CINEMA E RESISTENZA

CINEMA E RESISTENZA

Solo dimostrando di aver fatto tesoro del tempo trascorso dalla fine della Resistenza armata, e di aver volto quelle esperienze a nuovi esiti, é oggi possibile portare avanti un discorso valido. “La guerre n’est pas finie”: dove il resistere si traduce in monito, c’è ancora il veto accanto al cinema di Resistenza.

Siamo nel 1967. Vediamo intorno al mondo la Resistenza vivere ed evolversi in nuovi termini storici e geografici, secondo mutate necessita e condizioni. Ma il cinema di Resistenza, il più delle volte, lo vediamo soltanto sopravvivere. Di rado è staffetta, di rado veicolo critico o interpretativo. II tono che ha assunto è quello del commentatore ufficiale, cos’ somigliante a quello dell’affossatore; o quello diaristico-sentimentale, stregato dalle false apparenze della memoria o dai crucci autobiografici. In tutt’e due i casi la materia è da gettarsi alle spalle come sistemata definitivamente, ignorando le nuove voci che battono alle “mura del tedio” in cui le coscienze, quando non sono soddisfatte, hanno tuttavia ceduto al sonno.

I film ci sono; come no. Basta ripensare ai festival del 1966. Da Pesaro a Porretta, da San Sebastiano a Karlovy Vary, da Locarno a Venezia, la Resistenza ha avuto le sue opere. A fin di anno Cuneo le ha riprese, altre aggiungendo, nella sua manifestazione che al cinema di Resistenza e specificamente dedicata. Ma tante presenze non sono ancora un sintomo benefico. Dimostrano semplicemente che un ulteriore genere si va codificando nelle varie cinematografie. Un genere che possiede, si sa; i suoi classici universalmente accettati e che e tanto più gradito quanto più si affretta a storicizzarsi (ma ciò che gli si richiede è piuttosto una datazione che non una autentica analisi storica) quasi che il suo prolungamento nella cronaca d’oggi – e di domani – sia un’acquisizione equivoca, o traviante, o pleonastica.

In realtà è questo prolungamento che scotta. Si continua a teorizzare su cinema di resistenza e cinema sulla resistenza come se al di là dell’ambientazione e dell’epoca non si fosse sempre trattato di un’unica consegna per il regista d’idee chiare. Le nuove frontiere si sono spostate ma Roma città aperta, poniamo, possiede sempre il respiro per spostarsi con esse sopravvivendo al momento di via Tasso e via Rasella (e sopravvivendo persino alle resipiscenze e al gran rifiuto del suo regista, forse il più furiosamente ingrato con se stesso nell’intera storia del cinema).

La questione dunque s’imposta altrimenti: resistenza o non resistenza, occhi aperti sul mondo o occhi languorosamente volti all’interno a psicanalizzare una volta di più la propria memoria. I passi falsi che il cinema ha fatto al riguardo negli ultimi anni sono molti.
Vi incappano insieme il film troppo pubblico e quello troppo unilaterale, egoistico, privato: i grossi film sul maquis organizzati dai francesi o da società franco-americane (Il treno.., Il giorno e l’ora.., il riprovevole La linea di demarcazione di Chabrol, Colpo di grazia di Cayrol e Durand) ma anche i piccoli film attardati o impacciati (gli italiani Andremo in città di Nello Risi, assolutamente vecchia maniera; Una questione privata di Giorgio Trentin, dalle ambizioni discordi e rabbiose; il greco Bloko di Ado Kyrou). Non se ne fa un discorso di scarsa adesione alla mate- ria, o di impreparazione cinematografica, per quanto a un certo momento anche questi argomenti entrino in ballo. Si vuol dire solo che poichè queste evocazioni sulla Resistenza sono di quegli anni, posteriori al 1960 diciamo, non possono realizzarsi sé non quando mostrano d’aver fatto tesoro del tempo trascorso dalla fine della Resistenza armata, e di aver volto quelle esperienze a nuovi esiti. Debbono contenere un responso critico valido per l’oggi, per l’oggi – espressamente perfezionati sui fatti di ieri, e non solo nei termini di astratta celebrazione. Certo, almeno in Italia, abbiamo avuto lunghi anni in cui il film resistenziale era duramente avversato e in molti casi proibito. Spettò nel 1959 a Il generale Della Rovere di sbloccare la situazione, e a quel film di non larghi meriti, almeno questo merito va ricordato. Ma non guardiamo alla situazione così cambiata come a una vittoria della libertà. Si tratta d’una realtà più complessa che, a lungo andare, invalida le proprie concessioni per riposte mire prammatiche. Il cinema italiano del secolo scorso rispecchia spesso il pensiero delle forze conservatrici, le quali riconoscono la Resistenza come dato ideologico pur di non doverla incontrare come prassi attiva, ulteriormente riformatrice. La constatazione si dà a volte senza crisi, disinvoltamente.
Oppure in determinati artisti si compone, in termini di complainte, di elegia, di confessione crepuscolare. Un film tacitamente di produzione, Le quattro giornate di Napoli, esemplifica il primo caso: c’é dignità, vitalità narrativa; ma é assente ogni verifica delle responsabilità storiche, ogni ombratura che non si possa figgere in lapide, ogni freschezza di rapporto politico.

