NAPOLEONE BONAPARTE

L’imperatore Napoleone nel suo studio alle Tuileries
Jacques-Louis David

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NAPOLEONE BONAPARTE

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Il Direttorio era accusato di aver dilapidato il patrimonio di conquiste che Bonaparte aveva realizzato nel 1796-97.
Dov’erano finiti i milioni che Bonaparte aveva mandato dall’Italia?
Com’era avvenuto che, nel giro di due anni i Francesi erano stati costretti a passare dall’entusiasmo per la conquista dell’Italia e dell’Egitto alla paura dell’invasione e della totale rovina?
Com’era avvenuto che controrivoluzionari avevano potuto rialzare la testa in Vandea ed il banditismo e  la chouannerie dilagavano in Bretagna e in Normandia?
L’opinione pubblica si poneva questi interrogativi: e la figura del generale vittorioso si ingigantiva nel confronto con un governo che appariva incapace e corrotto. Altro motivo di preoccupazione per la borghesia, le elezioni del 1798 per il rinnovo del terzo dei Consigli avevano visto aumentare il numero dei rappresentanti di tendenza giacobina. Il Direttorio era stato costretto ad annullare con un nuovo colpo di forza i risultati elettorali in alcune circoscrizioni (22 floreale 1798) ed a sostituire gli eletti con deputati fedeli al governo. Si fece strada l’idea di rafforzare l’esecutivo e di modificare la costituzione dell’anno III, ritenuta eccessivamente liberale. Il Sieyès, nominato nel 1799 membro del Direttorio, era il principale sostenitore di questo programma.
La crisi interna era arrivata a questo punto quando il Bonaparte decise di rientrare in Francia, lasciando il comando della spedizione al generale Kléber, subito dopo aver annientato un corpo di spedizione turco sbarcato ad Abukir. Il suo ritorno fu salutato con entusiasmo dalla popolazione.
I fautori della revisione costituzionale videro in lui lo strumento attraverso il quale avrebbero potuto realizzare il loro programma, mentre fra le stesse correnti democratiche, profondamente disorientate, vi era chi non escludeva che un governo autoritario potesse attuare una svolta a sinistra, contro speculatori, trafficanti e monarchici.
In pochi giorni, per iniziativa del Sieyès e con l’appoggio dei direttori Ducos e Barras, fu messo a punto il piano di un colpo di Stato. Il piano prevedeva anzitutto il trasferimento del Consiglio dei Cinquecento nella cittadina di Saint Cloud, dove (al riparo da temuti interventi della folla rivoluzionaria parigina) si sarebbe successivamente attuata la revisione della costituzione e si sarebbe affidato il potere ad un nuovo organo esecutivo. Le truppe della regione parigina, poste sotto il comando del Bonaparte, avrebbero garantito l’ordine e la legalità.
L’operazione, che ebbe inizio il 18 brumaio (9 novembre), si svolse in modo tale che non fu possibile salvare l’apparenza legale e costituzionale, com’era nei voti dei promotori. Il Consiglio dei Cinquecento protestò vivacemente contro la richiesta di revisione costituzionale. Bonaparte, entrato nell’aula con una scorta per sollecitare la decisione, fu accolto con grida ostili: “Abbasso il dittatore! Fuori legge!”.
Fallito il tentativo di salvare la forma costituzionale, il colpo di Stato fu attuato mediante l’intervento delle truppe che invasero l’aula del Consiglio, cacciandone i deputati prima che potessero mettere fuori legge Bonaparte. Più tardi alcuni deputati furono costretti a tornare nell’aula ed a votare lo scioglimento della propria assemblea, mentre il Consiglio degli Anziani affidava il governo della Repubblica ad un Consolato formato da BonaparteSieyès e Ducos, Gli organizzatori politici del colpo credevano di essersi serviti del prestigio di Bonaparte per una operazione politica che avrebbe concentrato il potere nelle loro mani. Essi non si rendevano conto che invece, una volta abbattuto il sistema rappresentativo, Bonaparte era diventato il vero padrone della situazione. Egli infatti riuscì facilmente ad assicurarsi la preminenza sugli altri membri del nuovo governo. La Costituzione dell’anno VIII, redatta entro un mese dal colpo di Stato, ratificò il nuovo assetto politico, dando al primo console, che fu lo stesso Bona parte, il potere effettivo ed agli altri due semplicemente il voto consultivo e creando un complicatissimo meccanismo elettorale e di elaborazione delle leggi che assicurava in sostanza il potere personale del generale.
Eletti dal popolo o nominati dall’esecutivo, i nuovi organi non ebbero più alcun potere di controllo e furono concepiti come strumenti dell’autorità consolare. Il regime assembleare, che era stato il cuore pulsante della vita politica rivoluzionaria, era ormai definitivamente distrutto. Bonaparte si servì del potere che aveva conquistato per sopprimere la libertà di stampa, per riorganizzare l’amministrazione pubblica, per combattere a fondo il banditismo che imperversava nelle regioni centrali e meridionali del paese, ristabilire l’equilibrio del bilancio, Fu creato un efficientissimo apparato di polizia che faceva capo ad un apposito ministero diretto dall’abilissimo Fouché.
L’aspetto più importante dell’opera realizzata nella prima fase del governo consolare fu il riordinamento amministrativo. La divisione del paese in dipartimenti fu mantenuta, ma fu soppressa l’autonomia locale, con l’abolizione delle assemblee e delle cariche elettive. Tutta la vita amministrativa locale fu sottoposta ai prefetti, che rappresentavano il governo in ogni dipartimento e dipendevano direttamente dal ministro dell’interno: un modello di accentramento amministrativo che fu poi largamente seguito e imitato in quasi tutti i paesi europei che ebbero nel secolo XIX un regime liberale-costituzionale.
La rivoluzione aveva ormai concluso il suo corso. Il dominio della borghesia era assicurato, sia pure a spese della libertà.
Non mancava che la riaffermazione del prestigio militare per consolidare il nuovo regime, annientare le speranze dei realisti e dei loro sostenitori stranieri e liquidare i resti del democratismo rivoluzionario.
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David - Napoleon crossing the Alps - Malmaison2.jpg
Napoleone che attraversa le Alpi (1800)
Jacques-Louis David (1748–1825)
Château de Malmaison – Parigi
Olio su tela cm 259 x 221
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La seconda campagna d’Italia

