NAPOLEONE BONAPARTE
Dov’erano finiti i milioni che Bonaparte aveva mandato dall’Italia?
Com’era avvenuto che, nel giro di due anni i Francesi erano stati costretti a passare dall’entusiasmo per la conquista dell’Italia e dell’Egitto alla paura dell’invasione e della totale rovina?
Com’era avvenuto che controrivoluzionari avevano potuto rialzare la testa in Vandea ed il banditismo e la chouannerie dilagavano in Bretagna e in Normandia?
L’opinione pubblica si poneva questi interrogativi: e la figura del generale vittorioso si ingigantiva nel confronto con un governo che appariva incapace e corrotto. Altro motivo di preoccupazione per la borghesia, le elezioni del 1798 per il rinnovo del terzo dei Consigli avevano visto aumentare il numero dei rappresentanti di tendenza giacobina. Il Direttorio era stato costretto ad annullare con un nuovo colpo di forza i risultati elettorali in alcune circoscrizioni (22 floreale 1798) ed a sostituire gli eletti con deputati fedeli al governo. Si fece strada l’idea di rafforzare l’esecutivo e di modificare la costituzione dell’anno III, ritenuta eccessivamente liberale. Il Sieyès, nominato nel 1799 membro del Direttorio, era il principale sostenitore di questo programma.
Fallito il tentativo di salvare la forma costituzionale, il colpo di Stato fu attuato mediante l’intervento delle truppe che invasero l’aula del Consiglio, cacciandone i deputati prima che potessero mettere fuori legge Bonaparte. Più tardi alcuni deputati furono costretti a tornare nell’aula ed a votare lo scioglimento della propria assemblea, mentre il Consiglio degli Anziani affidava il governo della Repubblica ad un Consolato formato da Bonaparte, Sieyès e Ducos, Gli organizzatori politici del colpo credevano di essersi serviti del prestigio di Bonaparte per una operazione politica che avrebbe concentrato il potere nelle loro mani. Essi non si rendevano conto che invece, una volta abbattuto il sistema rappresentativo, Bonaparte era diventato il vero padrone della situazione. Egli infatti riuscì facilmente ad assicurarsi la preminenza sugli altri membri del nuovo governo. La Costituzione dell’anno VIII, redatta entro un mese dal colpo di Stato, ratificò il nuovo assetto politico, dando al primo console, che fu lo stesso Bona parte, il potere effettivo ed agli altri due semplicemente il voto consultivo e creando un complicatissimo meccanismo elettorale e di elaborazione delle leggi che assicurava in sostanza il potere personale del generale.
Eletti dal popolo o nominati dall’esecutivo, i nuovi organi non ebbero più alcun potere di controllo e furono concepiti come strumenti dell’autorità consolare. Il regime assembleare, che era stato il cuore pulsante della vita politica rivoluzionaria, era ormai definitivamente distrutto. Bonaparte si servì del potere che aveva conquistato per sopprimere la libertà di stampa, per riorganizzare l’amministrazione pubblica, per combattere a fondo il banditismo che imperversava nelle regioni centrali e meridionali del paese, ristabilire l’equilibrio del bilancio, Fu creato un efficientissimo apparato di polizia che faceva capo ad un apposito ministero diretto dall’abilissimo Fouché.
La rivoluzione aveva ormai concluso il suo corso. Il dominio della borghesia era assicurato, sia pure a spese della libertà.
Non mancava che la riaffermazione del prestigio militare per consolidare il nuovo regime, annientare le speranze dei realisti e dei loro sostenitori stranieri e liquidare i resti del democratismo rivoluzionario.
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Jacques-Louis David (1748–1825)
Château de Malmaison – Parigi
Olio su tela cm 259 x 221
La seconda campagna d’Italia
Furono riconfermati i termini del trattato di Campoformio e quindi riconosciuti alla Francia i territori del Belgio, della regione renana e della Repubblica cisalpina (che mutò il suo nome in quello di Repubblica italiana e nominò come suo presidente lo stesso Bonaparte). La Repubblica batava e la Repubblica svizzera furono ricostituite ed il Piemonte fu nuovamente annesso alla Francia. La Toscana, divenuta Regno d’Etruria, fu data al duca di Parma.
