i portici di una Bologna di fine anni Sessanta. Edipo suona il flauto sulle scalinate delle chiese, ma è inquieto, disperato, e cerca di continuo di andarsene altrove. Camminando sempre più in periferia, attraverso panorami sconsolati di fabbriche e rifiuti urbani, Edipo giunge finalmente al prato in cui il bimbo nato negli anni Venti aveva aperto gli occhi per la prima volta.
Una nuova soggettiva sulle cime degli alberi ci annuncia l’epilogo della vicenda: Edipo è giunto dove la sua vita è cominciata, e dove dunque, ora, può concludersi del tutto *.
( * S. Murri – Pier Paolo Pasolini)

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COMMENTO

È difficile definire il senso della ribellione di Edipo al proprio destino: egli non ha scampo, ma non può accettare la verità che gli è stata rivelata, perché significherebbe accettare la propria perversa empietà, l’infrazione inconsapevole di tutte le norme che strutturano la società in cui crede, e in cui vuole vivere senza angosce. Così egli tenta la ricerca di un’altra verità, una verità, per così dire, diversa dal vero, ma l’unica strada che gli resta è quella della cecità, sia quella della cieca violenza con cui elimina tutto ciò che lo riporta alla coscienza del proprio destino, sia quella del cieco accaparramento dei privilegi offerti da quello stesso destino, solo attraverso il quale egli può godere appieno della propria condizione regale.
Per vivere come un re, Edipo deve vivere sdoppiato: da una parte la consapevolezza messa a tacere della propria impurità, dall’altra la sua sincera e codarda volontà di una purezza altra, da ricostruire fuori del proprio destino oscuro. Ma quel “destino oscuro” altro non è che è la propria condizione umana, e a ciò che si è non si può sfuggire: questo è quello che gli ribadiscono tanto l’oracolo quanto la Sfinge, e per quanto Edipo si acciechi gli occhi con le mani e giri intorno a se stesso prima di prendere una direzione, perché sia il caso e non “ciò che è”, il destino, a guidare la sua vita, egli non può evitare di giungere a Tebe, e di compiere così il barbaro crimine parricida da cui cerca di esimersi. In questo modo la figura di Edipo diviene l’antecedente pre-borghese del borghese che si disfa sotto i colpi dell’Altro in “Teorema”; egli viene posto all’inizio dell’itinerario sociale dell’uomo occidentale, la cui cieca vicenda di sopraffazioni e stragi si compie nel congiungimento di quell’abisso “che è dentro di sè” (quello che nel lessico freudiano è detto “inconscio”) con la torbida oscurità della Storia, dell’Altro sociale, al quale egli non sa ribellarsi, e, che, sfuggendo, ribadisce. Edipo può anche riuscire a sfuggire, temporaneamente, con la forza, alla prepotenza dell’Altro inteso come oscurità della Storia (storia tanto individuale, interiore, che sociale, storia degli eventi), ma deve arrendersi di fronte al compimento della nemesi del proprio “peccato originale”: l’umanità di cui egli è il rappresentante è un’umanità ingiusta (il giovane Edipo, per esempio, si attribuisce vittorie non sue nelle gare atletiche), un’umanità proterva, classista e dominante (tutto il dramma si consuma nel chiuso dei palazzi reali, laddove il popolo è solo carne che perisce gratuitamente per colpa dell’ingiustizia commessa da Edipo); un’umanità occidentale, che Pasolini colloca non a caso in un Terzo Mondo simbolo del popolo che non può reagire, vittima dello strapotere di quella casta di persone per le quali sole vale il confronto con il “destino” della Storia.
Edipo è sconfitto dall’Altro, da ciò che egli non può controllare neppure con i suoi mezzi regali: ma l’Altro abissale che è l’inconscio e l’Altro alto e imperscrutabile che è la Storia si congiungono nel gorgo fatalistico e fondamentalmente barbarico che è la mentalità occidentale, costruita sull’autismo esistenziale.
Edipo è re, nato per essere re, questa è la colpa che si abbatte sulla sua totale innocenza. È la storia del dominio, di cui Edipo è, sua malgrado, figlio, che porta necessariamente alla strage di tutto ciò che si frappone tra il potere e chi se ne arroga il diritta. Edipo uccide Laio senza una ragione, se non quella dell’orgoglio regale che porta dentro di sè. Perfino il rapporto incestuosa con Giocasta è sotto il segno del possesso, espresso da quei “madre!” (assente nella tragedia di Sofocle) urlato da un Edipo ormai consapevole della propria empietà, che non rinuncia a consumare il suo privilegia sessuale, maledetta o no che sia, senza pentirsi.
Mai come nel suo primo lungometraggio a colori (una decisione sofferta, quella del colore), Pasolini riesce a portare ad un livello di equilibrio straordinaria il rapporto tra forma ed espressione. L’opera di costruzione di un autonoma “linguaggio della realtà” viene compiuta attraverso il ribaltamento del rapporto tra la componente della parola e quella delle percezioni non mediate concettualmente, quelle visive e sonore. Se in precedenza alla parola spettava il compito di condurre la riflessione, di esprimere le emozioni dei personaggi, di chiarificare la vicenda, mentre alle suggestioni pittoriche, al gusto del bianco e nero e dei ritmi fratti del cinema muto, spettava il compito di evocare un clima generale, in qualche modo estetizzante, ara è l’immediatezza delle componenti sonore e visive dell’immagine nella quasi totale assenza di dialogo a creare una “evidenza narrativa” non-concettualizzabile, laddove la parala, la strumento dialettico borghese, non è più che una dei componenti dell’immagine, componente il più delle volte ellittica, oscuro, involuto, a cui spetta il compito di creare semmai un clima emotivo ed estetizzante, clima esaltato dallo stile sibillino dei versi di Sofocle.
Alla tragedia di Sofocle (tradotta e ridotta in prosa per il set dallo stesso Pasolini) viene sottratto l’elemento teatrale-letterario portante, quello della scoperta progressiva, attraverso i dialoghi tra i personaggi, del dramma di Edipo. Nella descrizione dell’antefatto, che prende la quasi totalità del film, e che è l’argomento costante dei dialoghi sofoclei, l’uso della parala viene ridotto al minimo: quasi tutti gli eventi “del fato” avvengono in un primordiale silenzio fatto di rumori, urla, gesti, ancora più preistorici della preistoria greca che il regista mette in scena. La stessa “grecità” è sottratta alla sua stigmatizzazione scolastica, alla sua iconagrafia ricorrente, e mescolata ad una basilarità etnica composita, in cui gli scenari desertici e gli attori improvvisati del Marocco si muovano tra il silenzia e contaminazioni musicali astoriche e indefinite, che vanno dai canti popolari rumeni alla musica nordafricana, dalla musica giapponese antica ai canti rivoluzionari russi, a cui spetta il compito di creare una sorta di “coro tragica” in assenza di parole. Unica eccezione “classica”, quella del quartetto di Mozart K 465, conosciuta come Dissonanzen Quartet, un quartetto atipico, quasi dodecafonico ante-litteram, che in qualche modo turba e mette in discussione la serena armonia del compositore-tipo della musica occidentale: ad essa è attribuito il compito, come leitmotiv, di rimarcare i momenti in cui si manifesta, oscuramente, la verità.

