MOBY DICK – Herman Melville

MOBY DICK 

Herman Melville

Introduzione

FU LA BALENIERA L’UNIVERSITÀ DI MELVILLE

La grandiosità dell’ispirazione, l’esaltazione dell’audacia e dello spirito di intraprendenza per il dominio della natura, il profondo sentimento di fratellanza per tutti gli uomini, fanno di Melville uno dei massimi scrittori della letteratura americana. Nato il primo agosto del 1819 da una famiglia non agiata, e rimasto orfano a tredici anni, seguì i corsi magistrali, ma, ad un certo momento, attratto dal richiamo del mare, si arruolò come mozzo, poi come baleniere. Servì anche nella marina militare (1841-1844). La seconda parte della sua vita, dopo il quinquennio della grande attività letteraria, fu oscuro e mediocre…, fece il controllore delle dogane di New York, scrisse modeste poesie (a celebrazione dei maggiori fatti d’arme della Guerra Civile…, durante la quale si schierò coi Nordisti). Morì il 28 settembre 1891.
Nell’agosto del 1851 alcuni giornali diffusero la seguente notizia… “Una nave appartenente ad un armatore degli Stati Uniti, registrata col nome di Ann Alexander, è colata recentemente a picco in circostanze particolarmente straordinarie. Non una tempesta o un incendio a bordo sono state le cause del naufragio, bensì la collisione con un’enorme balena che ha scatenato la sua ira sullo scafo, ripetutamente colpendolo con la coda”.
Proprio in quello stesso periodo, era uscito nelle librerie americane un lungo romanzo, opera di uno scrittore che godeva di una certa popolarità per alcuni libri ambientati nei Mari del Sud…, il suo nome era Herman Melville.
A chi l’aveva letto veniva immediatamente fatto di dare un nome al terribile cetaceo che aveva provocato la sciagura dell’Atlantico Settentrionale riportata dai giornali… Moby Dick. Così infatti Melville aveva chiamato il personaggio principale del suo libro, una grande balena bianca che, nella scena finale, faceva subire ad una nave che le dava la caccia, il “Pequod”, la stessa fine subita dall’Ann Alexander. Lo stesso autore, letta la notizia, scrisse ad un amico… “…ecco Moby Dick che viene in persona… Che sia proprio una sorprendente coincidenza è il meno che si possa dire. Quanto a me, non ho alcun dubbio che sia lo stesso Moby Dick, perché non si è ancora mai saputo che sia stato catturato, dopo la triste sorte toccata al Pequod un quattordici anni fa”.
Di capodogli, di megattere, di narvali, di “focene urrah”, cioè dei tanti componenti della grande famiglia delle balene, certo Melville se ne intendeva. Era stato quattro anni in mare… due interi a bordo di una baleniera, sulle quali aveva compiuto, come egli stesso diceva, la “sua università”.
Di questo periodo della sua vita, lo scrittore ricordò i momenti avventurosi e felici in due libri … “Typee” ed “Omoo”. L’incantevole scenario delle Isole dei Mari del Sud, la primitiva e paradisiaca esistenza degli indigeni non ancora corrotta dalla presenza dei bianchi (e Melville ha aspre parole contro i metodi di colonizzazione a base di preti e di alcool) vengono celebrati in pagine che contribuiranno a creare il fascino dell’Oceano Pacifico… quel fascino che tanta influenza eserciterà su molti intellettuali d’Europa (si pensi soltanto, e per tutti, a Gauguin).
Stabilitosi definitivamente in terra ferma si mise a fare lo scrittore… e nel giro di un quinquennio pubblicò le sue opere maggiori.
Stagione particolarmente felice, quei cinque anni, per la letteratura americana…, nel 1850 escono “Uomini rappresentativi”, una serie di conferenze sui maggiori spiriti della storia umana, considerati da un moralista americano, Waldo Ralph Emerson, e “La lettera scarlatta”, il forte romanzo di Hawthorne contro i pregiudizi e l’intolleranza…, nel 1851, “Moby Dick” di Melville…, nel 1855, “Foglie d’erba”, la raccolta di versi del grande poeta democratico Walt Witman. Anche se letteralmente non può stare alla pari con queste opere, non si può dimenticare che nel 1852 viene pubblicata “La capanna dello zio Tom”.