Tracciate le linee della riorganizzazione interna, Bonaparte riprese la guerra contro l’Austria sul fronte del Reno e su quello italiano. Egli stesso venne in Italia con un’armata di 60.000 uomini e riportò a Marengo, il 14 giugno 1800, una vittoria che ebbe un valore decisivo non soltanto dal punto di vista militare, ma anche sul piano politico interno, in quanto servì egregiamente a consolidare la dittatura da poco instaurata. Il 3 dicembre 1800 una nuova vittoria ottenuta dal Moreau a Hohenlinden consolidò il successo. Bonaparte rivolse allora i suoi sforzi al settore diplomatico, nell’intento di realizzare una pace vantaggiosa. Egli aveva come collaboratore in questo campo un ottimo diplomatico, il principe di Talleyrand, che fu l’artefice delle trattative che condussero alla pace con l’Austria (Lunèville, 9 febbraio 1801).
Furono riconfermati i termini del trattato di Campoformio e quindi riconosciuti alla Francia i territori del Belgio, della regione renana e della Repubblica cisalpina (che mutò il suo nome in quello di Repubblica italiana e nominò come suo presidente lo stesso Bonaparte). La Repubblica batava e la Repubblica svizzera furono ricostituite ed il Piemonte fu nuovamente annesso alla Francia. La Toscana, divenuta Regno d’Etruria, fu data al duca di Parma.
Il capolavoro diplomatico di Bonaparte e del suo ministro fu poi il rovesciamento delle posizioni dello zar Paolo I: un capolavoro che però rimase incompiuto perché, mentre si stava elaborando un progetto di alleanza franco-russa in funzione antinglese, lo zar fu assassinato. Il fallimento di questo progetto e la successiva capitolazione del corpo di spedizione in Egitto (dove Kléber era stato ucciso in un attentato) costrinsero Bonaparte a cercare un accomodamento con l’Inghilterra. Anche in questo paese, d’altronde, non mancavano difficoltà interne (carestia, crisi finanziaria, questione irlandese) e gran parte dell’opinione pubblica era favorevole alla pace. Le trattative iniziate dopo le dimissioni del ministero Pitt (marzo 1801) si conclusero con la pace di Amiens (25 marzo l802). La Francia non dovette fare concessioni sul piano economico e commerciale ed ottenne il riconoscimento delle sue conquiste continentali; l’Inghilterra doveva restituire Malta, occupata durante la guerra, all’ordine cavalleresco che ne era il legittimo proprietario, ma conservava l’isola già spagnola di Trinidad, in America, e l’isola di Ceylon, già olandese, in Asia.
Subito dopo la pace di Amiens, la Francia, per ristabilire il suo dominio coloniale nelle Antille, dovette domare la popolazione negra di Santo Domingo che, nel corso della guerra, si era ribellata contro la schiavitù sotto la guida di Toussaint Louverture ed aveva di fatto affermato l’indipendenza della colonia. Era il primo esempio di un movimento politico di schiavi negri, al quale non era estranea l’influenza ideale della rivoluzione francese.
Un’armata di 10.000 soldati fu inviata nell’isola per soffocare la rivolta e restaurare la schiavitù. Toussaint Louverture, arrestato, fu mandato in Francia e fatto morire in prigione.
L’opinione pubblica francese era profondamente soddisfatta delle prime esperienze del Consolato, Bonaparte aveva assicurato alla Francia i “confini naturali”, la pace, la tranquillità interna. Il primo console poteva tentare di legare al nuovo regime anche quella parte del paese che nutriva simpatie per la monarchia, isolando così i realisti più pervicaci all’interno e togliendo ai fautori esterni della restaurazione borbonica ogni possibilità di manovra.
Nel nuovo ordine borghese, non più minacciato dalle agitazioni democratiche e popolari, tutte le forze conservatrici potevano infatti trovare le più ampie garanzie. Esclusa ormai, dopo il 18 brumaio, la prospettiva di nuove sorprese rivoluzionarie, caratteri e limiti delle nuove istituzioni erano stabilmente delineati.

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Napoleone a 23 anni, tenente colonnello della Guardia Nazionale
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IL consolato

L’abbandono dell’anticlericalismo rivoluzionario e la riconciliazione con la Chiesa erano condizioni indispensabili per la piena attuazione di questo programma. Senza l’appoggio del clero i realisti non avrebbero più avuto presa nelle campagne; la riconciliazione avrebbe reso più facili i rapporti con le regioni annesse e il ralliement dell’aristocrazia al nuovo regime.
Già all’indomani del 18 brumaio la libertà del culto cattolico era stata assicurata, molti preti erano stati richiamati dall’esilio e tratti dalle prigioni. Sulla base di queste concrete premesse furono avviati i negoziati con la Santa Sede, mentre la seconda campagna d’Italia era ancora in corso. Nella situazione creata dalla vittoria di Marengo, il papa Pio VII (1800-1823) accettò le proposte che venivano da Bonaparte. Il Concordato, negoziato per la parte pontificia dal cardinale Consalvi, fu stipulato il 16 luglio 1801.
Il cattolicesimo fu riconosciuto come religione della maggioranza dei Francesi, e quindi protetta e sostenuta dallo Stato, che si assunse l’onere di stipendiare il clero. Al primo console spettava la nomina dei vescovi, ai quali il papa doveva dare l’investitura spirituale. Da parte sua il papa riconobbe la Repubblica e rinunciò alla rivendicazione dei beni confiscati alla Chiesa.
Al momento della ratifica, il concordato incontrò la decisa opposizione di una parte dei deputati delle assemblee. Bonaparte epurò il Tribunato (una delle assemblee che, con il Corpo legislativo ed il Senato aveva il compito di discutere le leggi nel regime consolare) escludendo gli oppositori; nello stesso tempo, però, fece approvate gli Articoli organici del culto cattolico (inseriti in una legge generale dei culti), con i quali si attribuiva allo Stato un ampio potere di controllo sulla vita ecclesiastica, secondo le tradizioni gallicane.
L’istruzione pubblica fu riorganizzata durante il Consolato. Abbandonato il principio dell’istruzione gratuita e obbligatoria (l’insegnamento elementare restò affidato al clero e ai comuni) lo Stato si occupò esclusivamente dell’insegnamento secondario e universitario, che doveva formare professionisti, dirigenti dell’amministrazione pubblica, tecnici e quadri dell’esercito.
Il fulcro della nuova organizzazione scolastica furono i licei. L’istruzione superiore rimase di fatto riservata ai giovani appartenenti alle classi elevate e un rigido controllo sull’insegnamento e sulla disciplina assicurò la fedeltà di studenti e docenti al governo.
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Il capitano Bonaparte all’assedio di Tolone
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La ripresa della guerra