I poveri lucani del “Vangelo secondo Matteo” hanno ora il volto dei veri poveri, quelli del Terzo Mondo. Gli spiritual del Vangelo hanno lasciato il posto ad una musica etnica indistinta nello spazio e nel tempo. L’opzione del regista per una cultura “altra”, in questo caso per la “verità” del Terzo Mondo, diviene ormai inequivocabile con Edipo re.
Dell’Italia, che fa da cornice all’autobiografia in chiave edipica, vediamo prima uno scorcio della provincia alle soglie del fascismo, poi i frutti della “mutazione antropologica” della società dei consumi, gli estremi di un itinerario in qualche modo immobile, lo svolgimento di un’unica mentalità, quella borghese e capitalistica, nel cui seno il dramma edipico si ripercuote come reminiscenza attuale di una verità perduta, e ora ridotta a pura reminiscenza etica. Perfino l’italiano, come lingua d’origine dell’autore-Edipo, è messa in discussione: ne è testimonianza l’indistinta calata dialettale del sud con cui Pasolini fa doppiare i suoi personaggi, rendendoli antiletterari, e marcandone la provenienza sociale. Della cultura letteraria del regista restano solo i simboli, ormai quasi indecifrabili, della civiltà greca.
Tutti gli omicidi che Edipo compie, urlando ferinamente e senza senso, avvengono in controluce, sotto la luce bianca e accecante del sole: da una parte questo rievoca il dettame della tragedia greca secondo il quale l’attimo della morte non può essere rappresentato sulla scena, dall’altra, quello che era il colore rituale della morte presso i greci, il bianco.
L’oracolo, che prima di profetizzare si ciba di riso, rievoca l’atto simbolico di ricreare attraverso il comportamento rituale e religioso un contatto primordiale tra la materia e lo spirito. Ma, in entrambi i casi, questi simboli sono espressi senza parole, attraverso la pura immagine. Infatti, con Edipo re Pasolini diventa, in qualche modo, “più cinematografico”: impara a servirsi dei maggiori stratagemmi narrativi della “lingua filmica”, usa movimenti di macchina più audaci, sperimenta le potenzialità dello zoom, usa spregiudicatamente i grandangolari e i teleobiettivi, e riesce fino in fondo a liberarsi dai cliché narrativi del gusto del bianco e nero “muto” sui quali si era formato, così come dalla tendenza a riflettere nell’immagine le proprie reminiscenze pittoriche.
Nulla più è precisamente identificabile, i costumi e la “scenografia” seguono criteri di pura suggestione, anch’essi, come la musica, astorici e di provenienza ibrida.
Il clima di sperimentalismo è reso ancora più marcato dalla partecipazione di attori dell’avanguardia teatrale contemporanea come Carmelo Bene o Julian Beck del Living Theatre, che accanto a volti noti del cinema come Alida Valli e Silvana Mangano, alle sorprendenti interpretazioni di Franco Citti e Ninetto Davoli, e alle numerosissime, anonime comparse marocchine, contribuiscono all’espressione del clima allucinatorio attraverso il quale Pasolini ha letto i versi sibillini di Sofocle.

Il film, premiato al Festival di Venezia dalla Confédération Internationale pour la Diffusion des Arts e des Lettres par le Cinema, uscirà nelle sale con il solito divieto ai minori, dilacerando “normalmente” lo stuolo degli addetti ai lavori. Ma lo sguardo di Pasolini è già rivolto altrove: dopo aver attraversato con la sua Grecia fuori del tempo la strada per le proprie origini, ora si sposta su quanto, nel presente, sembra aver mantenuto intatta la verità dei rapporti sociali.
E, finalmente, l’incontro del regista con il Terzo Mondo.

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