Nel nuovo ordine borghese, non più minacciato dalle agitazioni democratiche e popolari, tutte le forze conservatrici potevano infatti trovare le più ampie garanzie. Esclusa ormai, dopo il 18 brumaio, la prospettiva di nuove sorprese rivoluzionarie, caratteri e limiti delle nuove istituzioni erano stabilmente delineati.
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IL consolato
Già all’indomani del 18 brumaio la libertà del culto cattolico era stata assicurata, molti preti erano stati richiamati dall’esilio e tratti dalle prigioni. Sulla base di queste concrete premesse furono avviati i negoziati con la Santa Sede, mentre la seconda campagna d’Italia era ancora in corso. Nella situazione creata dalla vittoria di Marengo, il papa Pio VII (1800-1823) accettò le proposte che venivano da Bonaparte. Il Concordato, negoziato per la parte pontificia dal cardinale Consalvi, fu stipulato il 16 luglio 1801.
Il cattolicesimo fu riconosciuto come religione della maggioranza dei Francesi, e quindi protetta e sostenuta dallo Stato, che si assunse l’onere di stipendiare il clero. Al primo console spettava la nomina dei vescovi, ai quali il papa doveva dare l’investitura spirituale. Da parte sua il papa riconobbe la Repubblica e rinunciò alla rivendicazione dei beni confiscati alla Chiesa.
Al momento della ratifica, il concordato incontrò la decisa opposizione di una parte dei deputati delle assemblee. Bonaparte epurò il Tribunato (una delle assemblee che, con il Corpo legislativo ed il Senato aveva il compito di discutere le leggi nel regime consolare) escludendo gli oppositori; nello stesso tempo, però, fece approvate gli Articoli organici del culto cattolico (inseriti in una legge generale dei culti), con i quali si attribuiva allo Stato un ampio potere di controllo sulla vita ecclesiastica, secondo le tradizioni gallicane.
Il fulcro della nuova organizzazione scolastica furono i licei. L’istruzione superiore rimase di fatto riservata ai giovani appartenenti alle classi elevate e un rigido controllo sull’insegnamento e sulla disciplina assicurò la fedeltà di studenti e docenti al governo.
La ripresa della guerra
Esso rispecchiava l’evoluzione storica che aveva portato al potere la borghesia, confermando la soppressione dei privilegi feudali e dei vincoli alla proprietà, l’eguaglianza davanti alla legge, la libertà personale.
L’accento era posto decisamente sulla tutela della proprietà privata e sulla libertà di iniziativa, che costituirono i cardini del nuovo assetto giuridico; le esigenze dei non possidenti e dei lavoratori salariati non erano neppure prese in considerazione, se non in quanto era garantita a tutti la libertà formale di disporre di se stessi e l’eguaglianza giuridica.
Mentre l’opera legislativa era in corso di realizzazione, l’ordinamento costituzionale subì una rapida evoluzione che trasformò la repubblica fondata sul predominio dei “notabili” in una vera e propria monarchia. Dopo la pace di Amiens, infatti, come “pegno di riconoscenza nazionale”, il Senato rielesse Bonaparte per dieci anni; poco dopo fu proposto che egli assumesse il consolato a vita. La proposta, sottoposta a plebiscito, raccolse una grande maggioranza di voti favorevoli (3.500.000 contro 8.374). Proclamato console a vita (2 agosto 1802) Bonaparte fece subito approvare la Costituzione dell’Anno X, con la quale accrebbe i propri poteri e si attribuì il diritto di designare il candidato alla successione. Il regime consolare non differiva più se non di nome dalla monarchia. Il consenso dei cittadini più ragguardevoli per ricchezza e autorità sociale e dei ralliès compensava il risentimento e la delusione dei repubblicani.