Sulla stessa linea si colloca I’opera fondamentale del periodo consolare, il Codice civile dei francesi, più tardi designato come Codice Napoleone .
Una ristretta commissione di giuristi cominciò a prepararlo fin dall’agosto 1800; la promulgazione avvenne il 21 marzo 1804. Con il nuovo codice, ciò che la borghesia moderata aveva conservato della spinta rivoluzionaria e dei famosi principi del 1789 fu tradotto in leggi che regolarono da allora in poi la vita collettiva ed i rapporti giuridici tra i cittadini. Ad una legislazione frammentaria, redatta nel corso di tutto il periodo rivoluzionario, si sostituì un corpo organico e unitario di leggi.
Esso rispecchiava l’evoluzione storica che aveva portato al potere la borghesia, confermando la soppressione dei privilegi feudali e dei vincoli alla proprietà, l’eguaglianza davanti alla legge, la libertà personale.
L’accento era posto decisamente sulla tutela della proprietà privata e sulla libertà di iniziativa, che costituirono i cardini del nuovo assetto giuridico; le esigenze dei non possidenti e dei lavoratori salariati non erano neppure prese in considerazione, se non in quanto era garantita a tutti la libertà formale di disporre di se stessi e l’eguaglianza giuridica.

Mentre l’opera legislativa era in corso di realizzazione, l’ordinamento costituzionale subì una rapida evoluzione che trasformò la repubblica fondata sul predominio dei “notabili” in una vera e propria monarchia. Dopo la pace di Amiens, infatti, come “pegno di riconoscenza nazionale”, il Senato rielesse Bonaparte per dieci anni; poco dopo fu proposto che egli assumesse il consolato a vita. La proposta, sottoposta a plebiscito, raccolse una grande maggioranza di voti favorevoli (3.500.000 contro 8.374). Proclamato console a vita (2 agosto 1802) Bonaparte fece subito approvare la Costituzione dell’Anno X, con la quale accrebbe i propri poteri e si attribuì il diritto di designare il candidato alla successione. Il regime consolare non differiva più se non di nome dalla monarchia. Il consenso dei cittadini più ragguardevoli per ricchezza e autorità sociale e dei ralliès compensava il risentimento e la delusione dei repubblicani.

Il trattato di Amiens non fu seguito da una svolta nella politica economica ed estera e dall’effettivo ristabilimento delle relazioni commerciali tra i due paesi. In fase di intenso sviluppo industriale, l’Inghilterra era più che mai interessata al libero accesso nei mercati europei. I suoi mercanti e i suoi industriali avrebbero potuto accettare le conseguenze economiche negative della pace (ristabilimento del dominio coloniale francese, restituzione di colonie, chiusura delle industrie belliche, fine del monopolio commerciale in alcuni settori) soltanto a condizione di trovare un compenso nella ripresa di liberi rapporti di scambio con I’Europa continentale.

La politica economica di Napoleone si orientò, invece, in direzione opposta. Anche in Francia la rivoluzione aveva dato un forte impulso al processo di industrializzazione. Un indice di questo sviluppo, nel settore tessile, è l’aumento delle importazioni di cotone grezzo, che da 4.700.000 kg nel 1789 passò a 11 milioni nel 1803.
Per sostenere l’industria, Bonaparte stabilì elevate tariffe doganali, chiudendo praticamente il mercato francese ai manufatti stranieri. Questa politica non si limitò al territorio della Francia, ma si estese anche ai territori ed alle zone che erano sotto la sua influenza.
Dopo Amiens inoltre, la zona d’influenza francese continuò ad allargarsi ulteriormente, con le annessioni in Italia (Piemonte, Parma, isola d’Elba), con l’occupazione della Svizzera ed il successivo Atto di mediazione (1801), con il rimaneggiamento politico-territoriale degli Stati tedeschi (1801).
La Francia riprese anche la sua iniziativa nelle Antille, malgrado le difficoltà create dalla rivolta delle popolazioni negre, e tentò di ristabilire le proprie posizioni nella Luisiana (quest’ultimo progetto fu poi abbandonato e la Luisiana fu venduta nel 1803 agli Stati Uniti per 80 milioni). Bonaparte rivolse infine la sua attenzione ad un altro settore, minacciando più direttamente gli interessi inglesi: l’invio di missioni diplomatiche e commerciali francesi in Egitto, in Siria e in India diede agli inglesi la convinzione che la Francia non avesse abbandonato i disegni espansionistici in Oriente.
Il pretesto per la ripresa della guerra (maggio 1801) fu la questione di Malta, che l’Inghilterra, in violazione del trattato di Amiens, non volle abbandonare. II suo rifiuto era giustificato col fatto che la Francia a sua volta non aveva rispettato l’equilibrio stabilito nel trattato, con il mantenimento di truppe in Olanda, le annessioni in Italia, l’azione politica in Germania e in Svizzera.
Più che sulle proprie forze militari, il governo inglese contava inizialmente ancora sulla possibilità di suscitare e sostenere la controrivoluzione all’interno della Francia. A questo fine preparò un vasto complotto con un gruppo di emigrati, tra i quali il conte di Artois, fratello di Luigi XVI.
Fu inviato segretamente in Francia Georges Cadoudal, un capo degli chouans che era stato costretto ad emigrare dalla repressione seguita al 18 brumaio. Insieme a lui rientrò clandestinamente anche l’ex generale Pichegru.
I congiurati tentarono di coinvolgere anche repubblicani delusi, come il generale Moreau. Il complotto, che aveva come obiettivo il rapimento di Bonaparte, fu scoperto. Dopo la condanna di coloro che vi erano direttamente implicati o semplicemente sospettati (il Moreau, pur essendo rimasto estraneo, fu esiliato), Bonaparte volle dare un avvertimento esemplare ai realisti. Un aristocratico emigrato, il duca di Enghien, appartenente alla famiglia dei Condè, fu prelevato da truppe francesi nel territorio tedesco del Baden, portato in Francia e fucilato.
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Il generale Bonaparte nel periodo della prima campagna d’Italia
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La formazione del Grande Impero

