1 – UGO FOSCOLO – Vita e opere

Ugo Foscolo, nato Niccolò Foscolo (Zante, 6 febbraio 1778 – Londra, 10 settembre 1827) 
Poeta, scrittore e traduttore italiano, uno dei principali letterati del neoclassicismo e del preromanticismo.

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UGO FOSCOLO

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Sta per scendere la sera. Nella biblioteca di San Marco, a Venezia, il direttore lancia un’ultima occhiata alla sala di lettura, prima di dar l’ordine di chiudere. E a un tratto sorride. Eccolo là il suo “cliente” più assiduo, il più grande divoratore di libri che abbia mai conosciuto. È un ragazzo sedicenne, dai capelli rossi, incredibilmente crespi, e il volto non bello, ma intelligente. Povero, si ripara dai primi freddi autunnali avvolgendosi in un cappottino sdrucito.
Forse non si nutre abbastanza. Il direttore, che è un brav’uomo, vorrebbe fare qualcosa per il ragazzo, ma non sa trovare il modo di venirgli incontro. Un suo amico, l’abate Dalmistro, gli ha parlato a lungo del giovanetto, della sua estrema suscettibilità, del suo orgoglio smisurato, e ha cosi concluso: “Questo greco è un sopraffattore, ma ha ingegno per farlo. O sarà un avventuriero o diverrà un genio”.
Il “greco” si chiama Niccolò Foscolo ed è nato a Zante, un’isola del Mar Jonio, il 6 febbraio 1778. Suo padre, un medico, lo ha lasciato presto orfano insieme con altri tre ragazzi in tenera età. Il carico della famiglia è caduto così tutto sulle spalle della vedova, Diamantina Spathis, una bellissima greca che si è trasferita coi figli a Venezia, dove a prezzo di gravi sacrifici riesce a mandare avanti la famiglia in un’orgogliosa miseria.
Studente indisciplinato ma intelligente, Niccolò ha scoperto tutt’a un tratto, e da solo, il fascino dei grandi scrittori classici. Quasi digiuno d’italiano, ha imparato la lingua paterna per poter leggere Dante Alighieri e imprimerselo nella memoria. E ora va per le strade declamando ad alta voce “passi” della Divina Commedia.
E poi scrive versi. A centinaia. A migliaia. Uno strano inizio per l’artista incontentabile che diventerà un giorno, per il poeta che salverà della sua produzione soltanto pochi sonetti, due odi, alcuni frammenti, il bellissimo carme “I Sepolcri” e quello, purtroppo incompiuto, dedicato alle Grazie.

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CINQUE GIORNI D’AMORE

Il buon abate Dalmistro è stato il primo a prendere sul serio il ragazzo, pubblicandogli alcune poesie su una sua rivistina letteraria. Quei versi, indubbiamente acerbi ma pieni di fuoco e già rivelatori di un’eccezionale personalità, sono stati letti anche dal direttore della biblioteca di San Marco, il quale ne è rimasto colpito.
Ecco perché ora guarda con tenerezza il giovanetto che non si accorge di lui, immerso com’è nella lettura; e per l’ennesima volta si ripete che a ogni costo bisogna dargli una mano, incoraggiarlo a perseverare.
“Ma è facile! – esclama dentro di sé a un tratto, meravigliandosi di non averci pensato prima. Basta presentarlo a Isabella”.
Senza perdere tempo, l’uomo si avvicina al ragazzo, gli mette affettuosamente una mano sulla spalla, e quando lui alza dal libro due occhi stupiti, gli sussurra: “Per oggi è finita, bisogna chiudere la biblioteca”. Una pausa e poi riprende: “Sei libero stasera? Voglio presentarti a una donna straordinaria, una greca come te. Se ti va, raggiungimi dopo cena”.

Così Niccolò Foscolo penetrò in uno dei più splendidi e più ricercati salotti di Venezia: quello di Isabella Teotochi. Vi entrò a testa alta, gettando occhiate sprezzanti agli azzimati damerini che facevano corona alla padrona di casa. Un’altra donna si sarebbe offesa di un simile contegno. Isabella no. Disarmò il ragazzo con un sorriso, ne lusingò la vanità chiedendogli notizie delle sue poesie, lo ebbe ai suoi piedi con una carezza lasciata cadere al momento opportuno sulla guancia imberbe.
Fino a quel tempo l’ardente Niccolò aveva anticipato il futuro scrivendo infiammate lettere di amore ad amanti immaginarie; ma la passione che Isabella aveva suscitato in lui era ben diversa: finalmente aveva una creatura bella, viva, reale da amare con tutto l’ardore della sua giovinezza; non passò molto tempo e la tenerezza che ella gli aveva dimostrato fin dal1’inizio della loro conoscenza si mutò anche per lei in amore. Ma fu un sentimento particolare.
“Io non credo all’amore eterno,  né lo desidero – gli disse. – L’amore eterno se lo sono riservato gli dèi, i quali hanno lasciato a noi solo le briciole. Se ci tieni ad avermi, poiché non mi dispiaci, ti amerò anch’io: ma cinque giorni. Dopo, se non farai scene, ti sarò amica per tutta la vita, altrimenti ti farò chiudere la porta in faccia. Accetti?”
Il ragazzo accettò. Ma quando, alla scadenza fissata, tentò di prolungare l’avventura, la donna lo mise inesorabilmente alla porta.
Comunque, volle dargli ancora un consiglio: “Impara sempre a riscaldare col fuoco di una nuova passione le ceneri di un amore che si va spegnendo”.