LA GUERRA È FINITA?

Un film tipicamente d’autore esemplifica l’altro caso: Le stagioni del nostro amore, in cui Enrico Maria Salerno ripercorre l’itinerario della sua Resistenza 1944 cercandovi solo l’episodio fervido e la rabbia ventenne e la topografia della terra natale, senza avvedersi dei nuovi convegni che la Resistenza – con uomini e nomi mutati – ha oggi con la storia; e si crede uno sconfitto, un sorpassato, solo perché ha commesso lo sbaglio di vivere di stagioni anziché di esperienze, trattando le idee come sentimenti e i sentimenti come idee. Niente di strano che questo tipo di viaggiatore a ritroso incontri solo fantasmi, o persone che sono il riflesso dei suoi stessi errori.
D’altronde nel film di Florestano Vancini non irrita tanto la pochezza della crisi raccontata, e la sua schematicità, quanto invece la convinzione che s’indovina al fondo da parte del regista di aver fatto un film diverso, originale e addirittura eversivo rispetto alle strutture del film resistenziale-ideologico.

Non possiamo fare a mono di ricordare i tanti film polacchi (e cecoslovacchi, e ora anche ungheresi e jugoslavi) che hanno inteso assai prima gli stessi problemi e hanno dibattuto al cinema analoghe crisi, analizzandole con ben altro rigore e con più sottile umanità.

Con tutto ciò il film di Resistenza proiettato verso l’avvenire o fedele al proprio presente continua a nascere. Solo che, come alle origini, bisogna andarlo a cercare, perché di nuovo respinto a margine, osteggiato e considerato “nemico”. Parliamo soprattutto della situazione italiana; ma non soltanto di questa. Forse la terza fase – considerando la seconda chiusa con Le quattro giornate di Napoli – ha avuto inizio da noi nel 19663, con Il terrorista  di Gianfranco de Bosio, film di duro dibattito, in cui la Resistenza viene sottoposta a revisione nel momento stesso in cui si attua e i rimandi, morali o politici, sono deliberatamente dilatati all’oggi, ad una tribuna di proteste e denunzie simile a quella di Le mani sulla città (che é a sua volta, chiaramente, un film resistenziale degli anni Sessanta). E non diversamente impostato é, o sarebbe dovuto essere, La battaglia di Algeri: si veda, nella prima parte, la contrapposizione squisitamente classista fra combattenti algerini e ufficiali francesi. Ma la spinta all’epos recide la disputa, corre alla vittoria, che non sempre é una conclusione. “La guerre est finie” dice il titolo del film anti-franchista di Alain Resnais, ma lo dice sarcasticamente. Nulla é finito, anche se il benessere di massa, sulle coste turistiche tra Francia e Spagna, ha ottuso gli sdegni e placate i rimorsi. “Patience et humour” raccomanda a se stesso, nel film, il terrorista Yves Montand: una esortazione che andrebbe girata fra l’altro anche al protagonista di Le stagioni del nostro amore.

La guerre est finie è stato presentato nel 1967 a Cuneo in edizione ridotta, dopo essere stato bandito da altri tre o quattro festival internazionali. I film cubani – che hanno rilevato la lezione resistenziale direttamente dal neorealismo italiano – arrivano fino alle cineteche, non al gran pubblico. Lo straordinario Le ciel la terre di Joris Ivens, sulla guerra nel Vietnam, gira praticamente sottobanco come fosse un film porno. Gli ultimi polemici film di Resistenza realizzati in Jugoslavia o in Ungheria non trovano noleggiatore italiano. Kozara di Veliko Bulajic, già distribuito in cinquanta nazioni, da noi aspetta in anticamera. I film antirazzisti americani che a volte compaiono sugli . schermi di Venezia (non trattano forse d’una lunga, tenace opera di resistenza?) tornano subito nell’ombra. Nicht versöhnt oder es hilft nur gewalt, wo gewalt herrscht (Non riconciliati, o solo violenza aiuta, dove violenza regna) girato nella Germania Ovest dal giovane Straub, ha incontrato dispiaceri in patria. In Gran Bretagna, l’ipotesi di una resistenza inglese prospettata con una certa grinta, e, ben oltre il pretesto fantascientifico, da Brownlow e Mollo in It Happened Here, ha atteso anni per poter uscire ed è tuttora trattata come una maleducata eccentricità.

L’elenco potrebbe continuare, ma già ci siamo spiegati. Dove il resistere si traduce in monito vivo, c’è ancora il solito veto accanto al cinema che ne parla, come accadeva nei cosiddetti “anni facili”; e forbici in azione, e insabbiamenti, e occhi girati dall’altra parte. Il che, per i cineasti che hanno resistito, può costituire motivo d’orgoglio. E a tutti poi fornisce conferma che contro il cinema di Resistenza la guerre est finie

Immagine di copertina: Hannes Messemer e Vittorio De Sica in una scena del film Il generale Della Rovere

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