Le mene realiste, duramente represse, furono prese a pretesto per il rafforzamento della dittatura. L’instaurazione di una dinastia nuova, legata alla rivoluzione, apparve alle forze politiche moderate come la migliore garanzia contro il ritorno dei Borboni.
Un senato consulto del 18 maggio 1804 presentò una nuova costituzione (dell’anno XII) con la quale il governo veniva affidato ad “un imperatore ereditario, Napoleone Bonaparte“. Un plebiscito (tipico strumento della politica “cesaristica”) ratificò la decisione. La creazione dell’impero aveva dunque il consenso popolare, almeno formalmente. Tuttavia l’imperatore volle una consacrazione di tipo tradizionale, più consona al carattere che egli intendeva imprimere al suo regno. Egli chiese ed ottenne di essere incoronato dal papa Pio VII.
La cerimonia si svolse il 2 dicembre 1804 nella cattedrale di Notre Dame.
Unico particolare inedito rispetto alle tradizionali cerimonie di incoronazione, l’imperatore volle porre da se stesso la corona sul proprio capo e su quello dell’imperatrice Giuseppina.
Napoleone I, malgrado tutto, teneva a mostrarsi figlio della rivoluzione nel momento in cui ne rinnegava lo spirito repubblicano ed egualitario. Pare che qualcuno tra i presenti abbia fatto questo commento: “Bella cerimonia! Mancano soltanto i trecentomila francesi che si sono fatti uccidere per abolire tutto questo…”.
Vera o inventata, la frase indica quali fossero in quel momento i sentimenti dei repubblicani.
La proclamazione dell’impero non portò mutamenti di rilievo nell’organizzazione dello Stato. I poteri personali di Napoleone naturalmente aumentarono, ma erano già molto estesi durante il consolato; si accentuò la censura sulla stampa, il controllo sull’attività culturale e la repressione dei movimenti di opposizione. Una nuova aristocrazia, i cui quadri si venivano formando già negli ultimi tempi del consolato, si costituì attorno all’imperatore. I membri della sua numerosa e inquieta famiglia ne furono i più alti esponenti. I suoi fratelli, divenuti principi, furono nominati senatori di diritto insieme ad altri grandi dignitari dell’impero; diciotto ufficiali furono nominati marescialli dell’impero; con l’assegnazione delle numerose cariche di corte furono riesumati vecchi titoli e distinzioni. Più tardi furono rimessi in vigore i titoli nobiliari, che tuttavia non conferivano particolari privilegi.
Sieyès, colui che nel 1789 aveva sostenuto che la nazione si identificava col terzo stato, divenne conte. Il reinserimento degli aristocratici ex borbonici fu ulteriormente facilitato.
Tra il 1803 e il 1805 la macchina bellica della Francia fu messa in moto per preparare uno sbarco in Inghilterra. La superiorità inglese sul mare e l’entrata in guerra della Russia, della Austria, della Svezia e di Napoli (che nell’agosto del 1805 formarono insieme all’Inghilterra la terza coalizione) impedirono l’attuazione del progetto.
La flotta francese fu quasi completamente distrutta a Trafalgar il 21 ottobre 1805 dall’ammiraglio Nelson, che nella battaglia perse la vita. Già prima, però, Napoleone aveva deciso di giocare la sua grande partita sul continente. La Grande armata, che era stata concentrata a Boulogne in attesa che si creassero le condizioni favorevoli allo sbarco, si era messa in marcia verso il centro dell’Europa.
Giunto fulmineamente nel bacino del Danubio, Napoleone affrontò l’esercito austriaco e gli inflisse una grave sconfitta a Ulm, il 15 ottobre 1805.
I resti dell’esercito austriaco, che a Ulm lasciò decine di migliaia di prigionieri, si congiunsero in Moravia con l’esercito russo. Napoleone, occupata Vienna, affrontò gli austro-russi ad Austerlitz, ottenendo una vittoria che è una delle più importanti testimonianze della sua genialità di stratega. L’imperatore d’Austria dovette ritirarsi dalla coalizione e firmare la pace di Presburgo (26 dicembre 1805).
Anche la Prussia, entrata in guerra nel 1806 (quarta coalizione) fu irrimediabilmente sconfitta nelle battaglie di Jena e di Auerstedt; l’esercito francese penetrò nel regno occupandone le città ed i luoghi fortificati senza incontrare più nessuna resistenza. A differenza delle sue alleate, la Russia mantenne Ia sua capacità militare anche dopo le sconfitte subite ad Eylau ed a Friedland nel 1807.
Lo zar Alessandro I era ormai sul continente l’unico sovrano al quale Napoleone non poteva dettare legge. II trattato di Tilsit, stipulato nel 1807, rispecchia l’equilibrio di forze tra i due imperi e getta le basi di una alleanza in vista della divisione dell’Europa in due grandi zone di influenza.
Prostrata e smembrata, la Prussia restò alla mercé di Napoleone; l’Austria tentò invece di risollevarsi nel 1809. II suo tentativo (che diede il via alla quinta coalizione) fu stroncato da Napoleone nella battaglia di Wagram e la nazione vinta dovette subire nuove e pesanti imposizioni dal vincitore nella pace di Schönbrunn (1809). All’imperatore Francesco II si offrì una possibilità di attenuare la durezza della sconfitta quando Napoleone divorziò da Giuseppina e manifestò il proposito di imparentarsi con una casa regnante. Il sovrano austriaco fu ben contento di offrirgli in sposa la figlia diciottenne Maria Luisa. L’erede che Napoleone desiderava nacque nel 1811 ed ebbe il significativo titolo di re di Roma.
Quattro anni di successi militari, dal 1805 al 1809, ebbero conseguenze vistose nella geografia politica dell’Europa.
L’egemonia o il dominio diretto della Francia si arrestarono soltanto ai confini della Russia. Direttamente o indirettamente tutta l’Italia, escluse le isole, fu posta sotto il dominio francese. Il Veneto, sottratto all’Austria, fu aggregato al Regno di Italia (istituito nel 1805 nel territorio dell’ex Repubblica cisalpina: Napoleone ne aveva cinto la corona ed aveva assegnato la carica di viceré al figliastro Eugenio Beauharnais).
Nel 1806 i Borboni di Napoli furono espulsi dal loro regno, la cui corona fu data ad un fratello dell’imperatore, Giuseppe. Anche questa volta i sovrani si rifugiarono in Sicilia, sotto la protezione inglese, e da qui tentarono di suscitare una insurrezione popolare antifrancese come quella del 1799. Riuscirono soltanto a provocare in Calabria un vasto sussulto di brigantaggio che, sostenuto dagli inglesi e dalla popolazione contadina, diede molto filo da torcere alle truppe francesi.
La Toscana fu riunita all’impero francese e successivamente eretta in granducato ed affidata ad una sorella dell’imperatore, Elisa Baciocchi. Anche lo Stato della Chiesa fu occupato tra il 1807 ed il 1808; il papa fu deportato da Roma e tenuto prigioniero, prima a Savona e poi a Fontainebleau.
Le Marche furono aggregate al Regno d’Italia, mentre il resto dello Stato pontificio fu annesso alla Francia.
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Il generale Napoleone Bonaparte, comandante dell’Armata d’Italia
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Il nuovo assetto dell’Europa continentale

Anche la Dalmazia e l’Istria furono tolte all’Austria col trattato di Presburgo e costituirono un dominio diretto della Francia col nome di Province Illiriche. Ad esse furono aggregate, dopo Wagram, col trattato di Schönbrunn, Trieste, Fiume, la Carinzia, la Carniola e la Croazia.