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Ritratto di Isabella Teotochi Albrizzi dagli “occhi scintillanti”, eseguito da Élisabeth Vigée Le Brun nel 1792.

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LA FATALE ANTONIETTA

La “lezione” di Isabella Teotochi colpì molto il giovanissimo Foscolo e, in un certo senso, influenzò tutta la sua vita sentimentale futura. Infatti egli fu sempre pronto ad amare le belle donne che incontrava lungo il suo cammino, ma con nessuna di esse si legò in modo duraturo.
Il semplice elenco delle avventure amorose del poeta richiederebbe troppo spazio e perciò mi limiterò ad accennare soltanto alle passioni che maggiormente  caratterizzarono la sua esistenza e influirono sulla sua opera. Tra esse ci fu l’ardente relazione che egli intrecciò con la “fatale” Antonietta Fagnani Arese, come è documentato dall’epistolario che intercorse fra i due e che può essere considerato uno dei più belli della letteratura italiana.
Ma non anticipo niente ancora.
Guarito dal “mal d’Isabella”, il Foscolo si dedicò completamente alla poesia e in breve tempo riuscì a far, parlare di sé tutta Venezia. Ciò accadde soprattutto in seguito alla rappresentazione della tragedia Tieste , da lui scritta nel 1796, a soli diciott’anni d’età, che andò in scena all’inizio del 1797, e che ottenne un successo trionfale.
Il giovane greco, che intanto aveva mutato il proprio nome Niccolò in quello più poetico di Ugo, avrebbe potuto considerarsi soddisfatto se non fosse stato continuamente in agitazione per questioni politiche. Gli ideali della rivoluzione francese lo entusiasmavano, ed egli vedeva in Napoleone Bonaparte l’uomo che aveva avuto dal destino il compito di liberare i popoli da ogni forma di schiavitù.
Nell’aprile di quello stesso 1797, Foscolo decise di abbandonare la famiglia e di correre ad arruolarsi nell’esercito della Repubblica Cispadana, fondata da Napoleone. Giunto a Milano, ottenne il grado di tenente onorario e contemporaneamente entrò a far parte del gruppo di letterati che aveva fondato “Il Monitore”, il giornale portavoce delle nuove idee repubblicane che venivano da Oltralpe.
Gli ideali di libertà che Napoleone rappresentava avevano infiammato l’animo del giovane poeta: egli era pronto alla lotta, attendeva solamente che il generale desse l’ordine di iniziare la battaglia.
Intanto si rifugiava nei suoi autori. La sua prosa, i suoi versi di questi anni risentono di reminiscenze, di imitazioni, riflesso dei libri letti appassionatamente, che lasciarono in lui un’eco profonda.
Questo Foscolo giovanile è tutto reminiscenze; la sua sensibilità ha una punta di ostentazione e il suo entusiasmo non è senza retorica. Tuttavia, non è solo uno scolaro che fa sfoggio di dottrine, è un giovane che chiede ai “grandi” da lui ammirati una coerenza di pensiero e d’azione. Così la letteratura viene acquistando un nuovo valore per il Foscolo.
Ma le sue speranze erano destinate a subire un’amara delusione: un giorno, in una villa di Mombello, alla periferia di Milano, Ugo Foscolo ebbe modo di incontrare finalmente il suo idolo. Piccolo, grassoccio, arrogante, Napoleone faceva pensare più al “caporale” che non al “generale” Napoleone e Foscolo mai più si era aspettato tanta meschinità nell’uomo che aveva posto su un piedestallo. Né le decisioni politiche che Napoleone  prese nei riguardi della Repubblica Veneta servirono a rafforzare la speranza che egli potesse diventare l’iniziatore dell’unità d’Italia. Dopo Campoformio, Foscolo ha già avuto le prime, aspre delusioni. Allora lui, che aveva scritto un’ode dedicata a “Bonaparte liberatore”, concepì per il “grande còrso” un disprezzo che lo indusse a modificare radicalmente il primo giudizio favorevole. Gli avvenimenti avevano sopraffatto il giovane nella sua immaturità.
A ogni modo, delle delusioni della politica e del rifiuto opposto alle sue attenzioni dalla famosa Teresa Pikler, moglie del poeta Vincenzo Monti, si consolò ben presto corteggiando Antonietta Fagnani Arese, una donna incantevole per lo straordinario contrasto che facevano in lei i capelli nerissimi e l’incarnato roseo. Si erano conosciuti in un palco del teatro alla Scala di Milano e finirono col darsi il primo bacio passeggiando una sera ai “Boschetti”, sotto la luna. In un momento di particolare abbandono, Foscolo confessò alla sua amica: “Un anno, un anno solo di solitudine insieme a te e poi non avrei più niente da
chiedere alla vita”.

