GIULIO CESARE – La guerra psicologica

GIULIO CESARE

Il primo grande artefice della guerra psicologica

Gaio Giulio Cesare (100-44 a.C.) compare sulla scena politica quando Roma, distrutta Cartagine, assoggettate la Macedonia e la Grecia, domata la rivolta in Spagna e occupate molte provincie d’Asia e d’Africa, può dirsi signora assoluta del Mediterraneo. A lui toccò il compito, giudicato arduo e difficile, di domare le popolazioni che, a nord della Provenza, già provincia romana, e al di là delle Alpi minacciavano ancora, malgrado le vittorie di Mario sui Cimbri e i Teutoni, la potenza di Roma. Cesare non era, come si direbbe oggi, un ufficiale di carriera.
La repubblica romana non ne aveva. Era un uomo politico bramoso di primeggiare, a qualunque. costo, nel mondo romano, conquistando le cariche più prestigiose, anche se non era preparato ad esercitarle e non esitando a spendere a profusione pur di assicurarsi i voti, al punto che giunse ad avere debiti per una cifra pari, in moneta odierna, a due miliardi e mezzo di lire. Spendeva sia allestendo spettacoli con trenta coppie. di gladiatori, sia donando “sportulae” di viveri, sia distribuendo direttamente denaro.
Era convinto della sua origine divina e non ne faceva mistero, come avvenne nel discorso funebre pronunciato in lode della zia paterna, Giulia, e della moglie Cornelia, quando rivendicò la discendenza della sua famiglia non solo
dai re di Roma, ma addirittura, disse, “dagli dei immortali”. Montava un cavallo bianchissimo, con le zampe di forma quasi umana, poiché gli zoccoli erano divisi in forma di dita. A questo cavallo, che affermava donatogli dagli dei, innalzò un simulacro nel tempio di Venere Genitrice. Conosceva il valore dei miti per le masse e se ne serviva con astuzia, come si varrà di quella forma di guerra che oggi chiameremmo “psicologica”.
La sua esperienza militare era iniziata al seguito del pretore Marco Termo in Bitinia, e non era stata brillante, perché, mandato a sollecitare l’invio di una flotta presso Nicomede re di Bitinia, vi si trattenne tanto da dar adito al sospetto che volesse sfuggire ai pericoli della guerra.
Successivamente, fu eletto tribuno militare, grado che avevano gli ufficiali superiori delle legioni, che comandavano un migliaio circa di uomini e si alternavano (erano sei per legione) ogni mese. Dopo essere stato pretore, fu nominato proconsole in Iberia. La Spagna gli fruttò un’enorme ricchezza e le prime dimostrazioni di attaccamento dei suoi soldati che qui lo proclamarono “imperator”.

Il risultato dell’espansione romana nel 40 a.C. 

Condottiero

La campagna per pacificare la Spagna fu una brillante “operazione di polizia”, che, a detta di alcuni storici, sarebbe sufficiente ad assicurare a Cesare la fama di grande condottiero. Forse si potrebbero nutrire dubbi al riguardo, ma è certo che Cesare seppe concludere rapidamente le operazioni e procurarsi il denaro per saldare i grossi debiti che gli pesavano sulle spalle. E fu la fama acquistata oltre i Pirenei, gli onori del trionfo concessigli al ritorno a Roma, a fargli affidare, anche a seguito di maneggi politici, il comando dell’esercito destinato a conquistare le Gallie che non erano ancora romane.

Cesare studiò, prima di iniziare le operazioni, il nemico che doveva combattere. Sapeva, e lo scrisse in quella preziosa fonte di notizie che sono i suoi Commentarii , che doveva combattere contro tribù scarsamente collegate tra loro, che impiegavano un’ottima cavalleria ma che disponevano di una fanteria di poco valore e che era divisa nettamente in schiavi, contadini e guerrieri.