In Germania, i territori alla sinistra del Reno erano annessi alla Francia; un gruppo di Stati furono riuniti nella Confederazione del Reno. Il sacro Romano Impero scomparve, e Francesco II dovette trasformare il suo titolo medievale in quello più modesto di imperatore d’Austria e rinunciare alla sua residua autorità sulla Germania. Nell’ambito della Confederazione gli Stati più importanti (Baviera, Württemberg, Baden, Sassonia, Berg) erano alleati e vassalli della Francia.
A compenso dell’aiuto dato a Napoleone, la Baviera e il Württemberg furono costituiti in regni e si ingrandirono a spese dell’Austria, l’una con l’acquisto del Tirolo e del Trentino, l’altro con l’annessione di una parte della Svevia. Anche la Sassonia, divenuta regno, ebbe un compenso: i territori polacchi sottratti alla Russia formarono il Granducato di Varsavia, il cui governatorato fu affidato al re di Sassonia.
Dallo smembramento della Prussia sorse anche, ad occidente dell’Elba, il Regno di Vestfalia, sul cui trono fu posto un altro fratello di Napoleone, Gerolamo.
L’Olanda fu dapprima trasformata in regno, sotto la sovranità di Luigi Bonaparte, fratello di Napoleone (1806). In seguito (1810) fu annessa alla Francia, come era già stato il Belgio.
Dopo Tilsit, Francia ed Inghilterra restarono ancora una volta sole a fronteggiarsi, Napoleone aveva già individuato la linea lungo la quale si sarebbe svolta la lotta: bisognava far leva sul predominio francese nel continente per isolare economicamente l’Inghilterra. Bisognava, cioè, istituire, nei confronti della potenza avversaria, un blocco economico, al quale avrebbero dovuto partecipare tutti gli stati del continente.
Da Berlino, dopo la disfatta della Prussia, Napoleone aveva interdetto a tutti i paesi europei il commercio con l’Inghilterra. Le disposizioni per il blocco furono via via aggravate con i decreti emanati a Fontainebleau ed a Milano (1807); Napoleone si propose di effettuare ulteriori annessioni per eliminare le teste di ponte commerciali che l’Inghilterra aveva ancora in Europa.
In questo quadro va considerata l’invasione del Portogallo effettuata nel 1807.
La successiva occupazione della Spagna fu facilitata da un contrasto scoppiato in seno alla famiglia reale, tra il re Carlo IV, dominato dall’onnipotente ministro Godoy, ed il figlio, che intendeva, col nome di Ferdinando VII, assumere la corona. Essi si rivolsero per un arbitrato a Napoleone, che li convocò a Baiona, ma per trasferirli in Francia, dopo avere imposto loro la rinuncia al trono, ed insediare come re il fratello Giuseppe. Questi fu sostituito a Napoli da un brillante generale, cognato dell’imperatore, Gioacchino Murat.
La rivolta di Madrid del 2 maggio 1808, duramente repressa dalle truppe francesi, fu il segno premonitore di un movimento insurrezionale che avrebbe impegnato l’esercito francese in una guerriglia estenuante, sbilanciando la distribuzione delle forze militari all’interno del grande impero e segnando la prima grave incrinatura nel sistema politico creato da Napoleone.
Lo sconvolgimento della geografia politica europea provocato dalle folgoranti vittorie di Napoleone ebbe la sua apparente e preminente giustificazione nella volontà di potenza dell’imperatore e nella necessità di mobilitare il continente nella lotta soprattutto economica contro l’Inghilterra. La nuova struttura politica europea corrispondeva, tuttavia, almeno in parte, ad esigenze più profonde e diverse da quelle dell’imperialismo napoleonico. Se la logica dell’espansione prevalse nella decisione di annettere territori e creare nuovi regni, in alcuni casi si ebbe un adeguamento dei confini politici degli Stati alla realtà delle nazioni, intese come entità omogenee per lingua, costumi, interessi, cultura, posizione geografica.
Per quanto arbitrarie siano state le costruzioni politiche napoleoniche (ed arbitraria fu soprattutto la pretesa di assoggettare nuovi e vecchi organismi politici agli interessi dello imperialismo francese) in definitiva lo furono meno di quelle elaborate nel corso delle guerre e delle operazioni diplomatiche dell’ancien régime, che rispondevano al criterio dell’equilibrio tra le grandi potenze o erano basate su interessi dinastici e sul diritto feudale. I casi più significativi sono quelli della Confederazione del Reno, dell’Italia (dove una serie di

sopravvivenze medievali, dalla repubblica di Genova al dominio temporale della Chiesa, furono eliminate) e della Polonia, dove fu ricostituito un primo abbozzo di Stato nazionale. Indirettamente, poi, la separazione dell’Europa continentale dalle terre d’oltremare durante le guerre napoleoniche ebbe nei domini coloniali di Francia, Spagna, Olanda e Portogallo un duplice effetto: consentì all’Inghilterra d’impadronirsi di una parte di essi e di crearsi negli altri (specialmente nelle colonie latino-americane) nuovi sbocchi commerciali; ma nello stesso tempo permise il sorgere di movimenti di indipendenza dei popoli soggetti, che costituirono nell’America latina la premessa della creazione di nuovi Stati nazionali.

Alcune di queste trasformazioni sopravvissero al crollo dell’impero. Molti principati tedeschi non riacquistarono più la loro autonomia, come non la riacquistarono, in Italia, le repubbliche di Genova e di Venezia; nell’America latina i risultati raggiunti dai movimenti di indipendenza si dimostrarono irreversibili e diedero a breve scadenza i loro frutti.
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Napoleone alla battaglia del Ponte di Arcole
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Riforme e progresso nell’area napoleonica