Il trattato di Amiens non fu seguito da una svolta nella politica economica ed estera e dall’effettivo ristabilimento delle relazioni commerciali tra i due paesi. In fase di intenso sviluppo industriale, l’Inghilterra era più che mai interessata al libero accesso nei mercati europei. I suoi mercanti e i suoi industriali avrebbero potuto accettare le conseguenze economiche negative della pace (ristabilimento del dominio coloniale francese, restituzione di colonie, chiusura delle industrie belliche, fine del monopolio commerciale in alcuni settori) soltanto a condizione di trovare un compenso nella ripresa di liberi rapporti di scambio con I’Europa continentale.
La Francia riprese anche la sua iniziativa nelle Antille, malgrado le difficoltà create dalla rivolta delle popolazioni negre, e tentò di ristabilire le proprie posizioni nella Luisiana (quest’ultimo progetto fu poi abbandonato e la Luisiana fu venduta nel 1803 agli Stati Uniti per 80 milioni). Bonaparte rivolse infine la sua attenzione ad un altro settore, minacciando più direttamente gli interessi inglesi: l’invio di missioni diplomatiche e commerciali francesi in Egitto, in Siria e in India diede agli inglesi la convinzione che la Francia non avesse abbandonato i disegni espansionistici in Oriente.
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La formazione del Grande Impero
La cerimonia si svolse il 2 dicembre 1804 nella cattedrale di Notre Dame.
Vera o inventata, la frase indica quali fossero in quel momento i sentimenti dei repubblicani.
Sieyès, colui che nel 1789 aveva sostenuto che la nazione si identificava col terzo stato, divenne conte. Il reinserimento degli aristocratici ex borbonici fu ulteriormente facilitato.
Anche la Prussia, entrata in guerra nel 1806 (quarta coalizione) fu irrimediabilmente sconfitta nelle battaglie di Jena e di Auerstedt; l’esercito francese penetrò nel regno occupandone le città ed i luoghi fortificati senza incontrare più nessuna resistenza. A differenza delle sue alleate, la Russia mantenne Ia sua capacità militare anche dopo le sconfitte subite ad Eylau ed a Friedland nel 1807.
Lo zar Alessandro I era ormai sul continente l’unico sovrano al quale Napoleone non poteva dettare legge. II trattato di Tilsit, stipulato nel 1807, rispecchia l’equilibrio di forze tra i due imperi e getta le basi di una alleanza in vista della divisione dell’Europa in due grandi zone di influenza.
Prostrata e smembrata, la Prussia restò alla mercé di Napoleone; l’Austria tentò invece di risollevarsi nel 1809. II suo tentativo (che diede il via alla quinta coalizione) fu stroncato da Napoleone nella battaglia di Wagram e la nazione vinta dovette subire nuove e pesanti imposizioni dal vincitore nella pace di Schönbrunn (1809). All’imperatore Francesco II si offrì una possibilità di attenuare la durezza della sconfitta quando Napoleone divorziò da Giuseppina e manifestò il proposito di imparentarsi con una casa regnante. Il sovrano austriaco fu ben contento di offrirgli in sposa la figlia diciottenne Maria Luisa. L’erede che Napoleone desiderava nacque nel 1811 ed ebbe il significativo titolo di re di Roma.
L’egemonia o il dominio diretto della Francia si arrestarono soltanto ai confini della Russia. Direttamente o indirettamente tutta l’Italia, escluse le isole, fu posta sotto il dominio francese. Il Veneto, sottratto all’Austria, fu aggregato al Regno di Italia (istituito nel 1805 nel territorio dell’ex Repubblica cisalpina: Napoleone ne aveva cinto la corona ed aveva assegnato la carica di viceré al figliastro Eugenio Beauharnais).
Nel 1806 i Borboni di Napoli furono espulsi dal loro regno, la cui corona fu data ad un fratello dell’imperatore, Giuseppe. Anche questa volta i sovrani si rifugiarono in Sicilia, sotto la protezione inglese, e da qui tentarono di suscitare una insurrezione popolare antifrancese come quella del 1799. Riuscirono soltanto a provocare in Calabria un vasto sussulto di brigantaggio che, sostenuto dagli inglesi e dalla popolazione contadina, diede molto filo da torcere alle truppe francesi.