Nel 58 affrontò i Germani di Ariovisto e gli Elvezi. Ariovisto, sconfitto presso l’odierna Mulhouse, in Alsazia, perse, a detta di Cesare, 90.000 uomini e fu costretto a fuggire al di là del Reno. La vittoria fu dovuta a due fattori psicologici. Per prima cosa, Cesare seppe suscitare nelle sue legioni uno spirito di emulazione nei confronti della “decima legio”, la sua preferita, e riuscì a ottenere che i legionari combattessero con estremo valore. E poi, fornì ai suoi uomini precise notizie sui metodi di combattimento nemici, così che tutti, sino all’ultimo soldato, sapevano come sarebbero stati attaccati, come dovevano difendersi, come dovevano contrattaccare. Questa conoscenza della tattica avversaria gli consentì di sconfiggere 90.000 Elvezi e 180.000 Germani.
Non ebbe fortuna, invece, la spedizione che, più tardi, egli fece in Britannia.

Anche se vari capi locali avevano accettato di pagare un tributo alla lontana Roma, le popolazioni dell’isola erano più bellicose di quanto Cesare si aspettasse. Questa volta il servizio informazioni aveva funzionato male. Infatti Cesare, dice Plutarco, cercava preda e ricchezza e l’isola non offriva né l’una né l’altra. Così tornò sul continente, dove, per altro, i Galli si agitavano e gli informatori di Cesare mandavano notizie allarmanti.

I Galli-belgi si scontrarono con l’esercito romano in un’aspra battaglia. Cesare stesso fu costretto a prendere lo scudo per difendersi personalmente contro le masse nemiche che stavano sterminando i suoi uomini. Fu la “decima legio”, che accorse dalle posizioni che occupava e sconvolse i nemici assalendoli alle spalle.
Successivamente, il condottiero romano dovette affrontare le truppe di Ambiorige, che, distrutti alcuni presìdi, assediarono la legione comandata dal fratello di Cicerone. Cesare, informato, riuscì a raccogliere alcune forze e a liberare il fratello del celebre oratore e le sue truppe. Ma nubi ben più grosse si addensavano all’orizzonte.

Un capo eroico e sicuro, Vercingetorige, aveva saputo far sollevare gran parte delle popolazioni della Gallia. Cesare, però, aveva informatori dovunque. Saputo che il nemico non aveva presidiato i passi delle Cevenne perché li riteneva invalicabili in inverno, vi condusse il suo esercito, e costrinse Vercingetorige a chiudersi in Alesia, fra la Senna e la Loira, con 80.000 uomini. Poi, manovrando accortamente, lasciando contro la città assediata pochi soldati, batté col grosso delle sue truppe le forze dei Parisi, e alla fine riuscì a costringere alla resa Vercingetorige, che volle evitare la strage degli inermi della città.

Ma a Roma il Senato, allarmato dalla sua crescente popolarità, gli intimò (gennaio 49) di licenziare l’esercito e conferì a Pompeo il titolo di solo console e l’incarico di difendere la Repubblica. Cesare rifiutò, passò il Rubicone e marciò sulla capitale, da cui fuggirono senatori e uomini di stato. Pompeo s’imbarcò per l’Oriente, per spostare la guerra; Cesare seguì il rivale in Epiro e in Tessaglia e lo sconfisse a Farsalo, diventando unico padrone di Roma.

La resa di Vercingetorige – Lionel-Noël Royer (Le Puy-en-Velay, Museo Crozatier, 1899)

Cifrari, mezzi di comunicazione, raccolta di notizie.

A volte, di fronte all’immediatezza di certe mosse degli eserciti di Cesare, alla prontezza di reazione delle sue truppe, vien fatto di chiedersi se questo condottiero non conoscesse già l’uso dei piccioni viaggiatori, utilizzati in oriente qualche secolo prima. Non sembra, giacché secondo la testimonianza di Plinio il Vecchio, il primo esempio di impiego di questi messaggeri lo troviamo, nel mondo romano, nell’assedio di Modena, durante la guerra tra Antonio e Ottaviano per raccogliere l’eredità di Cesare.

Ma Cesare si serviva di altri mezzi. Disponeva del telegrafo ottico, nelle due varianti che restarono in uso per tutta la durata dell’impero romano. Una era il “telegrafo ad acqua”. Una face segnalava l’inizio della trasmissione, e un rubinetto, aperto contemporaneamente nella stazione trasmittente e in quella ricevente, faceva abbassare il livello dell’acqua di un otre in cui era immersa una tavola con segni corrispondenti a una frase o a una lettera. Un altro segnale luminoso indicava il momento di chiudere il rubinetto, e il messaggio veniva letto.