L’importanza dell’impero napoleonico nella storia della civiltà europea non deve essere misurata, però, semplicemente col metro del suo contributo ad una “razionalizzazione” della carta politica del continente. Se ho delineato, sia pure sommariamente, i confini di un impero che ebbe soltanto pochi anni di vita e che si dimostrò ben presto una costruzione effimera, l’ho fatto soprattutto per indicare l’area geografica e politica in cui ebbero luogo, per diretta influenza e iniziativa della Francia napoleonica, quei mutamenti istituzionali e sociali che né le riforme settecentesche, né I’influsso ideale della rivoluzione francese, né i tentativi rivoluzionari di esigui gruppi di giacobini avevano potato prima determinare.
In quasi tutta questa area fu abolito il feudalesimo, fu introdotto il codice civile francese (che si ispirava ai principi dell’89, come ho già detto, sia pure filtrati attraverso le esperienze della reazione termidoriana, del Direttorio e del Consolato, e li traduceva in una legislazione positiva), fu creata una nuova e più moderna struttura amministrativa, fu laicizzato lo Stato, fu affermata la tolleranza religiosa. Lo sviluppo del sistema capitalistico (con l’ammodernamento dell’apparato produttivo e dei rapporti sociali) ricevette un forte impulso e la borghesia cominciò a fare le prime esperienze di governo e di amministrazione pubblica. Anche gli organismi militari furono rinnovati e fu aperto ai non nobili l’accesso ai più alti comandi.
La superiorità del sistema politico-sociale che in tal modo fu creato fu implicitamente riconosciuta anche dagli avversari continentali della Francia. Per questo motivo, in alcuni casi, come quello della Prussia, la lotta contro Napoleone passò attraverso I’adozione di riforme che si ispiravano alla rivoluzione francese ed all’ordinamento creato da Napoleone in Francia e negli Stati vassalli.
Una seria analisi del disastro del 1806 non poteva non portare alla conclusione che se l’esercitosi era letteralmente polverizzato, se la popolazione non aveva offerto nessuna resistenza, se il re Federico Guglielmo III aveva dovuto umiliarsi fino all’inverosimile, ciò era dipeso essenzialmente dall’arretratezza degli ordinamenti politici e sociali. Così si cercò di riformarli, dapprima per iniziativa del ministro barone di Stein (che fu poi espulso per ordine di Napoleone) e poi di Hardenberg e Scharnborst.
Fu abolito il servaggio, fu consentito ai contadini il diritto al possesso fondiario (fino allora riservato ai nobili), la nobiltà fu assoggettata al pagamento delle imposte indirette, furono redatti nuovi regolamenti militari, fu riorganizzato l’insegnamento universitario sotto la direzione del filosofo Friedrich Wilhelm von Humbold.
Diventò allora professore a Jena Georg Wilhelm Friedrich Hegel.
La classe dirigente prussiana rinnovò se stessa, arrestandosi di fronte al provvedimento che era invece il fondamento di ogni opera di riforma nei domini napoleonici: l’abolizione della feudalità e delle distinzioni giuridiche tra le classi sociali.
In Russia, la volontà riformistica dello zar Alessandro I, si arrestò ancora prima. I progetti di riforma elaborati dal ministro Speransky incontrarono una decisa opposizione nella grande aristocrazia, ed il tentativo si concluse con l’esilio del ministro riformatore.
A confronto con questi tentativi e con l’immobilismo e l’arcaicità delle istituzioni civili e politiche in Austria, l’opera di riforma svolta nell’area del Grande impero appare pur con i suoi limiti e le sue contraddizioni, profondamente rinnovatrice.
Nel Regno d’Italia, con l’adozione delle istituzioni e delle leggi francesi, furono definitivamente liquidati i residui feudali. La borghesia terriera si rafforzò attraverso l’acquisto dei beni ecclesiastici espropriati, l’abolizione degli istituti feudali e la privatizzazione dei demani pubblici; commercio e industria furono avvantaggiati dalla soppressione delle barriere doganali interne in una larga parte dell’Italia del nord, dall’unificazione dei pesi e delle misure, dalla creazione di infrastrutture (strade, canali, scuole, ecc. ), dal riordinamento fiscale e finanziario.
Un esercito nazionale, organizzato attraverso il sistema della coscrizione obbligatoria, partecipò alle diverse campagne napoleoniche: fu un fattore di rafforzamento dei legami tra italiani di varie regioni (mentre ancora erano dominanti il municipalismo e lo spirito localistico anche nei ceti più elevati) e terreno di formazione non solo strettamente militare ma anche politica di nuove forze dirigenti.
Analoga funzione ebbe l’esercito napoletano, creato principalmente ad opera di Gioacchino Muat. Tra i suoi ufficiali si formarono i primi nuclei dei movimenti politici risorgimentali che si svilupparono dopo la fine dell’età napoleonica. A Napoli il provvedimento più importante fu l’eversione della feudalità, promossa con una legge del 2 agosto 1806 e seguita dalla espropriazione delle terre ecclesiastiche e da un’altra legge che stabilì la quotizzazione dei demani comunali.

La borghesia agiata si servì di questa legge soprattutto per espandere i latifondi, mantenendo lo squilibrio già esistente nella distribuzione della proprietà fondiaria e l’oppressione delle masse contadine. La questione demaniale (cioè i problemi creati dalla divisione dei demani pubblici) rimase a lungo aperta nel Mezzogiorno e fu una fonte di aspre lotte tra contadini e proprietari. Ma, in complesso, per la prima volta la struttura sociale arretrata del regno ricevette una scossa e lo sviluppo della borghesia imprenditoriale fu agevolato.

Una linea non diversa seguì l’azione di riforma negli Stati tedeschi francesizzati o posti sotto l’influenza della Francia. Il codice civile fu adottato, oltre che nei territori annessi, anche nella Confederazione del Reno; all’economia tedesca fu particolarmente utile il superamento dell’eccessivo frazionamento politico territoriale.
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Napoleone alla battaglia di Borodino
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La campagna di Russia e la fine dell’Impero

La carica rinnovatrice dell’opera di riforma nell’area napoleonica fu tuttavia limitata da alcune condizioni sfavorevoli, create dallo stesso dominio francese. Territori annessi e Stati vassalli furono considerati come zone di sfruttamento a vantaggio della Francia (che era allora il paese più industrializzato del continente); le loro esigenze furono in ogni caso subordinate a quelle di una guerra che richiedeva una immensa mobilitazione di uomini e di risorse.
La posizione della Francia nel sistema imperiale fu assolutamente privilegiata, e Napoleone non mancò di ricordare ripetutamente ai regnanti suoi familiari ed ai suoi rappresentanti che la loro politica doveva avere come obiettivo principale, se non esclusivo, il potenziamento dell’apparato produttivo e della forza militare della Francia.
Questa linea non fu sempre puntualmente realizzata, poiché governare Napoli o la Vestfalia o l’Olanda tenendo conto soltanto degli interessi francesi non era facile, né, in definitiva, possibile; ma lo fu tanto da costituire un serio contrappeso negativo ai benefici delle riforme e da ostacolare l’espansione produttiva e l’evoluzione sociale alle quali l’abbattimento del sistema feudale aveva in qualche misura aperto la strada. Oltre i gravi contributi finanziati, Napoleone impose un sistema doganale e di proibizioni che aveva l’obiettivo di fare svolgere ai territori dell’impero una funzione economica subalterna, in quanto essi dovevano fornire materie prime alle industrie francesi e costituire a loro volta mercati riservati e privilegiati per i manufatti di quelle industrie.