La Toscana fu riunita all’impero francese e successivamente eretta in granducato ed affidata ad una sorella dell’imperatore, Elisa Baciocchi. Anche lo Stato della Chiesa fu occupato tra il 1807 ed il 1808; il papa fu deportato da Roma e tenuto prigioniero, prima a Savona e poi a Fontainebleau.
Le Marche furono aggregate al Regno d’Italia, mentre il resto dello Stato pontificio fu annesso alla Francia.
Il nuovo assetto dell’Europa continentale
Anche la Dalmazia e l’Istria furono tolte all’Austria col trattato di Presburgo e costituirono un dominio diretto della Francia col nome di Province Illiriche. Ad esse furono aggregate, dopo Wagram, col trattato di Schönbrunn, Trieste, Fiume, la Carinzia, la Carniola e la Croazia.
Dallo smembramento della Prussia sorse anche, ad occidente dell’Elba, il Regno di Vestfalia, sul cui trono fu posto un altro fratello di Napoleone, Gerolamo.
L’Olanda fu dapprima trasformata in regno, sotto la sovranità di Luigi Bonaparte, fratello di Napoleone (1806). In seguito (1810) fu annessa alla Francia, come era già stato il Belgio.
Da Berlino, dopo la disfatta della Prussia, Napoleone aveva interdetto a tutti i paesi europei il commercio con l’Inghilterra. Le disposizioni per il blocco furono via via aggravate con i decreti emanati a Fontainebleau ed a Milano (1807); Napoleone si propose di effettuare ulteriori annessioni per eliminare le teste di ponte commerciali che l’Inghilterra aveva ancora in Europa.
In questo quadro va considerata l’invasione del Portogallo effettuata nel 1807.
La rivolta di Madrid del 2 maggio 1808, duramente repressa dalle truppe francesi, fu il segno premonitore di un movimento insurrezionale che avrebbe impegnato l’esercito francese in una guerriglia estenuante, sbilanciando la distribuzione delle forze militari all’interno del grande impero e segnando la prima grave incrinatura nel sistema politico creato da Napoleone.
Per quanto arbitrarie siano state le costruzioni politiche napoleoniche (ed arbitraria fu soprattutto la pretesa di assoggettare nuovi e vecchi organismi politici agli interessi dello imperialismo francese) in definitiva lo furono meno di quelle elaborate nel corso delle guerre e delle operazioni diplomatiche dell’ancien régime, che rispondevano al criterio dell’equilibrio tra le grandi potenze o erano basate su interessi dinastici e sul diritto feudale. I casi più significativi sono quelli della Confederazione del Reno, dell’Italia (dove una serie di
sopravvivenze medievali, dalla repubblica di Genova al dominio temporale della Chiesa, furono eliminate) e della Polonia, dove fu ricostituito un primo abbozzo di Stato nazionale. Indirettamente, poi, la separazione dell’Europa continentale dalle terre d’oltremare durante le guerre napoleoniche ebbe nei domini coloniali di Francia, Spagna, Olanda e Portogallo un duplice effetto: consentì all’Inghilterra d’impadronirsi di una parte di essi e di crearsi negli altri (specialmente nelle colonie latino-americane) nuovi sbocchi commerciali; ma nello stesso tempo permise il sorgere di movimenti di indipendenza dei popoli soggetti, che costituirono nell’America latina la premessa della creazione di nuovi Stati nazionali.