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L’affascinante Antonietta Fagnani Arese, la donna alla quale il Poeta dedicò l’ode “All’amica risanata”.
(Da un disegno a olio attribuito di Pelagio Palagi, che si conserva al Palazzo Arese in Milano.)

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UNA PATERNITA D’OCCASIONE

le avventure galanti non lo distoglievano dal suo amore per la poesia, tanto più che non di rado era l’amore stesso a dettare i suoi versi più ispirati.
Nella-produzione poetica di Ugo Foscolo, fanno spicco soprattutto due odi, per la loro perfezione stilistica e per la carica lirica che traspare quasi da ogni parola. Con le odi, il Foscolo riuscì a raggiungere, tra le disarmonie della vita, l’armonia dell’arte a cui aspirava, rifugiandosi nella contemplazione della bellezza.
Una di queste s’intitola All’amica risanata e l’ispiratrice è, appunto, la dolce Antonietta Fagnani Arese. L’altra è anch’essa dedicata a una donna, Luigia Pallavicini, e presenta il poeta a Genova, dove le vicende della guerra lo avevano portato.
Pur non amando il mestiere delle armi, Foscolo fu un soldato valoroso. Partecipò a numerosi combattimenti e fu anche ferito. Non riuscì però a far carriera nell’esercito; glielo impedirono l’orgoglio, la sua natura ribelle che mal sopportava di piegarsi alla disciplina e l’amore per le avventure galanti. Comunque, egli non se ne rammaricò mai. Inadatto alla vita pratica, bastava l’immagine di una donna, magari soltanto vagheggiata come la gentile Isabella Roncíoni, ad accendere la sua fantasia e a fargli dimenticare qualsiasi altra preoccupazione legata alla vita quotidiana.
Neppure la paternità riuscì a mutare la sua natura incostante; non aveva la vocazione del padre e quando quasi per caso si trovò ad avere una figlia, gli occorsero parecchi anni perché si ricordasse di lei. Una serie di disavventure finanziarie lo aveva indotto nel 1804 a chiedere di essere aggregato alla divisione italiana destinata a far parte dell’armata del1’Oceano,` che nelle  intenzioni di Napoleone doveva invadere 1’Inghilterra. Ma l’impresa rimase sempre allo stato di progetto e Foscolo, che aveva allora il grado di capitano, si trovò a “vegetare” in una squallida guarnigione della Francia del nord. Qui conobbe una ragazza inglese, Fanny Emeritt, la corteggiò e ne ottenne i favori. Proprio da quella relazione passeggera, a cui egli non aveva dato alcuna importanza, nacque una bambina, Floriana, che il poeta dimentico ben presto, non appena perse interesse all’avventura da cui ella era nata.

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IL CAPOLAVORO INCOMPIUTO

Spirito tormentato, inquieto, contraddittorio, Ugo Foscolo espresse tutto il suo furore romantico nel romanzo Le ultime lettere di Jacopo Ortis, che gli valse una popolarità straordinaria. Nelle pagine di questo libro vibrano illusioni e disinganni, c’è la passione per l’Italia, Venezia tradita, l’amore perduto di Isabella Roncioni destinata a diventare sposa di un altro uomo. C’è tutta l’amarezza dell’uomo senza patria, senza famiglia, senza stabili affetti; l’amarezza di un’anima errabonda, di una vita considerata contraddittoria e inutile. Tuttavia il libro non è solo tragedia; la tragedia c’è stata e da essa è nata una situazione lirica; in Jacopo Ortis vi è infatti una vitalità che i disinganni non hanno potuto dissipare.
Un provvedimento governativo, riguardante la sepoltura dei morti, ispirò poi nel 1806 al poeta quello che è il suo carme più famoso I Sepolcri.
La nuova legge che contendeva il nome ai morti e voleva la stessa tomba per il poeta e per il ladro offese il suo sentimento di uomo.
Ne I Sepolcri il “nulla eterno”, quel pensiero che rode Jacopo Ortis e che lo porterà al suicidio, si riempie di calore e di luce; pur mancando al Foscolo la fede nella resurrezione dell’uomo, i morti risorgono per lui nell’affetto e nell’immaginazione dei vivi. Se si lascia sulla terra una famiglia, una patria, un affetto, si scende consolati nella tomba, sicuri di sopravvivere. Proprio nella natura umana il Foscolo cerca cosi la nuova poesia delle tombe, nei motivi più ,elevati della natura umana: la patria, la famiglia, la gloria, l’immortalità, tutto è collegato nel santuario della coscienza.
Il furore giovanile ha preso qui il tono pacato di una forza sicura e misurata; del sentimentalismo della prima giovinezza non rimane che un velo di mestizia che dà a tutta l’opera una solennità quasi religiosa.
Ma forse il capolavoro del Foscolo è il carme incompiuto Le Grazie, in cui egli cercò di esprimere il suo ideale romantico con un canto che avesse la compostezza, l’armonia e lo “splendore di marmo” della grande poesia classica.
Il poeta si è definitivamente conciliato con sé e con le. cose; ne Le Grazie posa il suo spirito eternamente inquieto e tormentato.