Un altro limite fu costituito dallo spirito di compromesso col quale le riforme furono attuate, limite particolarmente grave nelle regioni economicamente e socialmente più arretrate (come, per esempio, il regno di Napoli e la Polonia). Il moderatismo eccessivo delle forze politiche alle quali Napoleone si collegò (ancora pervase da un vigoroso spirito municipalistico, e più interessate alle speculazioni ed all’acquisto di rendite che allo sviluppo produttivo) impedì che le nuove leggi operassero in profondità. A differenza di quanto era avvenuto in Francia lungo tutto il corso della rivoluzione, le riforme agrarie non furono tali da cointeressare i contadini; questi videro aboliti i servizi personali (ormai caduti in disuso in Occidente), ma non gli obblighi reali (censi, decime, canoni vari legati all’uso della terra) che nella maggior parte dei casi furono semplicemente dichiarati riscattabili.

L’ alleanza franco-russa, stabilita con la pace di Tilsit, non fu mai solida. L’aristocrazia russa non aveva ragioni per desiderare l’accordo con una Francia che, malgrado tutto, restava il focolaio del contagio rivoluzionario e che creava ostacoli ai rapporti commerciali con l’Inghilterra, la principale acquirente delle materie prime russe (grano, legname).
Dopo Tilsit, l’influenza francese si era ulteriormente allargata alla Svezia, dove era stato insediato come reggente, in previsione della successione a Carlo XIII, un maresciallo napoleonico, Bernadotte.
Napoleone si era impadronito della Pomerania svedese e non aveva esitato ad annettere alla Francia il territorio del Duca di Oldenburg, genero dello zar.
Aveva accentuato la pressione sulla Confederazione renana ed esigeva, infine, che il blocco fosse reso più completo ed effettivo nel settore del Baltico, un settore vitale per la Russia.
Alessandro, da parte sua, aveva occupato la Finlandia ed iniziato una guerra in Turchia; ciò rientrava nel disegno di spartizione delle zone di influenza. Ma si era anche adoperato con successo per staccare la Svezia dall’influenza francese e per assicurarsi l’alleanza di Bernadotte, il quale, divenuto reggente, aveva rinnegato gli interessi e la politica del suo ex padrone; infine, sotto la pressione della nobiltà, aveva adottato una tariffa doganale che ostacolava l’importazione di prodotti francesi in Russia e rifiutava di vietare l’importazione di prodotti coloniali provenienti dall’Inghilterra su navi neutrali.
Fin dai primi mesi del 1811 Napoleone ritenne inevitabile lo scontro con la Russia e lo preparò accuratamente. Segni di crisi non mancavano all’interno del suo impero. Nella stessa Francia l’opposizione cattolica si era irrigidita in seguito alla prigionia del papa e si era largamente diffusa una società segreta realista di ispirazione cattolica, organizzata da Ferdinand le Bertier, i Cavalieri della fede.

La severità del regime di polizia ed il malcontento per le leve militari rischiavano di creare una frattura insanabile tra il regime e il paese. Tuttavia le difficoltà non mancavano anche nel campo avverso. L’Inghilterra attraversò nel 1811 una gravissima crisi economica provocata in parte dall’impossibilità di riversare sui continente la crescente produzione dell’industria tessile. Come conseguenza della crisi, si sviluppò una vasta agitazione sociale che culminò nel movimento luddita: gruppi di operai, contadini ed artigiani si diedero a distruggere le nuove macchine, la cui introduzione aveva avuto come effetto la riduzione della manodopera. Sul piano politico il governo dei tories aveva bloccato ogni riforma, assicurando il predominio di una ristretta oligarchia di grandi proprietari e creando un terreno favorevole alle rivalità personali ed alla corruzione. Infine, il controllo al quale l’Inghilterra pretese di sottoporre le navi americane per impedire il traffico con la Francia, provocò nel 1812 una guerra con gli Stati Uniti, che per qualche tempo alleggerì la pressione inglese in Europa.

Quanto all’Austria ed alla Prussia, esse non erano in grado di resistere alla volontà di Napoleone. Nel quadro della preparazione della campagna di Russia, Federico Guglielmo III Francesco II furono obbligati a sottoscrivere un’alleanza militare con la Francia ed a fornire contingenti di truppe come gli altri Stati del continente.
La Germania divenne una vasta base per l’offensiva contro la Russia.
Nell’aprile del 1812 Alessandro formulò le richieste che dovevano fornire l’occasione immediata della guerra: evacuazione della Prussia e della Pomerania svedese da parte delle truppe francesi e stipulazione di accordi commerciali sulla base della libertà di commercio dei neutrali.
Nel maggio, lo zar ritirò le sue truppe dalla Turchia, che firmò la pace di Bucarest e cedette la Bessarabia.
L’immenso esercito francese schierato contro la Russia contava oltre 600.000 uomini, di cui soltanto la metà erano francesi. Attraversato il Niemen il 24 giugno con la maggior parte delle truppe, Napoleone intendeva agganciare l’esercito russo e decidere con una battaglia risolutiva le sorti della guerra. Equipaggiamento e rifornimento della colossale spedizione erano stati organizzati in vista di una breve campagna. La tattica adottata dal comando russo, affidato al ministro della guerra Barclay de Tolly, non permise l’attuazione di questo piano. I russi indietreggiavano, deludendo l’aspettativa di Napoleone.
Una prima battaglia si svolse soltanto a metà di agosto, a Smolensk, ma solo una parte dell’esercito russo fu impegnata. Il grosso procedeva ordinatamente alla ritirata, incendiando dietro di se villaggi e depositi e lasciando ai francesi la terra bruciata.
Una seconda battaglia, di proporzioni più vaste, si svolse non lontano da Mosca, nei pressi del villaggio fortificato di Borodino.
La resistenza russa fu accanita; le truppe ora erano comandate dal generale Kutuzov. Napoleone poté entrare a Mosca il 14 settembre, ma senza avere annientato l’esercito russo, che ripiegò al di là della capitale.
Come era avvenuto nei paesi e villaggi, anche Mosca fu abbandonata dalla popolazione e quasi completamente distrutta da un incendio, che durò dal 15 al 18 settembre. Napoleone tentò senza esito di giungere a trattative con lo zar.
Intanto la guerriglia divampava nelle zone in cui erano rimasti distaccamenti francesi. Di fronte al rifiuto dello zar di trattare ed all’impossibilità di inseguire ancora l’esercito russo, Napoleone decise di ritirarsi. L’unica alternativa che gli si offriva (e che la nobiltà russa temeva più di tutto)
era quella di suscitare una rivolta contadini antifeudale, proclamando l’abolizione della servitù e dei diritti feudali.
Durante il soggiorno a Mosca, egli pensò a questo e si fece fare relazioni sulla storia delle rivolte di Pugaciov. Ma oramai era troppo lontano dall’esperienza giacobina per risolversi ad adottare questa linea. La rivolta contadina era estranea alla sua concezione della guerra e della lotta politica.
La ritirata fu iniziata mentre cominciava l’inverno. Il freddo, la mancanza di rifornimenti, i continui attacchi della cavalleria cosacca e dei partigiani fecero strage dell’esercito francese. I resti della Grande armata furono ulteriormente decimati dalle truppe russe al passaggio della Beresina: appena ventimila uomini riuscirono a riattraversare, il 18 dicembre, il Niemen.
Napoleone rientrò subito a Parigi, dove un generale aveva appena tentato di fare un colpo di Stato annunciando la morte dell’imperatore.
Mentre i russi penetravano nel territorio tedesco, la Prussia diede l’avvio alla sollevazione della Germania contro il dominio napoleonico. Federico Guglielmo, sotto la pressione del movimento nazionale, entrò nella sesta coalizione, insieme alla Russia ed all’Inghilterra.
La Confederazione del Reno si dissolse. Napoleone, che intanto aveva ricostituito l’esercito reclutando una leva di giovanissimi, si portò in Germania e ottenne due vittorie sui prussiani (Lutzen e Bautzen, maggio 1813).
Il cancelliere austriaco, principe di Metternich, tentò di farsi mediatore tra le due parti, proponendo alla Francia il ritorno alla situazione fissata con la pace di Campoformio. Al rifiuto di Napoleone, anche l’Austria entrò nella coalizione. Gli alleati, che potevano contare su una forza numerica superiore, affrontarono Napoleone e lo sconfissero a Lipsia dal 16 al 18 ottobre.