Napoleone alla battaglia del Ponte di Arcole
Riforme e progresso nell’area napoleonica
In quasi tutta questa area fu abolito il feudalesimo, fu introdotto il codice civile francese (che si ispirava ai principi dell’89, come ho già detto, sia pure filtrati attraverso le esperienze della reazione termidoriana, del Direttorio e del Consolato, e li traduceva in una legislazione positiva), fu creata una nuova e più moderna struttura amministrativa, fu laicizzato lo Stato, fu affermata la tolleranza religiosa. Lo sviluppo del sistema capitalistico (con l’ammodernamento dell’apparato produttivo e dei rapporti sociali) ricevette un forte impulso e la borghesia cominciò a fare le prime esperienze di governo e di amministrazione pubblica. Anche gli organismi militari furono rinnovati e fu aperto ai non nobili l’accesso ai più alti comandi.
Una seria analisi del disastro del 1806 non poteva non portare alla conclusione che se l’esercitosi era letteralmente polverizzato, se la popolazione non aveva offerto nessuna resistenza, se il re Federico Guglielmo III aveva dovuto umiliarsi fino all’inverosimile, ciò era dipeso essenzialmente dall’arretratezza degli ordinamenti politici e sociali. Così si cercò di riformarli, dapprima per iniziativa del ministro barone di Stein (che fu poi espulso per ordine di Napoleone) e poi di Hardenberg e Scharnborst.
Fu abolito il servaggio, fu consentito ai contadini il diritto al possesso fondiario (fino allora riservato ai nobili), la nobiltà fu assoggettata al pagamento delle imposte indirette, furono redatti nuovi regolamenti militari, fu riorganizzato l’insegnamento universitario sotto la direzione del filosofo Friedrich Wilhelm von Humbold.
Diventò allora professore a Jena Georg Wilhelm Friedrich Hegel.
La classe dirigente prussiana rinnovò se stessa, arrestandosi di fronte al provvedimento che era invece il fondamento di ogni opera di riforma nei domini napoleonici: l’abolizione della feudalità e delle distinzioni giuridiche tra le classi sociali.
In Russia, la volontà riformistica dello zar Alessandro I, si arrestò ancora prima. I progetti di riforma elaborati dal ministro Speransky incontrarono una decisa opposizione nella grande aristocrazia, ed il tentativo si concluse con l’esilio del ministro riformatore.
Nel Regno d’Italia, con l’adozione delle istituzioni e delle leggi francesi, furono definitivamente liquidati i residui feudali. La borghesia terriera si rafforzò attraverso l’acquisto dei beni ecclesiastici espropriati, l’abolizione degli istituti feudali e la privatizzazione dei demani pubblici; commercio e industria furono avvantaggiati dalla soppressione delle barriere doganali interne in una larga parte dell’Italia del nord, dall’unificazione dei pesi e delle misure, dalla creazione di infrastrutture (strade, canali, scuole, ecc. ), dal riordinamento fiscale e finanziario.
Un esercito nazionale, organizzato attraverso il sistema della coscrizione obbligatoria, partecipò alle diverse campagne napoleoniche: fu un fattore di rafforzamento dei legami tra italiani di varie regioni (mentre ancora erano dominanti il municipalismo e lo spirito localistico anche nei ceti più elevati) e terreno di formazione non solo strettamente militare ma anche politica di nuove forze dirigenti.
La borghesia agiata si servì di questa legge soprattutto per espandere i latifondi, mantenendo lo squilibrio già esistente nella distribuzione della proprietà fondiaria e l’oppressione delle masse contadine. La questione demaniale (cioè i problemi creati dalla divisione dei demani pubblici) rimase a lungo aperta nel Mezzogiorno e fu una fonte di aspre lotte tra contadini e proprietari. Ma, in complesso, per la prima volta la struttura sociale arretrata del regno ricevette una scossa e lo sviluppo della borghesia imprenditoriale fu agevolato.
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La campagna di Russia e la fine dell’Impero
La posizione della Francia nel sistema imperiale fu assolutamente privilegiata, e Napoleone non mancò di ricordare ripetutamente ai regnanti suoi familiari ed ai suoi rappresentanti che la loro politica doveva avere come obiettivo principale, se non esclusivo, il potenziamento dell’apparato produttivo e della forza militare della Francia.
