L’ARCHITETTURA ITALIANA TRA LE DUE GUERRE
Il discorso sull’architettura italiana del primo dopoguerra non può essere, purtroppo, che il discorso sui limiti ad essa imposti dalla particolare situazione politica. Già il ritardo nello sviluppo industriale rispetto agli altri paesi aveva tagliato fuori l’architettura italiana dalle prime elaborazioni urbanistiche a livello europeo tendenti, come ricordato in precedenza, a configurare una città costruita a misura del lavoratore dell’industria. In secondo luogo, il regime privato dei suoli e la speculazione immobiliare – tare congenite dell’Italia moderna – non lasciavano margini a esperimenti e proposte che non corrispondessero a precisi calcoli di profitto.
Il manifesto dell’architettura futurista era rimasto allo stato di pura esercitazione teorica; l’avvento del regime fascista, repressive e incolto, aveva poi finito con l’allontanare del tutto ogni prospettiva di ricerca nel campo dell’edilizia pubblica. Col fascismo, l’architettura dovette fare i suoi conti in maniera ben più difficile di quanto non fosse toccato alla letteratura (un libro può tranquillamente restare nascosto e invenduto nelle librerie, mentre è impossibile occultare un edificio o un quartiere.
In questo quadro va comunque menzionata l’iniziativa del “Gruppo 7” e, successivamente, del MIAR (Movimento italiano per l’architettura razionale) di cui fu portavoce Adalberto Libera (1903-1963). La battaglia del MIAR indusse il massimo esponente dell’architèttura fascista, Marcello Piacentini (1881-1960) a cercare la via del compromesso e ciò aprì qualche esiguo spiraglio per realizzazioni dignitose, come ad esempio la stazione ferroviaria di Firenze, opera di un gruppo di giovani architetti.
Ma non molto più di questo. Le costruzioni “alla Piacentini” vennero inesorabilmente imposte, monumentali e retoriche, così come esigeva l’ideologia del “fascio”. Si insisté, naturalmente, con la tecnica degli sventramenti, per allontanare gli strati meno abbienti dal centro storico e confinarli in quelle borgate e “baraccopoli” di periferia di cui rimangono ancor oggi abbondanti testimonianze. Per il resto, ciò che si può segnalare è un certo impegno di lotta da parte di gruppi che si mossero attorno alla rivista “Casabella“, che fu centro di dibattito e di raccolta di quelle giovani forze dell’architettura che saranno le protagoniste della ricostruzione all’indomani della seconda guerra mondiale.
Città Universitaria Roma (1938)
Marcello Piacentini
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