Gli austriaci passarono all’offensiva anche in Italia. Murat abbandonò l’imperatore, nella speranza di conservare il regno, e, come alleato dell’Austria, attaccò da Sud il Regno d’Italia, difeso dal viceré Eugenio Beauharnais. Gli inglesi intanto avevano espulso le truppe francesi dalla Spagna ed anche l’Olanda era stata evacuata.

La guerra tornava a svolgersi sul suolo francese. Il regime mostrò allora la sua sostanziale debolezza: nel paese, stanco della dittatura e della guerra, non vi fu più quella generale mobilitazione di energie e di sentimenti nazionali e popolari che nel 1792-93 era stata opposta all’invasione straniera.
D’altra parte gli alleati – che il 9 marzo 1814 col trattato di Chaumont si impegnarono a non trattare separatamente ed a proseguire la lotta fino alla caduta dell’imperatore – proclamarono di ritenere soltanto Napoleone e non il popolo francese responsabile della guerra.
Parigi fu occupata il 31 marzo da russi e prussiani, Talleyrand divenne capo di un governo provvisorio ed il Senato dichiarò decaduto l’imperatore. Questi avrebbe voluto continuare la resistenza, ma i suoi generali, convinti della irrimediabilità della sconfitta, lo indussero ad abdicare (6 aprile 1814). Gli fu data, come possedimento e luogo di esilio, l’isola d’Elba. Sul trono di Francia fu posto, col nome di Luigi XVIII, un fratello del re ghigliottinato.
Sulle decisioni finali del congresso di Vienna (in particolare sul rafforzamento delle barriere attorno alla Francia) influì l’ultima avventura di Napoleone e l’allarme che essa suscitò nel mondo. L’ex imperatore non si era rassegnato alla sorte che gli era stata assegnata e temeva – non senza ragione – che gli alleati volessero aggravarla deportandolo in un luogo più sperduto. Il malcontento suscitato in Francia dalla restaurazione dei Borboni e dallo spirito di rivincita e di vendetta della vecchia nobiltà feudale tornata al seguito degli eserciti vincitori, lo convinse della possibilità di riguadagnare popolarità e fiducia nel paese.
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La battaglia di Waterloo
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I “cento giorni” e la battaglia di Waterloo

Abbandonata l’isola d’Elba, sbarcò sulla costa francese il 1° marzo 1815.
La popolazione lo accolse con entusiasmo, e le truppe inviate a fermarlo si misero sotto il suo comando.
Il 20 marzo potè entrare a Parigi, che Luigi XVIII aveva abbandonato il giorno prima, e insediarsi nel palazzo reale.
L’opera politica che egli svolse durante i “cento giorni” cominciò con un tentativo di liberalizzare la costituzione dell’impero e di risvegliare lo spirito rivoluzionario.
Beniamin Constant, che era stato uno degli oppositori liberali del regime, fu chiamato a redigere un Atto addizionale alle Costituzioni dell’Impero e l’ex repubblicano Carnot fu nominato ministro dell’interno.
Nello stesso tempo Napoleone rivolse agli alleati un invito a non ingerirsi negli affari interni della Francia, lasciando intendere che non aveva da parte sua intenzioni aggressive.
Il congresso di Vienna aveva però anticipato la risposta con una dichiarazione del 13 marzo, che metteva Napoleone al bando dall’Europa.
L’intervento armato degli alleati in Francia era già deciso fin da quando si era avuta notizia della fuga. A Napoleone non restò altra possibilità che cercare di prevenire l’attacco, prendendo l’iniziativa contro gli eserciti alleati che si trovavano in Belgio sotto il comando del prussiano Blücher e del Vellesley (divenuto duca di Wellington).
L’armata di Blücher fu battuta a Ligny. Lasciato al generale Grouchy l’incarico di inseguirla, Napoleone si diresse contro il duca di Wellington. Lo scontro avvenne a Waterloo, il 18 giugno 1815. Napoleone stava per ottenere la vittoria quando le truppe prussiane, sfuggite all’inseguimento, si congiunsero con quelle inglesi; le sorti della battaglia furono capovolte.
Dopo Waterloo, Napoleone tentò la fuga negli Stati Uniti. Ma la vigilanza della flotta inglese non gli permise di attuarla. Egli si fece condurre quindi a bordo di una nave inglese, il Bellerofonte, dichiarando di volersi mettere sotto la protezione dell’Inghilterra.
Fu mandato nell’isola di Sant’Elena, dove morì il 5 maggio 1821.
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Napoleone I sul trono imperiale (1806)
Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780–1867)
Musée de l’Armée – Parigi
Olio su tela cm 259 x 162