Questa linea non fu sempre puntualmente realizzata, poiché governare Napoli o la Vestfalia o l’Olanda tenendo conto soltanto degli interessi francesi non era facile, né, in definitiva, possibile; ma lo fu tanto da costituire un serio contrappeso negativo ai benefici delle riforme e da ostacolare l’espansione produttiva e l’evoluzione sociale alle quali l’abbattimento del sistema feudale aveva in qualche misura aperto la strada. Oltre i gravi contributi finanziati, Napoleone impose un sistema doganale e di proibizioni che aveva l’obiettivo di fare svolgere ai territori dell’impero una funzione economica subalterna, in quanto essi dovevano fornire materie prime alle industrie francesi e costituire a loro volta mercati riservati e privilegiati per i manufatti di quelle industrie.
Un altro limite fu costituito dallo spirito di compromesso col quale le riforme furono attuate, limite particolarmente grave nelle regioni economicamente e socialmente più arretrate (come, per esempio, il regno di Napoli e la Polonia). Il moderatismo eccessivo delle forze politiche alle quali Napoleone si collegò (ancora pervase da un vigoroso spirito municipalistico, e più interessate alle speculazioni ed all’acquisto di rendite che allo sviluppo produttivo) impedì che le nuove leggi operassero in profondità. A differenza di quanto era avvenuto in Francia lungo tutto il corso della rivoluzione, le riforme agrarie non furono tali da cointeressare i contadini; questi videro aboliti i servizi personali (ormai caduti in disuso in Occidente), ma non gli obblighi reali (censi, decime, canoni vari legati all’uso della terra) che nella maggior parte dei casi furono semplicemente dichiarati riscattabili.
Napoleone si era impadronito della Pomerania svedese e non aveva esitato ad annettere alla Francia il territorio del Duca di Oldenburg, genero dello zar.
Aveva accentuato la pressione sulla Confederazione renana ed esigeva, infine, che il blocco fosse reso più completo ed effettivo nel settore del Baltico, un settore vitale per la Russia.
La severità del regime di polizia ed il malcontento per le leve militari rischiavano di creare una frattura insanabile tra il regime e il paese. Tuttavia le difficoltà non mancavano anche nel campo avverso. L’Inghilterra attraversò nel 1811 una gravissima crisi economica provocata in parte dall’impossibilità di riversare sui continente la crescente produzione dell’industria tessile. Come conseguenza della crisi, si sviluppò una vasta agitazione sociale che culminò nel movimento luddita: gruppi di operai, contadini ed artigiani si diedero a distruggere le nuove macchine, la cui introduzione aveva avuto come effetto la riduzione della manodopera. Sul piano politico il governo dei tories aveva bloccato ogni riforma, assicurando il predominio di una ristretta oligarchia di grandi proprietari e creando un terreno favorevole alle rivalità personali ed alla corruzione. Infine, il controllo al quale l’Inghilterra pretese di sottoporre le navi americane per impedire il traffico con la Francia, provocò nel 1812 una guerra con gli Stati Uniti, che per qualche tempo alleggerì la pressione inglese in Europa.
La Germania divenne una vasta base per l’offensiva contro la Russia.
Nel maggio, lo zar ritirò le sue truppe dalla Turchia, che firmò la pace di Bucarest e cedette la Bessarabia.
Una prima battaglia si svolse soltanto a metà di agosto, a Smolensk, ma solo una parte dell’esercito russo fu impegnata. Il grosso procedeva ordinatamente alla ritirata, incendiando dietro di se villaggi e depositi e lasciando ai francesi la terra bruciata.
Una seconda battaglia, di proporzioni più vaste, si svolse non lontano da Mosca, nei pressi del villaggio fortificato di Borodino.
Come era avvenuto nei paesi e villaggi, anche Mosca fu abbandonata dalla popolazione e quasi completamente distrutta da un incendio, che durò dal 15 al 18 settembre. Napoleone tentò senza esito di giungere a trattative con lo zar.