Recensione



LA STORIA DELLA BALENA BIANCA

“Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa, non importa sapere con precisione quanti, avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che mi interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo”…., così comincia la sua narrazione il personaggio che racconta in prima persona la storia di Moby Dick. Come Melville, anche Ismaele era in terra ferma, maestro elementare… ma il tedio della vita nella grande città, il senso opprimente che danno gli uomini “rinchiusi negli steccati, legati ai banchi, inchiodati ai sedili, avvinti alle scrivanie”, lo spingono verso l’aperto mare.
Fatta amicizia, durante il viaggio, in una vecchia e affumicata locanda, con Quiqueg, un ramponiere selvaggio (e qui certamente Melville contrappone questa fraternità tra uomini di razza diversa al razzismo dominante nel suo paese…, in Moby Dick egli celebra, infatti, di fronte alla schiavitù che costituiva la grande vergogna degli stati Uniti, l’eguaglianza di tutti gli uomini, la loro solidarietà nell’avventura e nel pericolo), Ismaele arriva a Nautucket, capitale della baleneria americana, e si imbarca sul Pequod..
Il libro, con la partenza della nave, descrive a lungo la gente di bordo, sulla quale esercita il comando il capitano Achab. Personaggio di straordinario rilievo drammatico… “foggiato di uno stampo inalterabile”, quest’uomo in eterna lotta col mare non la caccia alle balene persegue, ma la vendetta contro una grande balena bianca che un giorno lontano lo ha “disalberato” portandogli via con un morso una gamba. Achab non è un eroe, ma un folle, e il suo equipaggio è formato da gente raccogliticcia, coraggiosa per disperazione o per patetica influenzabilità. Anche la balena fa apparizioni perplesse non esenti da vero terrore. Forte della sua superiorità corporea attacca, ma più spesso fugge. Il baleniere va allo sbaraglio della caccia sognando l’ozio che verrà, più che assettato di sangue e di guerra. L’ideale di Melville culmina in Ismaele, un marinaio che può remare coi colleghi illetterati mezza giornata dietro a un capodoglio e che poi si ritira sulla testa d’albero a meditare Platone. Un bianco che simpatizza per i negri e gli indiani, un cattolico che accetta tranquillamente l’idolatria del suo amico cannibale, un newyorkese che ritiene altre culture assolutamente pari alla sua.
La parte centrale contiene una specie di trattato sulle balene…, Melville accompagna, con gli occhi di Ismaele, il lettore nel regno dei grandi cetacei, esaminandone le caratteristiche e abitudini. Ismaele ha della balena bianca un’idea diversa da quella di Achab, essa è prima di tutto un portentoso spettacolo e per questo si preoccupa in pagine e pagine di analizzarlo, sezionarlo, descriverlo, parti interne e parti esterne, leggenda e verità, lunghe descrizioni di come avviene la cattura, l’uccisione, lo sventramento. Non un momento il suo racconto diventa arido o noioso, sotteso com’è da un’esaltante visione del mondo come di una gigantesca lotta contro la natura, da una possente gioia per una piena, completa esistenza fisica…, da esso le figure dei suoi balenieri balzano fuori come quelle di personaggi eroici, che nel lavoro quasi divinizzano la loro umanità.
Presenza incombente di tutto il libro a lei intitolato, la balena bianca appare di persona soltanto alla fine. Quasi si dubitava della sua reale esistenza. Non fosse stato per i segni sempre drammatici del suo passaggio, navi distrutte, arti estirpati, naufraghi e morti, Moby Dick avrebbe potuto essere una fantasia di Achab. Invece è Moby Dick, il candido mostro, di carne e ossa.
“Laggiù soffia! Laggiù soffia! La gobba come un mucchio di neve! E’ Moby Dick!”…, alla fine, la balena bianca viene avvistata dal capitano Achab, e comincia la sequenza conclusiva. Per quanto Achab si prodighi nel descriverne la natura criminale, inevitabilmente noi parteggiamo per la balena, che è in fondo la parte di Ismaele, saggio e umile frequentatore dei misteri, non a caso risparmiato dal fato che si è incarnato in Moby Dick. Per tre giorni, gli uomini del Pequod cercano di colpire a morte Moby Dick, che, invece, riesce a sfuggire allo spietato rampone di Achab, e scatena il suo furore sulla nave, affondandola. L’unico superstite sarà Ismaele.