La vena poetica del Foscolo si venne inaridendo con gli anni ed egli si trasformò in prosatore e critico. Aveva abbandonato anche il servizio militare attivo, ma non si era dimenticato della passione politica che aveva guidato tante sue azioni giovanili.
Ritornati gli Austriaci a Milano, infatti, egli fu definito in un rapporto di polizia come una “testa sempre riscaldata”, un uomo “senza costumi e senza moralità”.
Tuttavia, il governo di Vienna gli offri un buon posto. Lo rifiutò e preferì partire per l’inevitabile esilio che seguì a questo rifiuto.
Dopo un breve soggiorno in Svizzera, raggiunse l’Inghilterra, dove ritrovò la figlia Floriana. La nostalgia  dell’Italia e del sole mediterraneo contribuì ad amareggiare i suoi ultimi giorni.
Una volta disse: “La troppa età fu data dal cielo in pena del troppo desiderio di vivere”.
Morì a Londra nel 1927. Alcuni anni più tardi il suo corpo fu trasportato nella chiesa di Santa Croce, a Firenze, e qui, accanto ai “grandi” da lui cantati nel carme I Sepolcri, egli riposa.

UN SONETTO 

DI SE STESSO

Perché taccia il rumor di mia catena
Di lagrime. di speme, e di amor vivo.
E di silenzio; ché pietà mi affrena.
Se con lei parlo, o di lei penso e scrivo

Tu sol mi ascolti, o solitario rivo.
Ove ogni notte Amor seco mi mena.
Qui nitido il pianto e i miei danni descrivo.
Qui tutto verso del dolor la pieno.

E narra come i grandi occhi ridenti
Arsero d’immortal raggio il mio core.
Come la rosea bocca, e i rilucenti

Odorati capelli ed il candore
Delle divine membra, e ì cori accenti
M’insegnarono alfin pianger d’amore.

(da: Ugo Foscolo – Tutte le poesie – Biblioteca. Universale Rizzoli)

È incerto se questo sonetto, pubblicato per la prima svolta nel 1802, sia stato scritto nel 1798 per la bella Teresa Pikler, moglie del poeta Vincenzo Monti, oppure nel 1800 per Isabella Roncioni. Non è forse il sonetto più bello fra quelli scritti dal Foscolo (ne ricordo alcuni dei più famosi: A Zacinto.., Alla sera..,  In morte del fratello Giovanni.., A Firenze), ma è certo uno dei più caratteristici del suo stile e del suo particolare mondo poetico.
Nelle due quartine iniziali i versi hanno un ritmo “tranquillo”, si susseguono secondo le leggi naturali del racconto, sono insomma essenzialmente piani e descrittivi. Nel confidente rivolgersi alla natura, il soffrire del poeta assume toni idilliaci.
Nelle due terzine, invece, fin dall’attacco “E narra…”, il tono si innalza, il ritmo diventa molto più concitato e rapido, i versi s’incalzano l’un l’altro, quasi a rendere il tumultuare della passione amorosa, che poi idealmente si placherà nel pianto liberatore.
Tutto il sonetto si conclude perciò mirabilmente nell’ultimo, bellissimo verso, “M’insegnarono alfin pianger d’amore”, che ha il valore di una scoperta consolatrice.

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NEOCLASSICISMO 

IL PERIODO NEOCLASSICO – Cultura e letteratura

LA LETTERATURA NEOCLASSICA ITALIANA – La storiografia

1 – UGO FOSCOLO – Vita e opere

2 – UGO FOSCOLO – Vita e opere

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ALLA SERA – Ugo Foscolo

VINCENZO MONTI – Vita e opere

CAIO GRACCO – Vincenzo Monti

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