CRISI DEL CINEMA DEL DOPOGUERRA

LA CRISI DEGLI ANNI 50

Il riferimento politico é d’obbligo, quando si prende in esame il periodo che seguì il 1948. Gli sviluppi della situazione avevano segnato il ritorno in forze di certi settori della vecchia classe dirigente, che cercavano anche il ripristino dell’antica egemonia culturale. Questi presero a considerare il neorealismo cinematografico come una concreta, pericolosa minaccia all’ordine costituito o, nel migliore dei casi, come una gratuita esposizione di “vergogne nazionali” che carità di patria avrebbe voluto fossero accuratamente coperte.

Nella maniera magistrale che gli é consueta, lo scrittore Alberto Moravia faceva il punto su questa situazione, in un articolo apparso nel novembre del 1950 sulla rivista L’Europeo:

”Il neorealismo cinematografico é lungi dall’aver esaurito la sua carica di ispirazione e di attualità. Esso risponde, sul piano dell’arte cinematografica, al bisogno diffuso subito dopo la guerra di rendersi conto delle deficienze di ogni genere che avevano portato alla sconfitta e al disastro nazionale. L’Italia, nella sua storia, non ebbe mai o scarsamente, teatro e romanzo: segno che la società italiana non amò mai conoscersi né criticarsi né, in fondo, migliorarsi veramente. E, infatti, c’é voluta una catastrofe del calibro di quella del 1943…. per ispirare a molti italiani una certa quale generica curiosità per i fatti veri di casa loro. Il cinema, bisogna riconoscerlo, anche più del romanzo, è in prima linea nell’aver soddisfatto, almeno in parte, questa lodevole curiosità. I poveri é i disoccupati che compongono gran parte della popolazione italiana, sono cosi apparsi sugli schermi che sinora non avevano conosciuto che segretarie private, te1efoni bianchi e adulteri a tre corna.
Non tutti sono contenti, però. Ricordo di avere udito, in un salotto romano, una signora, che aveva molto viaggiato, lamentare che il film neorealista ci diffamava all’estero presentandoci come un paese di straccioni. “Ci sono tanti bei paesaggi in Italia – diceva quella signora. – Perché non fare un film con tutti i nostri paesaggi?” Le risposi; ovviamente, che la sola maniera di far cessare i film sui poveri, era di far scomparire questi ultimi rendendoli agiati. Ma la signora non fu convinta”.

Non c’é da meravigliarsi, dunque, che simili atteggiamenti finissero con il pesare seriamente sugli orientamenti dei produttori e dell’industria cinematografica. E un indice preciso era costituito proprio dal fatto che mentre il cinema italiano manteneva il suo prestigio in tutto il mondo e godeva del largo favore del pubblico, la produzione nazionale scendeva a livelli quantitativi assai bassi: 54 film nel 1948, contro 874 pellicole importate di cui ben 668 americane.

Sul piano dei contenuti, la crisi si manifestava in modo alquanto singolare: si tentava, cioé, da parte dell’industria, di non perdere del tutto i vantaggi procurati dal neorealismo, snaturandone però il senso. In altre parole si cercava di utilizzare la formula neorealistica, non la sostanza: il ”popolo” é ancora protagonista, la scelta d’ambiente é ancora quella dei quartieri popolari; ma sotto gli ”stracci”, ridotti a puro trucco, spunta il divismo (la Lollobrigida nelle vesti della ”bersagliera”), si riaffaccia la commedia brillante, commerciale, del tutto priva di significati. Dopo il 1952 è questa la tendenza che si afferma, nella produzione media, secondo gli esempi forniti da Castellani con Due soldi di speranza, dalle serie dei film Pane amore e …, Don Camillo, ecc.

Gli stessi ”grandi” sembrano avvertire i1 disagio. De Sica, che con Umberto D.  aveva riproposto ancora un’opera assai nobile e centrata, ripiega su film come Stazione Termini e L’oro di Napoli, dove pure dà prova di maestria in alcune sequenze mirabili, ma che restano molto al disotto delle sue esecuzioni precedenti. Con “Il tetto”, De Sica cerca un recupero, ma l’opera, pur valida, appare in ritardo rispetto ai tempi.

Rossellini, da parte sua, incontra qualche difficoltà – nonostante egli punti sulla disponibilità di una grande diva e
attrice internazionale, Ingrid Bergman – e il suo Europa ’51 non si inserisce tra le sue cose migliori.

Le sorti del cinema d’impegno sembrano compromesse, pur se non mancano film che tentano di mantenere intatta la più genuina vena realistica. Lizzani filma una storia partigiana con Achtung banditi e poi realizza Cronache di poveri amanti, dal romanzo di Vasco Pratolini; Francesco Maselli gira Gli sbandati e poi I delfini; De Santis sigla, con il film-cronaca Roma, ore 11, la sua opera migliore.

Ma per il resto, l’orientamento che sembra prevalere tra gli autori di maggiore impegno é quello di un distacco dalla cronaca, dal documento cui si preferisce la ricerca di volti, la definizione dei personaggi.

Un ritratto femminile, peraltro stupendamente disegnato (e magistralmente reso da Anna Magnani) é appunto Bellissima di Luchino Visconti, ma ancor più esemplare di quanta stava accadendo nel cinema e un altro e assai discusso film di Visconti, Senso. Molti critici vi hanno ravvisato il riconoscimento, quasi ufficiale, da parte di un maestro del realismo, della impossibilita oggettiva – data la situazione, – di utilizzare la cronaca per dei film che incidessero sulla realtà del momento, sul dibattito e lo scontro culturale e ideologico. Da qui il ripiegamento sul film storico, nel quale il giudizio sul Risorgimento e sulle forze che lo animarono appare una specie di solitaria ”sortita” politica, quasi un ammiccamento per chi vuole intendere, mentre l’asse dell’opera é definito dall’analisi e dal ritratto dei due personaggi centrali (tra i quali una bravissima Alida Valli).

Antonioni, con I vinti e La Signora senza camelie, punta l’obiettivo sul mondo borghese e sui personaggi suoi più tipici; Germi costruisce, ne ll ferroviere il ritratto di un personaggio quasi sperduto in una società che sembra aver smarrito i suoi elementari caratteri di chiarezza.

Da questi film – cui vanno aggiunti Processo alla città di Zampa, Il sole negli occhi di Pietrangeli, Il cappotto di Lattuada – traspare insieme l’intenzione di non rinunciare alla esperienza del neorealismo ma anche la volontà di ricercare le vie di un approfondimento o di un rinnovamento dell’espressione cinematografica.

In questo quadro, si inserisce, come elemento di chiarezza nella definizione delle diverse tendenze, l’opera sostanzialmente anti-realista di Federico Fellini.

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