FEDE NELLA GRANDEZZA DELL’UOMO

I critici di Melville hanno particolarmente insistito sul contenuto simbolico di Moby Dick, attribuendo ai suoi personaggi delle significazioni mistico-religiose. La disperata corsa di Achab per tutti gli Oceani dietro il soffio della grande balena sarebbe l’ansiosa ricerca di Dio da parte dell’uomo…, e qui poi si discute di quale Dio si tratti, dal momento che esso viene identificato col terribile cetaceo… il Dio della fede puritana arcigno e severo, o il tremendo Jehova dell’Antico Testamento? In effetti, la simbologia di Melville è tutta letteraria…, essa nasce da una prosa che trae la sua suggestione dal gusto settecentesco delle immagini, dei riferimenti, delle citazioni, dalla imitazione, non pedissequa, ma intimamente aderente al suo tema, di Shakespeare. Se una religiosità c’è in Moby Dick, questa si fonda sulla fede di Melville nello spirito umano, nella grandezza dell’uomo, in una vita libera e piena.
“Il grande respiro di Moby Dick si deve principalmente al desiderio di entrare quanto più addentro possibile nel campo immensamente vasto dell’esperienza”. Era questo il desiderio dell’epoca…, sempre più ad Ovest si spingevano i pionieri, nell’Est sorgeva la grande industria, uomini di stato e giuristi proclamavano la necessità di abbattere l’istituto della schiavitù, esaltavano la democrazia e il liberalismo.
In Melville, però, si trova qualcosa di più…, la critica cioè, a quel che di negativo c’era nella società nella quale viveva, fosse esso un residuo del passato (l’odio di razza, la schiavitù) o una tara del presente (il burocratismo, l’affarismo sfrenato, la corruzione nei costumi, e di qui la contrapposizione della vita pura e felice negli arcipelaghi dei Mari del Sud). Vi è anche la condanna dell’assurda legge che divide gli uomini in ricchi e poveri (si legga per esempio oltre le efficientissime pagine di “Redburn”, storia di un povero ragazzo, “Il budino del povero e le briciole del ricco” nei “Racconti della Veranda”), la ribellione contro i metodi in uso negli eserciti (Blusa bianca), contro le ingiustizie (Billy Budd… l’innocente gabbiere di parrocchetto che viene impiccato sull’albero di maestra )…., l’ironia, infine, contro le mistificazioni commerciali o pseudoreligiose, come nell”Uomo della confidenza”, storia di un truffatore di volta in volta si presenta sotto vesti diverse ai passeggeri di uno show-boat, o come nel “Tavolino di legno di melo”, in cui tutta una famiglia è soggiogata da un tavolino che “parla”… ma a farlo parlare sono soltanto due innocui coleotteri.
Melville… , uno scrittore che descrive con stupefacente dolcezza l’amicizia, anche fisica, fra un bianco e un negro, fra un uomo e un altro uomo…, uno scrittore che nel secolo del realismo e della piena fiducia nel romanzo in terza persona e dell’onniscienza del narratore, sente il bisogno di scoprire subito le carte della finzione e dell’incertezza d’identità in un incipit che è fra i più semplici e spettacolari della storia della letteratura…”Chiamatemi Ismaele…”.
Nelle ultime pagine del libro Ismaele si riconosce orfano… ma di chi? Di Achab?, del Pequod? Di Moby Dick? E Moby Dick, dunque, non era altro che quel padre-madre da cui è necessario staccarsi per affrontare soli i mari e le tempeste della maturità? Oppure Ismaele è Adamo, escluso per sempre dal Paradiso che sarà attingibile solo attraverso un’insaziabile nostalgia? …Achab non è tanto diverso da don Chisciotte e la balena bianca, non è altro che una delle tante incarnazioni dei nostri ingannevoli mulini a vento.
Ma ora il gorgo si è chiuso sulla nave, su Achab, su Moby Dick. Gli abissi si sono aperti, ma solo per nascondere meglio il loro segreto. Non resta che la superficie e la necessità del navigare.


Conclusioni

Moby Dick, fu fatto conoscere in Italia da Cesare Pavese, che lo tradusse nel 1932 (edizione Frassinetti – Torino)… e ci fece notare che “Moby Dick rappresenta un antagonismo puro, e perciò Achab e il suo Nemico formano una paradossale coppia di inseparabili” E qui ci si può sbizzarrire… Uomo-Natura…, Male-Bene…, Terra-Acqua…, Materiale-Spirituale…, ma anche certamente e soprattutto Maschile-Femminile…, Yin e Yang….
Seguirono poi, presso vari editori, quasi tutte le altre opere. L’editore Einaudi ha pubblicato “I racconti della veranda” in un volume intitolato “Racconti” (esso comprende, tra gli altri, anche “Billy Budd”, “Le Encantadas”, e la storia di “Bartleby lo scrivano”, uno strano tipo di travet che ad un certo momento comincia a ribellarsi alla sua meschina sorte rispondendo a qualsiasi richiesta gli venga fatta con la frase … “Preferisco di no”.


Herman Melville

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