Il secondo tipo di telegrafo era meno complesso: a un determinato numero di faci accese nella stazione trasmittente corrispondeva una frase di codice. Naturalmente, ci voleva un certo numero di torri dislocate a distanza opportuna, così che la trasmissione di una notizia o di un ordine richiedeva un certo tempo.

A Cesare spetta il merito dell’invenzione e dell’uso di uno dei primi cifrari. Il suo metodo si basava sulla trasposizione delle lettere: la lettera E era al posto della A, la F indicava la B eccetera. I messaggi erano così indecifrabili a chi ne veniva in possesso senza conoscere questa semplice chiave.

Busto di Cesare in uniforme militare

Guerra psicologica

Cesare fu il primo stratega a servirsi di una forma di guerra che venne poi largamente adottata nei nostri tempi: la guerra psicologica. Aveva saputo ispirare nel nemico, qualunque fosse, Galli o truppe fedeli a Pompeo, l’idea che egli era invincibile. Ma non basta. Quando, dopo la spedizione in Gallia, Pompeo gli chiese la restituzione delle Legioni che gli aveva prestato per la campagna d’oltralpe, Cesare gliele rimandò, dotando ogni soldato di 250 dracme.
Inoltre, coloro che avevano ricondotto le truppe in Roma, sparsero voci contro Cesare, affermando che il suo esercito anelava a passare dalla parte di Pompeo. Si trattava, evidentemente, di emissari di Cesare, giacché tornarono a lui che nel frattempo si era portato a Ravenna. In un mondo in cui il sovrannaturale si mescolava alla vita di ogni giorno, egli seppe sfruttare la sua pretesa origine divina.
Prima di attraversare il Rubicone, il che significava la guerra contro Roma, fece comparire dinanzi alle sue truppe un giovane di bellissimo aspetto che, suonando un flauto, guidò alcuni uomini al di là del fiume, significando che Cesare doveva rompere gli indugi.

Dove il fattore psicologico gioca un ruolo di primo piano è nella guerra civile contro Pompeo. Cesare diffuse a Roma, giovandosi delle ricchezze accumulate nelle Gallie, false notizie sulle sue forze, così da seminare il panico in città e provocare la fuga di Pompeo e dei senatori. Quando Tito Labieno, suo luogotenente vittorioso nelle Gallie, scelse di parteggiare per Pompeo, egli gli rimandò i bagagli, riuscendo così a ottenere la fama di generoso. Fece sapere ai soldati che avrebbero dovuto combatterlo che egli apriva loro le braccia, e non esitò a distribuire denaro a piene mani. Anche per questo, Pompeo fu sempre timoroso di attaccarlo, persino quando, in Epiro, e precisamente nell’Albania di oggi, Cesare aveva poche truppe e a Pompeo sarebbe stato facile travolgerlo.

Poi venne Farsalo, il cui merito va a una accorta azione degli esploratori di Cesare, che segnalarono i movimenti del nemico. Ma neppure il migliore dei servizi informazioni riesce a evitare la rovina di chi si crede immortale, invincibile, chiamato dal fato a diventare padrone del mondo.

Tornato a Roma, Cesare non nascose le sue ambizioni su quel mondo romano che cinque secoli di lotte nel Mediterraneo e nelle terre settentrionali d’Europa avevano creato. E questo provocò la congiura di Cassio e di Bruto, i quali pensavano che le cariche già ricoperte da Cesare, dittatore a vita, “imperator” (comandante dell’esercito), console per dieci anni, pontefice massimo, tribuno a vita, prefetto dei costumi, fossero un pericolo per la libertà. La congiura prese corpo, e Cesare non poteva ignorarla. Svetonio e Plutarco ce lo testimoniano, anche se, in omaggio ai tempi, parlano di sogni, di messi misteriosi, di apparizioni. Ma questa volta Cesare non prestò fede ai suoi informatori e andò alla Curia Romana, in mezzo ai suoi nemici. E qui le ventitré pugnalate inferte in dai congiurati misero fine ai suoi progetti.

Morte di Giulio Cesare, 1798
Vincenzo Camuccini (1771–1844)
Olio su tela cm 112 x 195
Napoli, Museo di Capodimonte

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