Durante il soggiorno a Mosca, egli pensò a questo e si fece fare relazioni sulla storia delle rivolte di Pugaciov. Ma oramai era troppo lontano dall’esperienza giacobina per risolversi ad adottare questa linea. La rivolta contadina era estranea alla sua concezione della guerra e della lotta politica.
Napoleone rientrò subito a Parigi, dove un generale aveva appena tentato di fare un colpo di Stato annunciando la morte dell’imperatore.
La Confederazione del Reno si dissolse. Napoleone, che intanto aveva ricostituito l’esercito reclutando una leva di giovanissimi, si portò in Germania e ottenne due vittorie sui prussiani (Lutzen e Bautzen, maggio 1813).
Il cancelliere austriaco, principe di Metternich, tentò di farsi mediatore tra le due parti, proponendo alla Francia il ritorno alla situazione fissata con la pace di Campoformio. Al rifiuto di Napoleone, anche l’Austria entrò nella coalizione. Gli alleati, che potevano contare su una forza numerica superiore, affrontarono Napoleone e lo sconfissero a Lipsia dal 16 al 18 ottobre.
Gli austriaci passarono all’offensiva anche in Italia. Murat abbandonò l’imperatore, nella speranza di conservare il regno, e, come alleato dell’Austria, attaccò da Sud il Regno d’Italia, difeso dal viceré Eugenio Beauharnais. Gli inglesi intanto avevano espulso le truppe francesi dalla Spagna ed anche l’Olanda era stata evacuata.
Parigi fu occupata il 31 marzo da russi e prussiani, Talleyrand divenne capo di un governo provvisorio ed il Senato dichiarò decaduto l’imperatore. Questi avrebbe voluto continuare la resistenza, ma i suoi generali, convinti della irrimediabilità della sconfitta, lo indussero ad abdicare (6 aprile 1814). Gli fu data, come possedimento e luogo di esilio, l’isola d’Elba. Sul trono di Francia fu posto, col nome di Luigi XVIII, un fratello del re ghigliottinato.
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I “cento giorni” e la battaglia di Waterloo
Il 20 marzo potè entrare a Parigi, che Luigi XVIII aveva abbandonato il giorno prima, e insediarsi nel palazzo reale.
Beniamin Constant, che era stato uno degli oppositori liberali del regime, fu chiamato a redigere un Atto addizionale alle Costituzioni dell’Impero e l’ex repubblicano Carnot fu nominato ministro dell’interno.
Nello stesso tempo Napoleone rivolse agli alleati un invito a non ingerirsi negli affari interni della Francia, lasciando intendere che non aveva da parte sua intenzioni aggressive.
Il congresso di Vienna aveva però anticipato la risposta con una dichiarazione del 13 marzo, che metteva Napoleone al bando dall’Europa.
L’intervento armato degli alleati in Francia era già deciso fin da quando si era avuta notizia della fuga. A Napoleone non restò altra possibilità che cercare di prevenire l’attacco, prendendo l’iniziativa contro gli eserciti alleati che si trovavano in Belgio sotto il comando del prussiano Blücher e del Vellesley (divenuto duca di Wellington).
L’armata di Blücher fu battuta a Ligny. Lasciato al generale Grouchy l’incarico di inseguirla, Napoleone si diresse contro il duca di Wellington. Lo scontro avvenne a Waterloo, il 18 giugno 1815. Napoleone stava per ottenere la vittoria quando le truppe prussiane, sfuggite all’inseguimento, si congiunsero con quelle inglesi; le sorti della battaglia furono capovolte.
Dopo Waterloo, Napoleone tentò la fuga negli Stati Uniti. Ma la vigilanza della flotta inglese non gli permise di attuarla. Egli si fece condurre quindi a bordo di una nave inglese, il Bellerofonte, dichiarando di volersi mettere sotto la protezione dell’Inghilterra.
Fu mandato nell’isola di Sant’Elena, dove morì il 5 maggio 1821.
Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780–1867)
Musée de l’Armée – Parigi
Olio su tela cm 259 x 162
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